Amore, dolore e scrittura secondo Susan Sontag

Questo articolo è uscito sul Venerdì, che ringraziamo (fonte immagine).

«Tutto ciò che mi accade mi induce a riflettere. Riflettere è una delle cose che faccio. Se fossi stata l’unica superstite di un incidente aereo, probabilmente mi sarei interessata di storia dell’aviazione».

È il 1978 e Susan Sontag descrive in questi termini un impulso che nel suo caso non si limita a un’attitudine intellettuale, essendo prima di tutto una maniera di stare al mondo. Per la scrittrice newyorchese il 1978 è l’anno successivo a due libri fondamentali – Io, eccetera e Sulla fotografia – ed è anche il momento in cui elabora l’esperienza del cancro in un saggio, Malattia come metafora, che è «uno dei pochi testi che ho scritto con piacere e con una certa rapidità, proprio perché era strettamente connesso a ciò che accadeva ogni giorno nella mia vita».

La fabbrica e il vicolo. Ricordando Ermanno Rea

Ricordiamo Ermanno Rea, scomparso il tredici settembre scorso, con un’intervista realizzata per Lo Straniero – che ringraziamo – da Alessandro Leogrande. Il pezzo risale all’ottobre 2002, all’uscita del romanzo La dismissione (Rizzoli) (fonte immagine).

Cosa ti ha portato a scrivere due libri come Mistero napoletano e La dismissione?

Ho cominciato a scrivere libri a sessant’anni. Precedentemente avevo scritto tanto, ma da giornalista. Ho lavorato per molti giornali: “l’Unità”, “Paese sera”, “Vie nuove”,  “Panorama”, “il Giorno”… Ma ho sempre pensato che era necessario liberarsi dal giornalismo per cogliere la realtà. Ho sempre pensato, oggi più che ieri, che scrivere dei libri non significa inventare storie di sana pianta, non si tratta di inventare la vita. Nella grande stagione del romanzo, fino alla prima parte del Novecento, le società occidentali pativano il deficit di informazione, la carenza di notizie. In un certo senso, lo scrittore, inventando storie, riempiva questo vuoto, raccontava il mondo. Ma oggi la situazione è radicalmente diversa.

Le due Istanbul di Burhan Sönmez

Sabato pomeriggio, all’interno di Pordenone legge, Burhan Sönmez presenterà Istanbul Istanbul (nottetempo) con Marco Ansaldo. Di seguito un’intervista realizzata da Gabriele Santoro.

«Gli scrittori credono nell’osservazione e nella contemplazione, mentre i governi confidano nella sorveglianza. E noi, scrittori, osserviamo tutto, inclusi i governanti quando sono impegnati a mantenerci sotto sorveglianza», dice Burhan Sönmez. A Istanbul il pane e la libertà erano due desideri che richiedevano di essere l’uno schiavo dell’altro. «Si sacrificava la libertà per il pane o si rinunciava al pane per la libertà», ammette uno dei quattro personaggi che animano i dieci capitoli di Istanbul Istanbul (nottetempo, 299 pagine, 17 euro, traduzione di Anna Valerio).

In questo romanzo Sönmez mette insieme quattro uomini: un dottore, un barbiere, uno studente e un vecchio rivoluzionario incarcerati in una stanza sotterranea, sottoposti a interrogatori e a torture indicibili. I quattro si raccontano storie, facendo risplendere le stelle nell’oscurità che opprime Istanbul. Coltivano la possibilità che la Istanbul di sopra non li dimentichi, in fondo «il cambiamento e la bellezza della città dipendevano dal potere delle persone di cambiare e diventare più belle».

Psicopolitica e potere secondo Byung-Chul Han

(fonte immagine)

In un suo libro precedente, La società della stanchezza, uscito nel 2012, il filosofo Byung-Chul Han sostiene che la società del XXI secolo non conservi più le caratteristiche novecentesche illustrate da Foucault: non si tratta più di una società di tipo disciplinare e controllata da determinate forme di obbedienza e dispositivi ma, piuttosto, l’individuo del nostro secolo è parte di una società di «prestazione», cioè non è nient’altro che un imprenditore di se stesso. Per questo le sofferenze che il soggetto patisce, sono quelle derivate da un livello di competizione sempre altissimo, e quindi incarnate in depressioni, burnout, paura di non essere all’altezza e altre cose simili.

L’arte della rivalità

Questo pezzo è uscito su Repubblica, che ringraziamo. (Nell’immagine il dipinto di William Turner Veduta di mare a Helvoetsluys).

«È stato qui, e mi ha tirato una fucilata», mormorò John Constable in un giorno di primavera del 1832, rientrando nella sala della Royal Academy dove il suo quadro con l’Inaugurazione del Ponte di Waterloo era esposto accanto ad una marina di William Turner.

Cos’era successo? Constable aveva lavorato per un decennio a quella grande tela in cui il paesaggio urbano si faceva pittura di storia, una sorta di summa artistica nella quale aveva condensato i risultati di una lunghissima frequentazione di Canaletto, e di Claude Lorrain.

Nulla di tutto questo preoccupò Turner, che fu invece colpito dai rossi brillanti delle bandiere e delle coperture delle barche che affollavano il Tamigi al centro del quadro del rivale: la sua Veduta di mare a Helvoetsluys era così grigia, al confronto. Così, con un gusto teatrale che finì di mandare in bestia Constable, egli entrò nella sala con la tavolozza, e aggiunse un tocco di rosso «non più grande di uno scellino» in mezzo al suo mare, andandosene soddisfatto.

La scienza della vita

È online da ieri Ideafelix, una nuova piattaforma editoriale che finanzia – attraverso la vendita delle sue pubblicazioni – laboratori didattici o progetti culturali nelle scuole italiane. Il progetto prevede la pubblicazione di sei romanzi all’anno (il primo è Studs Lonigan di James T. Farrell) e un magazine online gratuito. Dal magazine pubblichiamo oggi il racconto La scienza della vita della scrittrice americana Gina Berriault.

 

La scienza della vita

di Gina Berriault

Alle nove la moglie tornò a casa da sola. La baby-sitter fu colta di sorpresa dallo stridore degli pneumatici che frenavano sulla ghiaia. Era una ragazza semplice e talmente coscienziosa da sentirsi sotto esame anche quando era da sola. Aveva la sensazione che la gente la considerasse una di cui non ci si può fidare perché era piena di mancanze, così tante da essere imperdonabili, come se le fosse stata data la possibilità di scegliere in che modo apparire agli altri e avesse scelto male.

Essere William Burroughs

Questo pezzo è uscito su Linus, che ringraziamo.

Quello di Barry Miles non è il primo tentativo di raccontare una delle biografie più estreme della storia letteraria moderna. Il fuorilegge della letteratura (SugarCo, 1992) di Ted Morgan e un paio di altri libri non tradotti in italiano si sono concentrati su diversi periodi della picaresca esistenza dell’autore de Il pasto nudo.

Io sono Burroughs (Il Saggiatore, traduzione di Fabio Pedone) è la summa finale, quella che raccoglie e completa i lavori precedenti grazie, anche, alla prossimità dell’autore con il suo soggetto e con molti personaggi a lui vicini: Miles è stato attivo nel mondo della cultura underground inglese e americana fin dagli anni sessanta, ne ha scritto molto e ha avuto modo di scartabellare nell’archivio sterminato di Burroughs con l’intenzione di catalogarlo: da quel lavoro di scavo è riemerso il manoscritto di Queer.

Il lettore all’angolo con Dostoevskij

Questo pezzo è uscito su Avvenire, che ringraziamo.

di Alessandro Zaccuri

Si fa presto a dire “angolo”. Dipende da chi scrive, e anche da chi legge. Se l’autore, per esempio, è un russo del XIX secolo, il termine può definire la porzione minima di una camera in affitto, secondo un sistema di parcellizzazione del quale farà poi tesoro il dirigismo sovietico (il poeta Iosif Brodskij ricordava di essere cresciuto «in una stanza e mezzo»).

Ma se il lettore dispone di qualche informazione sui gradi di iniziazione massonica, a risaltare di più sarà il riferimento al significato esoterico attribuito a squadre e compassi. Infine, se il testo con il quale ci si misura porta la firma di Fedor Dostoevskij, l’angolo è tutto questo, ed essendo tutto questo si rivela per quello che effettivamente è: l’estremo affioramento in superficie del «sottosuolo» che tutti, prima o poi, siamo chiamati a esplorare.

“La forma delle rovine”, complotti come opere d’arte collettive

Questo pezzo è uscito sul Corriere della Sera, che ringraziamo.

di Emanuele Trevi

Sarà capitato a tutti ascoltare qualche immonda solfa dietrologica sull’11 settembre. Confesso che, pur trovando in genere divertente e addirittura poetica la follia umana, quella storia della CIA che riempie di esplosivo le Torri Gemelle, senza che nessuno se ne accorga, ha il potere di mandarmi in bestia.

Il mai troppo compianto Umberto Eco coniò una definizione perfetta di questo tipo di fissazioni: il «pensiero pirla». Possiamo riderne, ma ci vedo anche un risvolto tragico e ripugnante. Anche in queste forme di imbecillità tutto sommato innocue, sembra realizzarsi l’incubo di Primo Levi: che nessuno creda più ad Auschwitz. È dunque con grande empatia che ho gustato la scena in cui il protagonista della Forma delle rovine di Juan Gabriel Vásquez rompe il naso a un tipico esponente dello peudo-pensiero paranoico, tirandogli un bicchiere in faccia. Ma siamo solo all’inizio del lungo romanzo dello scrittore colombiano, nato nel 1973 e già noto in Italia per altri libri, tra i quali va ricordato almeno Il rumore delle cose che cadono.

Tra densità e rarefazione. La poesia metropolitana di Mario De Santis

Ci sono momenti in cui la realtà sembra sgretolarsi a poco a poco: non in modo evidente, ma in tanti piccoli crolli progressivi che minano le fondamenta stesse dell’universo e mettono in discussione ogni certezza.

Un simile scenario post-apocalittico costituisce l’ambientazione di Sciami, l’ultima raccolta poetica di Mario De Santis, uscita per Ladolfi nel 2015.

Sin dalle prime liriche del libro, dinanzi al lettore si dispiega un universo precario, sull’orlo del disfacimento, in cui le parole chiave evocano una progressiva frantumazione del senso: «crollo», «fuga», «gas», «insetti», «sciami». È un panorama disfatto, devastato, nel quale l’uomo si ritrova a vivere quasi come un superstite o un estraneo, in un mondo che non gli appartiene più, un universo divorato dagli insetti, che ne hanno infestato il cuore malato: «La nuvola che muore ha il cielo sopra lei / e il viola inutile dei gas che la colora: dalla piazza / più grande di Milano, su verso tetti tra le antenne sale / la processione di insetti avvelenati, di triboli e di spine».