Aspetta primavera, Korine

Questa intervista è stata parzialmente pubblicata su D la Repubblica.

Lo spring break sono le vacanze di primavera. Per una settimana gli studenti dei college americani (e non solo) staccano con lo studio e si dedicano agli eccessi. Eccesso di alcool, eccesso di droghe, eccesso di sesso, eccesso di mare, eccesso di tutto. Sono loro gli Spring Breakers del nuovo film del già enfant prodige del cinema indipendente americano Harmony Korine. Presentato a Venezia all’ultima Mostra del cinema, “prodigioso” come i precedenti film del regista, il film è uscito nelle sale italiane il 7 marzo. Protagoniste della storia sono quattro ragazze (impeccabilmente interpretate da Selena Gomez, Vanessa Hudges, Ashley Benson e Rachel Korine, moglie del regista). Quattro studentesse annoiate dall’università che aspettano le vacanze di primavera per divertirsi un po’, e quando si accorgono di essere a corto di soldi e non potersi permettere il viaggio decidono di fare a modo loro. A modo loro significa: facciamo una rapina, rapiniamo il fast food vicino, rapiniamo i clienti, rubiamo tutti i soldi che ci servono per goderci la nostra cazzo di vacanza. Dicono: “Facciamo finta di essere in un cazzo di videogioco”.

Vicari e Sejko. Due film sugli sbarchi albanesi

L’8 agosto del 1991, giorno dell’approdo del mercantile Vlora nel porto di Bari, segna lo  spartiacque della nostra modernità. Seppur preceduto dagli sbarchi di Brindisi del marzo precedente, l’arrivo di ventimila albanesi tutti in una volta, a bordo di una nave riempita fin sopra gli alberi più alti, indica l’inizio di una nuova epoca per l’Italia e per la Puglia in particolare. Senza enfasi, si può dire che quell’evento sta all’Europa meridionale come la caduta del Muro di Berlino sta all’Europa settentrionale. Ma, oltre a testimoniare il crollo rovinoso di una dittatura corrotta e spietata, e il rinnovato incontro tra est e ovest, l’approdo della Vlora assume un altro, inequivocabile significato: l’incontro immediato tra nord e sud del mondo lungo un canale di poche miglia, l’irrompere della questione migratoria.

Tutto questo vide Bari protagonista, come racconta il film di Daniele Vicari La nave dolce, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e vincitore del premio Pasinetti per il miglior documentario. Perché “dolce”? Perché la Vlora, probabilmente la nave più grande ormeggiata a quel tempo in un porto albanese, era appena tornata da un lungo viaggio da Cuba e aveva scaricato grandi quantità di zucchero. I ventimila imbarcati, mentre l’acqua iniziava a scarseggiare, non ebbero altro da mangiare che il poco zucchero rimasto nelle stive.

Elogio della trama

Questo pezzo è uscito su Studio.

Premessa. L’idea, in origine, era scrivere qualcosa su quelli che “le serie americane non mi dicono proprio niente.” Poi ci ho pensato un po’ su, ho provato a chiedermi cosa ci potesse essere sotto e ad azzardare qualche conclusione. Questo è il risultato.

Il fattaccio. Qualche giorno fa mi sono ritrovata invischiata nell’uber-trito discorso “cinema vs televisione.” A mia discolpa, era notte, eravamo tutti un po’ sfatti e qualcuno aveva pure alzato il gomito. La scena è ambientata nel salotto di casa mia. Uno degli ospiti, maschio-bianco-etero-trentenne-con-titolo-di-studio, dice di non avere mai seguito una serie in tutta la sua vita e di andarne fiero. Perché, sostiene lui, “anche la serie fatta meglio non potrà mai competere con un film.”

Dalla parte di Alice – Il corpo e l’immaginario cinematografico 11: Inland Empire

“Che cosa ci avviene quando assistiamo a un film e dimentichiamo di essere seduti nell’oscurità? Che cos’è l’immaginario cinematografico oggi? Quale attrazione esercita su di noi? (E: “noi” chi?). La rubrica di Paolo Pecere esamina alcuni film esemplari in cui il cinema sembra affrontare dal suo interno queste domande, collegati dal tema della fantasia di un altro mondo e un’altra vita. Una passeggiata “dalla parte di Alice”, che passa per film più e meno recenti, da Avatar a 2001. Odissea nello spazio, da L’enigma di Kaspar Hauser di Herzog a Inland Empire di Lynch. Qui le puntate precedenti.

Luce su Inland Empire

«Harry, non ho idea di dove questo ci porterà, ma ho la netta sensazione che sarà un posto meraviglioso e insieme strano»
(l’agente Cooper in Twin Peaks, 1990)

Mentre girava Inland Empire, nel 2005, Lynch confessò di lavorare senza un copione, e di scrivere il film «scena per scena», concludendo: «non ho un’idea precisa di dove andrà a finire. È un rischio, ma ho la sensazione che, poiché tutte le cose sono collegate, quest’idea qua, in quella stanza, si collegherà in qualche modo con quell’idea che sta nella stanza rosa». Il risultato, uscito nel 2007 con la lunghezza di 180 minuti, è forse il film strutturalmente più complesso della storia del cinema. È facile scambiare questa complessità per confusione, pressappochismo improvvisativo, bricolage d’“autore”[1]; così, alla luce di dichiarazioni come quella citata, anche il più accanito ammiratore del cinema di Lynch è tentato di arrendersi: «stavolta hanno ragione; il maestro si è lasciato andare all’autocompiacimento. Chi vuole prendere in giro? Si è ridotto come il vecchio Dalì che firmava litografie di orologi sciolti con la mano rattrappita. È finito».

Lincoln. Genealogie di un immaginario

Vedendo Lincoln mi è venuta in mente una storia che avevo letto qualche anno fa, una di quelle storie del cinema che più mi ha fatto riflettere sull’immaginario storico dei registi. L’anno è il 1915: in Europa la Grande guerra è a una svolta, tutti si rendono conto che non sarà quel lampo promesso dalla Germania, ma una lunga, estenuante carneficina. Il fervore dei volontari va man mano affievolendosi, serve nuova linfa per mobilitare il fronte interno.

Gli alti comandi dell’esercito inglese pensano che il cinema possa essere questa linfa.

Hanno sentito parlare, forse addirittura visto, un film, non un film qualunque, ma il più grande successo cinematografico dai tempi dei Lumière. L’ha girato un regista americano, ci ha messo tre anni per realizzarlo, ha speso 112,000 dollari. Per 13 bobine, pari a tre volte un normale film dell’epoca. Ha incassato 15 milioni di dollari. È stato il primo film a essere proiettato alla Casa Bianca, di fronte al presidente Woodrow Wilson. Si intitola The birth of a Nation. Il regista si chiama David Wark Griffith.

Intervista a Domenico Starnone

Questa intervista è stata pubblicata originariamente nel magazine di minimum fax per l’uscita di Fare scene. Oggi che Fare scene torna in libreria con un capitolo inedito, ve la riproponiamo in occasione del settantesimo compleanno di Domenico Starnone e gli facciamo i nostri migliori auguri.

Trovo che una delle migliori armi messe a disposizione del lettore in Fare scene sia l’antiretorica che pervade, in maniera diversa, Primo e Secondo tempo. Provo a spiegarmi. La seconda parte, quella in cui l’io narrante sceneggiatore adulto alimenta suo malgrado l’entertainment nostrano, vale a dire un mondo fatto di volgarità, ipocrisia, bugie, violenza psicologica e soprattutto brutti film, è anche quella in cui quello stesso uomo sembra prendere finalmente coscienza del tempo e della condizione in cui siamo tutti immersi. Guy Debord negli anni Settanta parlava di “società dello spettacolo”. Harold Bloom oggi paventa l’arrivo di una “teologia audiovisiva”. Al contrario, la prima parte del libro (quella in cui il protagonista bambino nutre la propria educazione sentimentale nelle sale cinematografiche napoletane del dopoguerra), lungi dall’essere un quadretto d’epoca edificante, può forse essere inteso come una sorta di cavallo di Troia infilato nei nuovi cinema paradiso di tutte le latitudini e cronologie. Insomma, sembra quasi che tu voglia dirci che l’immagine in movimento (cinematografica, e poi televisiva) ha o meglio ha sempre avuto qualcosa di ingannevole. È così?

Tutte le forme della rappresentazione, a conti fatti, hanno qualcosa di ingannevole, altrimenti non sarebbero forme ma la realtà stessa.  Si potrebbe fare una storia della letteratura concentrandosi solo sulle strategie messe in atto dagli scrittori ora per ridurre al minimo la  natura ingannevole delle forme, ora invece per accentuarla, e le due linee di tendenza, a ragionarci, non sempre risulterebbero nemiche l’una dell’altra, anzi. In entrambi i casi si tratta di simulazioni del reale, ora ottenute con effetti di realismo, ora con effetti derealizzanti. Il problema quindi non è l’ingannevolezza delle forme ma il loro potere, la loro capacità di suggestione di massa. L’immagine, si sa, ha sempre avuto una grande forza, considerato che sintetizza cose e corpi con l’apparenza delle realtà viva. Se poi è aiutata dalla parola (iscrizioni, didascalie, battute chiuse nel fumetto), l’effetto di vita vera si centuplica. L’energia propria dell’immagine, dunque, con l’avvento del cinema muto, del cinema parlato, della televisione, della diretta televisiva, della rete, è esplosa a livelli prima impensabili. E con essa la complessità anche etica della rappresentazione, visto che ormai il virtuale è parte imprescindibile di ciò che chiamiamo reale, ci plasma le teste e il modo di ordinare la nostra vita.

Ritorno a Oz

“How can I help being a humbug,” he said, “when all these people make me do things that everybody can’t be done? It was easy to make the Scarecrow and the Lion and the Woodman happy, because they imagined I could do anything. But it will take more than imagination to carry Dorothy back to Kansas, and I’m sure I don’t how it can be done.

L. Frank Baum

Le cose dovrebbero andare più o meno in questo modo. Intorno al 13 marzo prossimo vi recherete nel multisala più vicino a casa vostra; dapprima penserete di dover scegliere tra chissà quali film, poi realizzerete di esser lì per lui dal primo istante. Spenderete tra le otto e le dieci euro, forse il doppio e il triplo se sarete con moglie e figlia, e ancora qualcosa in più se deciderete di prenderete da bere (le probabilità che prendiate da bere aumentano se siete con moglie e figlia, in effetti). Entrerete. Non è da escludere che vi vengano consegnati dei piccoli occhiali di plastica per ammirare la pellicola in 3D, oppure, se il proprietario del cinema è animato da una qualche ortodossia o riverenza nei confronti del vecchio mago, ecco che gli occhiali vi verranno legati direttamente sulla nuca e trasformeranno il bianco e ogni colore in verde.

Dalla parte di Alice – Il corpo e l’immaginario cinematografico 10: Mulholland Drive

“Che cosa ci avviene quando assistiamo a un film e dimentichiamo di essere seduti nell’oscurità? Che cos’è l’immaginario cinematografico oggi? Quale attrazione esercita su di noi? (E: “noi” chi?). La rubrica di Paolo Pecere esamina alcuni film esemplari in cui il cinema sembra affrontare dal suo interno queste domande, collegati dal tema della fantasia di un altro mondo e un’altra vita. Una passeggiata “dalla parte di Alice”, che passa per film più e meno recenti, da Avatar a 2001. Odissea nello spazio, da L’enigma di Kaspar Hauser di Herzog a Inland Empire di Lynch. Qui le puntate precedenti. 

Ancora attraverso lo specchio: decifrare Mulholland Drive

«Il fatto che noi crediamo che un essere partecipi a una vita sconosciuta in cui il suo amore ci farà penetrare, è, di tutto quello che l’amore esige per nascere, ciò che più gl’importa».

Proust, Un amore di Swann

Dopo aver visto Mulholland Drive, dodici anni fa, tornai a piedi in uno stato di bollore euforico, ripensando forsennatamente al mistero che mi era stato rivelato in quella sala buia e semideserta. Non immaginavo che sarebbe divenuto uno dei film più celebrati della storia del cinema e che inevitabilmente sarebbe stato fatto in pezzi ed esaminato sul tavolo analitico da una generazione di studenti e sceneggiatori. Eppure anche lo smontaggio di ogni inquadratura non è bastato ancora a spiegare in maniera adeguata di cosa parla il film e perché è un’opera d’arte così importante (e lo è).

Facciamoci del male, in vita di Michele Apicella

(Immagine: Nanni Moretti/Michele Apicella in Bianca.)

Il problema con Apicella è che non andava mai bene niente.

Il problema con Apicella è che era tutto troppo: troppo rumoroso, troppo silenzioso, troppo colorato, troppo grigio. Oppure non abbastanza, che poi è un troppo al contrario. Vedeva tutto come perfezionabile, ma non era mai disposto a cercare di perfezionare se stesso. Si definiva perfetto, ma non si piaceva, per cui pensava che non ci fosse nulla da fare. Non esistevano mezze misure, Apicella le odiava, ma non poteva sopportare gli eccessi, aveva paura di tutto e la maggior parte delle cose che toccava gli facevano schifo. Il contatto con le altre persone gli faceva schifo, forse per questo nessuno lo ha mai visto stare veramente con una ragazza.

Gli piaceva seguirle, le ragazze, desiderarle, sognarle tutte le notti mentre erano lontane e poi, quando finalmente le incontrava, si metteva a fissarle con quegli occhi enormi e gli veniva una rabbia dentro che lo costringeva a correre via dal ristorante. Io non voglio morire, diceva. Il problema con Apicella è che non si capiva mai cosa intendesse. Era stonato ma gli piaceva cantare, anzi mentre cantava sembrava quasi felice, per il resto si aggirava con le spalle cadenti e il fare nostalgico, in attesa che qualcuno gli rivolgesse la parola solo per dargli contro agitando quelle braccia magre e lunghissime, roteando i polsi e sventolando il ciuffo sulla fronte. Giocava a fare il contrario sperando che gli altri lo notassero, ma in fondo a nessuno importava niente.

Mai una diva

Questo pezzo è uscito su Studio. (Immagine: Mariangela Melato in una scena di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmüller.)

“Signora del teatro” era una definizione che le andava stretta: «Mi fa arrabbiare, sono stupita di quante cose ho fatto nella vita». Aveva ragione, perché Mariangela Melato è stata una delle signore di tutto lo spettacolo italiano, programmaticamente anti-diva, attrice indipendente, sempre in fuga: «È l’ordinazione veloce che fa una signora», le disse una volta l’amica Franca Valeri. È morta a 71 anni all’alba a Roma, avrebbe dovuto essere in piena attività con la tournée de Il dolore di Marguerite Duras che doveva partire a ottobre da Genova, dove era di casa allo Stabile dal 1992, ma era stata cancellata per l’aggravarsi della malattia. «In questi momenti le frasi sembrano di circostanza, ma con lei no, non è così», ha detto il mattatore Gigi Proietti. «La sua morte, per il nostro ambiente, è senza dubbio una delle notizie più tristi che ho ricevuto. Lo dico davvero».