Intervista a Naomi Alderman

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica.

Naomi Alderman ha felicemente esordito nel 2006 con un romanzo dal bel titolo Disobbedienza. Il libro raccontava dello scontro tra una giovane donna e la comunità ebraica ortodossa da cui proveniva. Nata e cresciuta anche lei in una comunità ortodossa (quella di Hendon, a Londra), riusciva a fare della religione oggetto di investigazione dell’anima e motore del proprio immaginario. Dopo un secondo ottimo romanzo (Senza toccare il fondo, Nottetempo 2011), Alderman torna nelle librerie con una magistrale opera terza. Si chiama Il vangelo dei bugiardi (traduzione di Silvia Bre, Nottetempo/Feltrinelli, pagg. 290, 17 euro) ed è una riscrittura in quattro tempi della vita di Gesù in cui sua madre Maria, Giuda, il sacerdote Caifa e Barabba diventano narratori e coprotagonisti.

Maurice Blanchot: il silenzio dell’opera

di Maria Lo Conti

Fra i teorici del romanzo, le espressioni per definire il medesimo vizio – scrivere – si moltiplicano all’infinito. Tra queste ce n’è una del critico e filosofo francese Maurice Blanchot che dice: «Scrivere è scongiurare gli spiriti, è forse liberarli contro di noi».

Una simile affermazione implica la compresenza, nell’atto della scrittura, di due forze opposte e contrastanti, l’una che conduce alla liberazione e l’altra alla sottomissione. Così, nel tentativo di liberarci da un’ossessione permettiamo all’ossessione stessa di possederci, e mentre scongiuriamo gli spiriti ne provochiamo l’assalto.

Al centro della riflessione teorica di Blanchot l’ossessione assume un ruolo particolare. È la necessità di difendersi da questa che spesso spinge alla scrittura.

Nessuna destinazione in vista. Accanto a Bolaño e ai suoi detective selvaggi

di Leonardo Merlini

Un sentiero di terra battuta in un giorno particolarmente afoso, il cane che mi precede e le mie scarpe impolverate, orfane. La Valpadana come il deserto di Sonora. Un cielo incombente nel pieno mezzogiorno messicano e delle figure ferme nella luce, disperse appena fuori dal giardino di casa, lontano e al tempo stesso vicinissime a Macondo, ma in un’altra galassia, o in un’altra dimensione, condannata all’incomunicabilità. Uno scrittore che fuma e mi parla, protetto dalla notte e dalle piante di Villa Torlonia, mi parla per quindici lunghi minuti davanti a una telecamera, mi parla di un altro scrittore che, in qualche misura, sono stato io a fargli leggere. Una sera sulla costa della Catalogna, l’odore del mare e delle creme solari, nauseabonde e dolcissime, mentre da qualche parte suona un telefono e l’uomo seduto accanto all’apparecchio decide consapevolmente di non rispondere.

ma come sarebbe il mondo se non ci fossero i libri? Perché il mondo mi sembrava un inferno e i libri erano proprio la mia salvezza

In questi giorni è uscito il nuovo romanzo di Michele Mari, Rodderick Duddle, un esplicito omaggio alla narrativa d’avventura. Riprendiamo un’intervista di Ade Zeno uscita nel 2007 su Liberazione e poi nel 2009, in edizione integrale sul sito Atti impuri.

di Ade Zeno

Nel settembre del 2007 “Liberazione”, quotidiano per cui allora scrivevo, mi chiese di intervistare uno scrittore italiano a mio piacimento per l’inserto culturale “Queer”, oggi purtroppo morto e sepolto. In quei giorni avevo appena finito di leggere l’ultimo romanzo di Michele Mari, Verderame, uscito da qualche settimana nei Supercoralli Einaudi. Il fascino della storia, la sensuale bellezza di quella prosa elegante e sopraffina, nonché la sconfinata stima che già da tempo nutrivo per l’autore in questione mi spinsero a contattarlo per chiedergli se fosse interessato a rispondere ad alcune domande. Mi diede appuntamento nel dipartimento di Filologia dell’Università Statale di Milano, e dopo una breve anticamera confuso tra studenti in attesa dell’orario di ricevimento (se non ricordo male attendevano con ansia gli esiti di una prova scritta), ebbi accesso al suo studio. Quella che segue è la versione non tagliata (esigenze redazionali mi avrebbero imposto per l’uscita a stampa alcuni aggiustamenti) dell’intervista che ne seguì.

Intervista a Judith Schalansky

Questa intervista è uscita su Flair a ottobre 2013.

In greco antico “tele”significa “lontano”. Parole come “televisione” o “telematico” rimandano proprio a una distanza che si accorcia grazie alla tecnologia: quello che era lontano oggi è più sempre vicino, disintegrando così gli spazi e i tempi della lontananza; ogni luogo è ormai accessibile, a portata di telecomando, o di Google Earth. Ma “lontano” è solo un’idea astratta, e spesso ce ne dimentichiamo. “Sull’infinita Terra sferica, ogni punto può diventare il centro”, dice Judith Schalansky. “Lontano” è un’invenzione che serve a stabilire un confine tra noi e il resto del mondo: si può raccontare la storia del mondo intero attraverso delle isole sperdute, luoghi reali e surreali allo stesso tempo”.

Perché non c’è ancora un grande romanzo italiano sulla crisi?

Questo testo è uscito in una versione leggermente ridotta nelle pagine che Sbilanciamoci ha curato per il Manifesto. Potete trovare l’intero inserto “Le pagine della crisi” qui (con articoli di Alessandro Portelli, Mario Pianta e molti altri), mentre se volete sostenere il lavoro di Sbilanciamoci potete andare qui.

di Christian Raimo

E insomma qui da noi non c’è nessuno che scriva un romanzo sulla crisi economica? Il dissesto del ceto medio, l’eclissi delle speranze, la rovina psichica che segue quella sociale, non c’è nessuno capace di tesaurizzare sulla pagina questa fase di depressione, come capita, come è sempre capitato – pensiamo a Steinbeck e Faulkner dopo il ’29, pensiamo ai nostri Pirandello, Verga e De Roberto con la crisi di fin de siecle, pensiamo chessò all’esplosione artistica dell’Argentina post-Menem… E in Italia, nel 2014, perché non si avvera quella profezia tutto sommato facile che Mario Vargas Llosa formulava nel 2008 allo scoppiare della bolla finanziaria: «La crisi economica avrà almeno un effetto positivo, quello sulla letteratura»?

L’ultimo giorno di Firmin

I capolavori del modernismo hanno ancora molto da dare agli appassionati di letteratura. Tra questi c’è sicuramente Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Per i lettori che non si siano mai addentrati nella «Divina Commedia ubriaca» dello scrittore inglese o per quelli che – pur conoscendola e amandola – continuano a farsene interrogare, riproponiamo questo […]

Scrittori arabi contemporanei, quinta puntata

La rubrica di Mario Valentini è dedicata alla letteratura araba contemporanea. Qui le puntate precedenti.

Perché io, che sono di Bolzano, dovrei leggere la letteratura libanese?

Mi sa che è venuto il tempo di saldare qualche debito. Il primo è verso Elisabetta Bartuli la quale, quando un po’ di tempo fa mi ha dato da leggere un lungo racconto del grande scrittore egiziano Yusuf Idris avviandomi così alla lettura di autrici e autori arabi, non immaginava che mi sarei messo a scrivere una rubrica come questa saccheggiando a man bassa, e sicuramente travisando, molti dei suoi testi. Come è inevitabile che faccia anche ora, utilizzando proprio un’intervista da lei realizzata con la scrittrice libanese Hoda Barakat e pubblicata in Libano. Frammenti di storia, società e cultura, a cura di Elena Chiti (Mesogea, 2012). (E proprio verso la redazione della casa editrice Mesogea, senza la quale non mi sarebbe mai nemmeno balenata l’idea di avvicinarmi a questo genere di libri, è il secondo debito).

Ciao Gabo

Ricordiamo Gabriel García Márquez riproponendo una parte della lunga intervista rilasciata a Peter Stone nell’inverno del 1981 per la “Paris Review”.

Come ha cominciato a scrivere?

Disegnando. Disegnando vignette. Prima ancora di imparare a leggere e a scrivere disegnavo fumetti a scuola e a casa. La cosa curiosa è che ora mi rendo conto che quando ero alle superiori avevo la fama di essere uno scrittore, sebbene in realtà non avessi mai scritto niente. Se c’era un pamphlet da scrivere o una lettera di petizione, io ero quello che doveva farlo perché ero apparentemente “lo scrittore”. Quando cominciai l’università avevo in generale un ottimo background letterario, considerevolmente al di sopra della media dei miei amici. All’università di Bogotà iniziai a fare nuove amicizie e conoscenze, persone che mi introdussero agli scrittori contemporanei. Una sera un amico mi prestò un libro di racconti di Kafka.

Intervista a Emmanuel Carrère

Pubblichiamo un’intervista di Valentina Della Seta a Emmanuel Carrère uscita sul Venerdì di Repubblica. Ringraziamo l’autrice e la testata.

di Valentina Della Seta

Non c’è traccia di Russia nella casa parigina di Emmanuel Carrère, così francese per la luce, i pavimenti di legno, l’eleganza e il disordine. Ma c’è qualcosa nei suoi lineamenti e nel taglio degli occhi che fa capire perché, negli ultimi anni, abbia scritto due libri che hanno a che fare con l’ex-Unione Sovietica.

Carrère ha ereditato la Russia dalla madre Hélène, storica e accademica di Francia, che da bambina si chiamava, di cognome, Zurabisvili: «Georges Zurabisvili è nato a Tiflis», racconta lo scrittore a proposito del nonno materno in La vita come un romanzo russo, del 2007: «Suo padre, Ivan, è giureconsulto; sua madre, Nino, ha tradotto George Sand in georgiano. Le fotografie mostrano baffi e turbanti, tra le dita s’indovinano rosari d’ambra». Di Georges, in casa, non si parla: «Per un po’ fa il taxista», siamo negli anni Venti, quando la famiglia in fuga ha trovato riparo a Parigi, «ed è una delle rare cose che a mia madre piaccia raccontare di lui, una delle rare cose che da bambino io abbia saputo di mio nonno».