Ho perso un lavoro per un tweet
di Claudia Durastanti
Lo scorso 27 aprile, mentre Teju Cole, Rachel Kushner e altri scrittori ritiravano la propria partecipazione dal galà del PEN in seguito alla decisione del comitato di assegnare il Toni and James C. Goodale Freedom of Expression Courage Award per il 2015 alla redazione di Charlie Hebdo, in un’altra parte della galassia, e con molto meno clamore, io perdevo una collaborazione di lavoro con una testata per aver manifestato tramite un tweet la mia perplessità nei confronti degli insulti che questi scrittori stavano ricevendo: è una circostanza strana quella di dileggiare la libertà di opinione altrui quando lo si fa per difendere la libertà di opinione di chi nell’esercizio di questa pratica è morto.
Ora, un direttore ha il diritto di selezionare e scartare ogni collaboratore nella maniera che preferisce o per le ragioni che ritiene più opportune, anche per un tweet di cui non condivide il contenuto. Il collaboratore, dalla sua, ha la facoltà di raccontare la propria esperienza, soprattutto se questa svela alcuni meccanismi che ritiene di interesse comune.
Un tempo conosciuto come Quit the Doner
Mi sono trovato diverse volte nella posizione di discutere con Quit riguardo al problema del (suo) nome. La prima è stata a Torino, più o meno esattamente un anno fa. Era appena uscito il suo primo libro, Quitaly (Indiana, 2014) e la discussione si è protratta per tre giorni ed è sfociata in un profilo. La seconda volta è stato a Milano, in piena estate. Le cose sono andate più velocemente, perché sembrava che il grosso del lavoro fosse fatto: si preparava alla pubblicazione di un romanzo e non vedeva una grande urgenza di abbandonare lo pseudonimo — ma d’altra parte… E tutto si riapriva di nuovo. La terza volta è stato a New York, in autunno. A quel punto aveva cominciato a fare quasi tutto da solo, io avevo espresso le mie opinioni e non erano servite a granché per risolvergli il dubbio. Quindi, a dire la verità, è stato abbastanza sorprendente dover preparare questa intervista, perché non sapevo come sarebbe andata a finire. Il primo romanzo di Quit The Doner si chiama Lascia stare la gallina (Bompiani, 2015) e uscirà il 21 maggio . Porta con sé alcuni passaggi fondamentali per la vita e per il lavoro dell’autore, che cominciano da una domanda molto più importante di quanto non sembri.
Come ti chiami?
Martina Veltron… ah no scusa Daniele Rielli.
E fin ora come ti hanno chiamato?
Quit , Quit the doner, Doner, o KKASSTA.
L’attacco ai giornalisti dell’Unità non riguarda solo loro
Condividiamo con i lettori di minima&moralia questa riflessione di Alessandro Leogrande pubblicata su Internazionale – che ringraziamo – e esprimiamo il nostro sconcerto e la nostra solidarietà a tutti i giornalisti e agli ex direttori dell’Unità per quanto sta avvenendo. (nella foto, Concita De Gregorio, che dell’Unità è stata direttore dal 2008 al 2011)
Ventisei giornalisti dell’Unità e gli ex direttori Concita De Gregorio, Claudio Sardo e Luca Landò sono chiamati a risarcire tutti quelli che, da Silvio Berlusconi ad alcuni generali dei servizi segreti, hanno fatto causa al quotidiano negli anni passati.
Dopo la chiusura del giornale la società editrice (la Nie di Renato Soru) si è dileguata e il Partito democratico, il partito di riferimento che ora vorrebbe riportare il giornale in edicola, finora si è limitato a dire che questo non è un suo problema.
La cospirazione dei bamboccioni
di Angelo Orlando Meloni
Lo sport preferito dagli italiani, si sa, è il calcio, sebbene per lo meno da queste parti, cioè in Sicilia, lo sport nazionale sembra essere stato insidiato dal poker on line. Ma se lo sport nazionale dell’italiano medio è il calcio, lo sport nazionale del giornalista medio è la caccia al bamboccione. Ci sono giornalisti che se ne vanno in giro con i loro scalpi. Altri che dalla pelle levigata del bamboccione ricavano pellicce e soprabiti. Altri ancora che li fanno impagliare e li mettono in salotto. Che volete farci, il giornalista medio è fatto così. Buono e caro, fosse per lui non darebbe fastidio a una mosca. Vivi e lascia vivere è il suo motto. Ma quando vede un bamboccione gli cala la saracinesca sugli occhi. “Tutto scorre”, è solito sentenziare, ma quando sente odor di bamboccioni il giornalista medio flette i muscoli e si getta nel vuoto.
Gianni Brera, un grande fiume senza mai problemi di siccità
Torna in libreria, per Il Saggiatore, Il principe della zolla di Gianni Brera, antologia curata da Gianni Mura. Pubblichiamo di seguito l’introduzione originale alla prima edizione, anticipata su La Repubblica, e ringraziamo l’editore e l’autore. (Fonte immagine)
Curare antologie non è il mio forte, sono abituato a scrivere cose che durano al massimo un giorno. Nel caso di Brera, so che i suoi scritti dureranno ma mi pareva, in qualche modo, arbitrario stabilire che cosa proporre e che cosa no. E, ancora: scegliere con la testa o col cuore? E, una volta fatte le scelte, come ordinarle? Devo spiegazioni al lettore. Mi sento troppo breriano per indossare i panni di chi sta sopra le parti.
Qualcuno dice che sono l’erede di Brera e una volta di più io dico che non è vero. Per onestà ammetto che in un periodo della mia vita ho pensato che potevo essere come Brera, anche meglio, perché no? Avevo diciannove anni, ero passato direttamente dai banchi del liceo Manzoni a una piccola scrivania della Gazzetta, in via Galilei. Ero già un lettore di Brera ( Giorno e Guerino ) e, a dirla tutta, l’idea che esistesse Gianni Brera mi faceva accettare la realtà, per me agli inizi poco piacevole, di lavorare in un quotidiano sportivo (io, destinato a fioriti elzeviri). Dopo un po’ di gavetta, il direttore decise che era tempo di vedere come me la cavavo a scrivere. Andassi a Milanello, c’era il brasiliano Germano fermo per un infortunio, raccogliessi il suo sfogo.
Schermi Fallaci
Pubblichiamo un articolo di Annalena Benini apparso ieri sul Foglio, ringraziando l’autrice e la testata. (Nella foto, Oriana Fallaci con Alekos Panagulis. Fonte immagine)
di Annalena Benini
Rinchiudere Oriana Fallaci dentro un film di due ore è un’impresa quasi folle, che lei per tutta la vita ha vietato. “Se vogliono fare i film su di me, che li facciano quando sarò morta”, diceva (o forse urlava) agli avvocati. “Non affiderei mai a un’altra persona la storia della mia vita”. Adesso che Oriana Fallaci è per sempre di chi l’ha letta, amata, oppure odiata, di chi dice che a un certo punto è impazzita o invece ha sempre avuto ragione, un film italiano per la televisione in due puntate (oggi e domani è nei cinema, intero – ieri e oggi per chi legge, ndr) cerca di raccontare la giornalista e scrittrice italiana più celebre del Novecento.
Günter Wallraff, un camaleonte con il dono dello scoop
Questo pezzo è uscito su il manifesto. Ringraziamo l’autore e la testata. (Fonte immagine)
di Roberto Ceccarelli
Günter Wallraff, «faccia da turco», il fregoli del reportage, il camaleonte del giornalismo, è il testimone della Germania reale. Da più di quarant’anni Wallraff scrive inchieste sul paese dove oggi ci sono oltre 9 milioni di semi-schiavi marchiati con l’innocuo nomignolo di «mini-jobs». In tedesco questa espressione ha un contenuto ben più sostanzioso: Geringfügige Beschäftigung cioè lavoro scarsamente remunerato. Lavori da 450 euro.
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