Frida Kahlo: a New York rivive la Casa Azul

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica.

Fino al primo novembre opere e vita di Frida Kahlo reinventano gli spazi del New York Botanical Garden del Bronx con la lussureggiante mostra inaugurata lo scorso maggio “Frida Kahlo: Art Garden Life”.

A curare la rigorosa e bella esposizione è la storica dell’arte Adriana Zavala, che insieme a Karen Daubmann (direttrice delle esposizioni del New York Botanical Garden e già ideatrice di progetti simili su Emily Dickinson e Claude Monet) e allo scenografo Scott Pask ha trasformato spazi e giardini dell’orto botanico newyorkese reinventando lo studio e il giardino di Frida Kahlo della sua leggendaria e bohèmienne Casa Azul di Coyoacán, appena fuori Città del Messico (la casa dove l’artista è nata, ha lungamente vissuto ed è morta, e che attualmente ospita il Museo Frida Kahlo).

Abbasso Bloom!

Oggi il critico letterario Harold Bloom compie ottantaquattro anni. Pubblichiamo un intervento di Edoardo Pisani.

di Edoardo Pisani

Come il Sainte-Beuve combattuto dal Proust postumo a inizio Novecento, Harold Bloom è considerato da molti uno dei maggiori critici letterari del nostro tempo, forse l’unico accademico a “godere” internazionalmente dello status di Grande Vecchio, di guru della letteratura. Il suo saggio più conosciuto, Il canone occidentale, è spesso letto e invocato quale baluardo estetico contro i critici marxisti o femministi o multiculturalisti o poststrutturalisti delle università americane, da lui definiti con sprezzo critici del Risentimento – quasi che Bloom non sia, a sua volta e più di altri, un risentito! Il canone bloomiano affonda le radici in Shakespeare, “aurora boreale visibile in un luogo che la maggior parte di noi non raggiungerà mai”, in Dante e in Cervantes, per poi innalzarsi e ramificarsi nella letteratura di tutti i tempi, da Montaigne a Milton a Goethe a Kafka, da Whitman a Proust a Borges a Pessoa, delineando influenze e parentele e catalogando senza sosta, costringendo autori e opere in suddivisioni fin troppo progressive, lineari, come se gli scrittori canonizzati dipendessero o l’uno dall’altro o, e per l’autore è senz’altro così, tutti da Shakespeare e da Bloom.

“Palermo come Roma”. Berlinguer, La Torre e il Compromesso storico

Seconda parte del ritratto di Pio La Torre, ucciso dalla mafia il 30 aprile 1982 assieme a Rosario Di Salvo. Qui la prima parte.

In numerosi scritti e interviste, alcune delle quali selezionate da Franco nell’appendice del libro, La Torre offre la personale e composita valutazione della Democrazia cristiana. Nell’ambito del Seminario sulla Dc, tenutosi dal 7 all’11 maggio 1973, produsse uno sguardo d’insieme paradigmatico sui caratteri e sulle contraddizioni del partito che nel dopoguerra prese le redini del Paese. Ventidue pagine dattiloscritte che anticiparono di qualche mese le conseguenze politiche italiane del golpe cileno, che decretò la fine del governo di Unidad Popular del presidente Salvador Allende, e i tre articoli di Enrico Berlinguer pubblicati su Rinascita fra il 28 settembre e il 12 ottobre 1973. L’analisi di La Torre precorreva la dinamica del Compromesso storico, che in Sicilia si attuò prima che a Roma.

Già nel 1972 l’insediamento in segreteria regionale di Achille Occhetto inaugurò una nuova fase, che possiamo recuperare nei ragionamenti di La Torre. Nell’articolo Le sinistre di fronte alla crisi del Sud (Rinascita, 29 settembre 1972) diagnosticò il malessere, cavalcato dalla destra missina (alle Regionali del 13 giugno 1971 schizzò dal 6.55% al 16.33%; la Dc scese dal 40% al 33%), del  sistema prosperato sulla discriminazione anticomunista e sulla dissennata spesa pubblica, la crisi dell’edilizia che aveva finanziato il blocco sociale e politico democristiano. Individuò nei piani regionali di sviluppo il terreno di aggregazione di un vasto schieramento di forze sociali disponibili a uno sbocco democratico dell’impasse italiana.

Pio La Torre è stato una storia diversa

Pubblichiamo la prima parte di un lungo ritratto di Pio La Torre realizzato da Gabriele Santoro a partire dal libro Sulle ginocchia. Pio La torre, una storia, scritto dal figlio Franco per Melampo.

Per la foto ringraziamo l’archivio online del Centro studi Pio La Torre.

1. La terra a tutti

«Due di maggio, bandiere al vento. Son morti due compagni, ne nascono altri cento», urlarono dal cuore del corteo. In fondo però sapevano anche loro che la morte violenta di Pio La Torre e Rosario Di Salvo non era una ferita suturabile. A Enrico Berlinguer, e soprattutto al Paese, il terrorismo politico mafioso, che ha dettato parte cospicua dell’agenda dei giorni nostri, aveva sottratto due uomini valorosi. «(…) Perché hanno ucciso La Torre? Perché hanno capito che egli non era uomo da limitarsi a discorsi, analisi, denunce di una situazione, ma era un uomo che faceva sul serio alla testa di un grande partito di lavoratori e popolo. Era capace di suscitare grandi movimenti, di stabilire ampie alleanze con forze e uomini sani, democratici di altre tendenze; di prendere iniziative che colpivano nel segno», scandì il segretario del Partito Comunista Italiano durante l’orazione funebre.

L’università, tra marketing e baronia

Nella foto i migranti bloccati sugli scogli a Ventimiglia da quasi venti giorni. Indossano la maglietta di Reunion, offerta loro dai gruppi arrivati da Bologna per sostenere il presidio. #labuonauniversità

di Cecilia Ghidotti e Paolo La Valle

Provo nei confronti dell’università nella quale ho studiato sentimenti ambivalenti: da un lato riconosco di aver ricevuto un’istruzione ottima ad un costo irrisorio se confrontato con quello di altri paesi europei (Regno Unito, ad esempio) e addirittura ridicolo se comparato con quello delle università statunitensi. Nello stesso tempo sono consapevole di aver dato molto al mio ateneo, soprattutto negli anni del dottorato di ricerca, e di aver ricevuto in cambio pochissimo.

Problema tuo, dal momento che hai potuto permetterti un dottorato senza borsa, dirà qualcuno. Problema di molti, a giudicare quanti siamo ad aver optato per questa scelta, probabilmente viziati dall’ottima istruzione di cui sopra e dalla convinzione che non tutte le scelte possono essere ricondotte a motivazioni di carattere economico (d’altro canto vogliamo finalmente esaurire l’eredità dei baby boomers che ancora ci mantengono?)

Gli eredi di Citizen Kane. Il giornalismo nelle serie tv fra asservimento e civilizzazione

Questo articolo è contenuto nella pubblicazione Storie (in) Serie, a cura di Carlotta Susca e Antonietta Rubino, consultabile qui. (fonte immagine) di Francesco Costa Uno pensa al giornalismo raccontato su uno schermo – quello del cinema o quello della tv – e probabilmente gli vengono in mente subito Robert Redford e Dustin Hoffman stravaccati sulle scrivanie […]

Era uno sguardo d’amore

Questo articolo è uscito sul Foglio. Ringraziamo l’autrice e la testata.

(fonte immagine, un fotogramma del film Breve incontro)

E di nuovo quel senso di vicinanza, come se ci si fosse ritrovati dopo tanto tempo, e un’impressione irresistibile, sconvolgente, di bellezza, la tentazione di abbandonarsi a quegli occhi, e nessun altro intorno, seppure in mezzo a tanta gente che arriva, saluta, vuole parlare e ridere. “E subito sentii in lei un essere vicino, già conosciuto, come se questa persona, questi occhi cortesi, intelligenti, li avessi già visti un tempo da piccolo, in un album che c’era sul comò di mia madre”. E’ il primo incontro tra un uomo e una donna, e Anton Čechov l’ha descritto in un racconto intitolato “Sull’amore”, è l’alba di un sentimento impossibile che deve restare segreto o venire soffocato, ma adesso è ancora presto, non si è compreso che quel turbamento, quel calore che si posa addosso come un’ombra leggera si chiama amore e nessuno, oltre a quell’uomo e quella donna, potrà mai chiamarlo così. Non ci sono ancora le lacrime, non c’è ancora la spossatezza e il tormento. Il mondo, poi, andrà avanti senza darsi pena di loro, il mare si comporterà sempre allo stesso modo, perfino loro due, messi l’uno accanto all’altra una sera, per scherzo, continueranno a vivere come hanno sempre vissuto, anche se tutto, dentro, è cambiato.

Maradona e il futuro

Ventinove anni fa, il 29 giugno 1986, nello stadio Azteca di Città del Messico, l’Argentina vinse il suo secondo e ultimo mondiale di calcio. A trascinare la squadra biancoceleste fu indubbiamente Diego Armando Maradona. Pubblichiamo un tributo al “Pibe de Oro”, scritto da Gianni Montieri.

di Gianni Montieri

Lo scambio di battute avviene in Youth di Paolo Sorrentino. La domanda la fa la compagna di Maradona al Diego stanco e un po’ triste, seduto sul balconcino della camera del Resort svizzero, di lusso, teatro del film. Doveva arrivare Sorrentino, o meglio, una singola battuta di un suo film, per chiarire qualcosa che probabilmente ho sempre avuto in mente. Maradona, quando giocava, pensava al futuro. È così, credo, per tutti i fuoriclasse: immaginare quello che accadrà da lì a poco e agire di conseguenza. Muoversi in anticipo sulla conseguenza, vuol dire modificarla, quello che accadrà non è più ciò che tu hai previsto, ma quello che hai generato assecondando col movimento la tua previsione. L’ossimoro che preferisco è la finta di Maradona, la cosa più vera che io abbia mai visto. Diego Armando Maradona non ha fatto altro che pensare al futuro, ogni volta che è sceso in campo, dalle Cebolittas all’ultima partita giocata.

Splendori e miserie del cinema a luci rosse italiano

Questo pezzo è uscito sul Venerdì.

(fonte immagine)

Durò soltanto cinque anni l’età d’oro del cinema a luci rosse in Italia ma furono anni gloriosi. In netto ritardo rispetto al resto d’Europa, con pochissimi mezzi e la capacità tutta italica di arrangiarsi, una vera e propria industria sorse sulle ceneri del cinema di genere messo in crisi dalle tv private offrendo a quel che ne restava una possibilità di salvezza. Tra i film che durante quel lustro uscirono in sala si contano perle per gli appassionati, pezzi da collezione per gli esperti, così come esempi squallidi e tragicomici – anch’essi ormai di culto – di un disperato bisogno di rimettere debiti e salvare non la faccia ma la pelle. Un senso del pudore duro a morire ha impedito che quell’epoca trovasse i riconoscimenti necessari nella catalogazione e nella salvaguardia della sua memoria.

True Detective: il mondo ha bisogno di cattivi

di Antonietta Rubino

Se si riduce True Detective al rango di crime drama si rischia di rimanere delusi. Nell’epilogo delle vicende rimangono molti punti oscuri, il male non viene arginato, non tutti i colpevoli vengono assicurati alla giustizia – l’esecuzione di Reggie Ledoux e l’uccisione di suo cugino DeWall e di Errol Childress di fatto assegnano un punto alla squadra dei criminali: l’unica persona che la polizia riesce ad arrestare è mentalmente instabile e non sarà in grado di aggiungere i tasselli mancanti alle indagini, e la morte, per soggetti tanto abietti, non può che costituire, stoicamente, un sollievo –, l’intreccio non viene sciolto completamente. Il racconto non torna del tutto, i requisiti del poliziesco non vengono soddisfatti. Eppure la serie scritta da Nic Pizzolatto conserva fino alla fine la sua potenza narrativa. E non perché l’interpretazione magistrale di Matthew McConaughey renda lo spettatore più indulgente nei confronti della sceneggiatura. No, la vera ragione è che in True Detective la caccia al serial killer è soltanto un pretesto. Il vero nucleo della storia è la discesa negli inferi dei protagonisti alla ricerca del senso dell’esistenza.