L’Inghilterra di Jane Austen nell’ultimo film di Whit Stillman
Questo pezzo è uscito sul Venerdì, che ringraziamo.
All’origine del nuovo film del regista americano Whit Stillman (Metropolitan, The Last Days of Disco) c’è Lady Susan, non il personaggio, ma il romanzo. Uno dei primi di Jane Austen, breve ed epistolare, scritto a fine settecento e pubblicato postumo (del 1871 la prima edizione inglese, del 2015 quella italiana pubblicata da Elliot nel volume Lady Susan e le altre. Romanzi e racconti epistolary, pp. 240, euro 18,50), Lady Susan è stato scelto da Stillman per farne un doppio adattamento: nuovo romanzo e film.
Entrambi sono usciti in Italia con il titolo Amore e inganni (il libro il 17 novembre per Beat Edizioni, nella traduzione di Alessandro Zabini, pagg. 256, euro 13,90, e il film l’1 dicembre distribuito da Academy Two). La storia è ambientata nella campagna inglese e a Londra alla fine del settecento e vede protagonisti Lady Susan Vernon (Kate Beckinsale nel film) e un ristretto circolo di parenti, amici, amanti, spasimanti, conoscenti.
“Teneri violenti”, dove si annida il tragico nazionale
Ivan è un palombaro. Vale a dire chi, in una redazione televisiva, setaccia il fondo degli archivi in cerca dei cosiddetti «fattoidi», titoli articoli cronache in cui serio e ridicolo sono indistinguibili, grumi di situazioni da cui fanno capolino – equilibratissimi, ambigui – il dramma e la farsa. Ogni fattoide servirà poi, in trasmissione, da spunto utile a rievocare lacerti del passato italiano.
Nel giro di poco Ivan si rende conto che questo lavoro – in teoria routinario, in realtà sorprendente – è un magnete, tanto da ritrovarsi ad annegare ogni giorno nella stessa sostanza scandagliata, lasciandosi infettare da qualcosa – le due decadi ’70-’80 – che si rivela, proprio perché paradossale, la prospettiva più affidabile per decifrare un intero Paese.
Scrivere per essere indipendenti: intervista a Hanif Kureishi
Questo pezzo è uscito sul Messaggero, che ringraziamo (fonte immagine).
Esiste una chiave per entrare nell’originale mondo di parole costruito da Hanif Kureishi, inserito dal Times nella lista dei cinquanta scrittori britannici più rilevanti nel secondo dopoguerra mondiale. È qualcosa di donato, Something given, il titolo dell’opera, che fornisce gli elementi necessari a comprendere la capacità di inventare una cifra stilistica, un mondo che prima non c’era, e l’essenza della scrittura di un autore così poliedrico. Se la Gran Bretagna è una forza culturale in Europa lo deve al multiculturalismo e alla diversità, sostiene Kureishi che apre al Palazzo dei Congressi la quindicesima edizione della Fiera Più libri più liberi con la lectio Scrivere per essere indipendenti.
Classe 1954, nato a Bromley, da padre pachistano e madre inglese, dove imperversavano gli skinhead. Il razzismo si respirava nell’aria e l’adolescenza consisteva nella ricomposizione creativa in un’identità di due universi, occidente e oriente. Dopo la divisione dell’India nel 1947, la famiglia Kureishi, appartenente alla media alta borghesia, vicini ai Bhutto, si era unita alle aspirazioni del Pakistan.
La guerra di Brian Turner
Esistono tre modi di approcciarsi a un romanzo scritto da un non-scrittore. Il primo, che parrebbe il più diffuso, prevede un’immersione sincera e appassionata, e un senso di fiducia che assolve, esaltandoli, eventuali attentati alla struttura. È l’approccio, questo, che spinge i dylaniani a non accettare che un amico stimato abbia letto Tarantula con serietà e impegno, ma senza innamorarsene; che fa strabuzzare gli occhi di chi crede (soprattutto adesso) in Leonard Cohen, quando scorge Beautiful Losers tra i libri “da consultazione” dei propri contatti su Anobii – bello, importante, da riprendere, sì, ma in un altro momento. È l’approccio numero due: considerare il romanzo scritto da un non-scrittore alla stregua di quelle persone che stimiamo ma che scegliamo di non frequentare, se non in precise occasioni.
L’approccio numero tre, infine, è l’abbandono senza appello, il rifiuto fantozziano. Ora, questi tre approcci non sono una regola assoluta, e riguardano una categoria che a ben vedere è un’anti-categoria, e cioè: chi non fa lo scrittore di mestiere o chi, per meglio dire, non è per prima cosa scrittore (à la Hemingway).
Herzog in Catalogna: “Una relazione borghese” di Gonzalo Torné
Questo pezzo è uscito su Succede oggi.
Si sa come funziona, no? Prima che un libro esca, già si affaccendano gli amici dell’autore, gli aspiranti amici, i corteggiatori delle funzionarie editoriali e quelle che vorrebbero soffiare il loro posto di lavoro, i fan più zelanti che sono pronti alla pugna, pur di difendere il loro favorito e le sorti della sua opera, e gli scrittori più amatoriali, noti a livello rionale o al massimo municipale, che si mettono in scia del nome più grosso e partecipano attivamente alla sua promozione, sperando di ottenerne un po’ di gloria riflessa, da buoni “adorautori”: uffici stampa alternativi e più efficaci degli stipendiati, tutta una nuova classe culturale che, tramite la propaganda forsennata dei propri (inimitabili) gusti, aspira al riconoscimento sociale della propria identità.
Stephen King dovrebbe mettersi al passo coi tempi, aggiornare Misery, inscenare una girandola di vendette incrociate che insanguini i destini di questi groupies letterari, che finirebbero per ammazzarsi a vicenda, pur di risultare gli unici e gli ultimi in grado di apprezzare il loro beniamino.
Un estratto da “Medusa” di Luca Bernardi
Pubblichiamo, ringraziando l’autore e l’editore, un estratto dal romanzo Medusa, uscito in questi giorni per Tunué.
di Luca Bernardi
Devo vedere il Mercante.
Chi?
Devo parlare con gli alieni, va bene? Ci metto due secondi.
Non puoi accontentarti della telepatia, dice il Ginger, come tutte le persone normali?
Non posso aspettare che si facciano vivi loro, dico, ho bisogno di una zona liquida.
Carne da canone
di Luigi Loi
L’occidentale credeva ingenuamente che le opere d’arte belle fossero anche le più importanti. Abbiamo collocato Bach, Mozart, i Beatles al centro di questa geografia dell’importanza. Peccato che la storia prima o poi metta tutti in imbarazzo. Nel loro tour in Italia del 1965 i Beatles furono accompagnati da Peppino di Capri. Dopo più di 50 anni l’aneddoto ci fa sorridere perché dimentichiamo una cosa: il bello in termini assoluti non esiste, il bello ha sempre un contesto e una storicità. I Beatles hanno influenzato tutte le successive generazioni di musicisti, oggi sono belli e imprescindibili. Nel 1965 anche Peppino di Capri evidentemente lo era.
Insomma, quello che accade in musica accade in letteratura, perché anche qui dove sta il bello nessuno più osa dirlo con certezza. Se venisse lanciato un nuovo programma Voyager, cosa decideremmo di mettere dentro la piccola libreria italiana per extraterrestri?
La cultura in trasformazione: un estratto
È in libreria La cultura in trasformazione. L’innovazione e i suoi processi a cura di cheFare (minimum fax): pubblichiamo un estratto dal capitolo firmato da Christian Raimo. Vi segnaliamo l’incontro domani, lunedì 28 novembre, alle 19.30 alla libreria Giufà di Roma: intervengono Lucrezia Cippitelli, Christian Raimo e Marco Liberatore. (Fonte immagine)
C’è una scena madre che accomuna i riti di passaggio della maggior parte delle persone mie coetanee, quei thirty-fortysomething che sono cresciuti come me passando l’infanzia tra gli esordi della televisione commerciale e hanno compiuto i diciott’anni mentre Berlusconi scendeva in campo. È una specie di aneddoto-tipo che mi hanno raccontato tutti coloro che, dopo essersi laureati, hanno pensato di continuare a studiare, a fare ricerca, di lavorare all’università. Hanno fatto un dottorato e a un certo punto si trovano di fronte la possibilità di fare un post-doc, immaginano di fare i cultori della materia, di tentare il concorso da ricercatore ecc.
Dalla beat generation a Michele Mari: le letture di Manuel Agnelli
Manuel Agnelli, fondatore e leader degli Afterhours, è uno dei venticinque musicisti intervistati da Pierluigi Lucadei nel suo nuovo libro Letture d’autore, appena pubblicato da Galaad, che indaga i profondi legami tra narrativa e canzone d’autore (fonte immagine).
Quali sono stati i primi romanzi a colpire la tua immaginazione?
Durante l’infanzia, L’isola del tesoro. E poi Oliver Twist e tutto quel genere di letteratura lì. Ho sempre amato le epopee e questo amore mi accompagna ancora oggi. Non è un caso che uno dei romanzi recenti che ho apprezzato di più sia stato Roderick Duddle di Michele Mari, che ha avuto il coraggio di riprendere un genere letterario, quello delle epopee appunto, ormai abbandonato forse perché poco cool. Ti dico senza mezzi termini che secondo me Michele Mari è il più grande scrittore italiano vivente. Dal punto di vista tecnico, stilistico, della libertà mentale, lo ritengo una punta di diamante.
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