Eels’ Rider

L’antefatto del viaggio e del concerto dàta un paio di giorni prima dell’arrivo a Fiesole. Quando, in libreria, ho visto di persona – testimone volontario – Gianni Bisiach prima assecondare poi canticchiare Series of Misunderstandings. Mentre lo stereo tracciava la canzone rimbalzando tra i libri, Bisiach ha cominciato con un mormorìo di conferma, poi – decisamente stregato dalla carillonesca andatura oscillante della canzone – ha tenuto il tempo in una versione privatissima e concentrata dell’uuh-uuhuh fiabesco di Mark Oliver Everett («… if i could do just one thing / set the clock back many years ago…»). Poi ha pagato i libri ed è uscito, sorridendo con tutta probabilità al mondo di fuori con una nuova dose interiore di fraintendimenti pieni di sole.

Scendo dalla macchina con calma, sono a meno di ottanta chilometri di autostrada da Firenze e sono solo le cinque del pomeriggio. Voglio godermi mentalmente quel po’ di spiccioli di Toscana vera che mi toccano in sorte in quest’afa e in questo sole occidentale che da un’ora e mezza mi batte a picco sul neo del braccio sinistro. Bruciando tutta la pelle chiara che trova, in una folgore rossa di lentiggini e di biancore avvizzito a fuoco lento. La solita storia che si ripresenta ogni estate, contabile e spietata come un morto in casa che fa gli scherzi dietro la porta a vetri; quasi una dermatite da contratto.

Uncool Britannia – Apologia del britpop, 20 anni dopo

di Carlo Bordone

All these talk of getting old, it’s getting me down my love..”

“Twentyfive, I don’t recall a time I felt this alive…” 

Fonti riservate e accessibili a pochissimi (wikipedia) mi informano che ad agosto ricorrono i ventennali di alcuni album importanti. Vado a elencare: Dummy dei Portishead, Sleeps with Angel di Neil Young, Grace di Jeff Buckley buonanima e Definitely Maybe degli Oasis. I primi tre, mi sono detto, sarebbero materiale eccellente per il post di un blog serio e rispettabile, con una prospettiva storico-critica di un certo livello. Inevitabile, quindi, che scegliessi il quarto. La parte più buzzurra e terra-terra di me (la migliore, probabilmente anche l’unica) avverte fortissima l’esigenza di salire in piedi sul banco, mettersi una mano sul cuore e salutare non solo i cialtroni di Manchester, ma tutto il resto di quella baracconata assurda che si chiamava “britpop”.

Lettere rubate: Francesco De Gregori

Questo pezzo è uscito sul Foglio.
di Annalena Benini

Guarda che non sono io
Quello che stai cercando
Quello che conosce il tempo,
e che ti spiega il mondo
Quello che ti perdona e ti capisce
Quello che non ti frega e che non ti tradisce

Francesco De Gregori, “Guarda che non sono io”

C’è una sequenza fotografica bellissima, dal backstage di “Banana Republic”, era il 1979: Francesco De Gregori a torso nudo, con una bottiglia di birra in mano, e davanti a lui Francesca, sua moglie, con una camicetta a righe e i capelli sciolti. Sono due ragazzi, e lei gli sta dicendo qualcosa, forse è arrabbiata, lui si tocca il naso, lei continua a parlare, seria, poi lui la guarda e lei gli sorride. È un sorriso immenso, anche se piccolo, ha dentro l’amore, la musica, lei che crede in lui e lui che guarda lei, c’è la storia di un  bambino che al compleanno si faceva regalare sempre un’armonica a bocca, e poi di un ragazzo con la chitarra.

Il gioco delle visioni: gli ultimi Arcade Fire, il primo Damon Albarn

di Federico Pevere

Youtube Music Awards 2013. Gli Arcade Fire presentano il loro nuovo singolo, Afterlife, tratto da Reflektor. Tutto, fin dall’inizio, non fa per nulla pensare ad una semplice esibizione dal vivo. Interno notte, Greta Gerwig (sceneggiatrice, attrice, musa) bacia il suo amore, tutto attorno si fa vuoto e allucinazione. Si muove a scatti, delle volte a tempo, altre decisamente meno. Poi, è un attimo, si ritrova in un bosco dove sfogarsi danzando. L’inizio di una storia, si direbbe. È la premiere di un nuovo video, semplice found footage, un trailer o che altro? Nulla di tutto ciò, perchè la Gerwing viene immobilizzata dal cantato di William Butler (leader della band canadese), poco dietro, già immalinconito: siamo su un palco da sempre, lo ignoravamo da sempre. Pochi versi, drammatici, intensi, e Greta scappa via, via di corsa verso la scena. Tutti ballano. C’è finalmente un pubblico. Non è una semplice esibizione, va oltre, dietro c’è lo zampino di Spike Jonze (già Oscar per la miglior sceneggiatura del delicatissimo Her). La direzione di questa’esibizione la scopriremo qualche mese più tardi. È solo l’assaggio di un incrocio.

Mingus secondo Mingus

Mingus racconta Monk: pubblichiamo un estratto da Mingus secondo Mingus di John F. Goodman. Traduzione di Michele Piumini.

Goodman: …Ok, e nel 1951 sei arrivato a New York. Con chi hai suonato la prima volta a New York?

Mingus: Quando sono arrivato a New York, dovevo trovarmi un lavoro, perché rischiavo di perdere mia moglie. Lei [non mi aveva] accompagnato, ero con Red Norvo, che partecipava a un programma televisivo – la prendo alla larga per raccontarti la storia completa, hai tempo? – e Red Norvo era diventato un vero razzista, perché si era messo a lavorare per un canale televisivo razzista.

Le voci di Carmen

Lo scorso 21 giugno l’Arena di Verona ha ospitato la Carmen di Georges Bizet, regia di Franco Zeffirelli e costumi di Anna Anni. Quella sera correva il centenario della prima rappresentazione dell’opera bizetiana nell’anfiteatro veronese e il miglior modo per celebrare una tale ricorrenza era quello di affidarsi a una versione tradizionale e in un certo senso autoritaria: l’allestimento realizzato nel 1995 da Zeffirelli e riproposto numerose volte, regia e scene ormai storiche che, senza troppi azzardi, consacrano un filologico spaccato andaluso e interpretano con maestria la drammaticità dei personaggi.

Ero presente quella notte ma questa non sarà una recensione sulla messinscena.

Giovani una volta sola, ma immaturi per sempre

Questo pezzo è uscito sul numero di luglio di Marie Claire.

Questo è un bel momento per essere giovani. Tra le ossessioni della cultura pop dei nostri anni, accanto al cibo, alle app per incontri, ai fenomeni compulsivi online, alle celebrità home-made ci sono loro: i ragazzi adulti. Quelli che hanno un’età biologica in cui neanche possono comprarsi del vino legalmente ma hanno l’età percepita di star consumate. Li troviamo pressoché in ogni campo, dalla Silicon Valley all’alta cucina, dal diciassettenne Nick D’Aloisio pupillo di Marissa Mayer, CEO di Yahoo, allo chef quindicenne Flynn McGarry che ha imparato a cucinare su internet a undici anni, seguendo tutorial e lasciandosi ispirare da piatti instagrammati, e lo racconta al New York Times buttando là frasi come: “Mi annoio di tutto velocemente, pianifico di aprire entro i diciannove anni un ristorante”. Io a diciannove anni imparavo a mangiare senza sporcarmi le magliette. Sto ancora imparando. Questo è un bel momento per essere giovani, anche se i giovani ci tengono molto a dimostrarsi adulti.

Charles Mingus: «In altre parole io sono tre»

In occasione dell’uscita del libro-intervista Mingus secondo Mingus di John F. Goodman, pubblichiamo un profilo di Charles Mingus firmato da Eddy Cilìa. Ringraziamo l’autore per la gentile concessione.

di Eddy Cilìa

«Sono Charles Mingus. Mezzo nero, mezzo giallo… ma non proprio giallo e nemmeno bianco quanto basta a essere identificato come tale. Per quanto mi riguarda mi considero un negro… Charles Mingus è un musicista, un musicista meticcio che produce musica bella, terribile, amabile, maschia, femminile, musica. E ogni tipo di suono: forte, piano, inaudito. Suoni, suoni, suoni, suoni, suoni, suoni, suoni… Uno che gli piace un sacco giocare con i suoni».

Si raccontava così – a una radio canadese, in un anno imprecisato (ho preso la citazione dal libretto di Epitaph, riordino ed esecuzione postuma di alcuni dei suoi spartiti più memorabili) – il più grande contrabbassista della storia del jazz e uno dei più grandi compositori – afroamericani e non solo, jazz e non solo – dell’ultimo secolo.

Un tè a casa di Paul McCartney: David Leavitt e la musica

David Leavitt, il celebre autore di Ballo di famiglia, è uno dei venticinque scrittori intervistati da Pierluigi Lucadei nel suo libro Ascolti d’autore, pubblicato nelle scorse settimane da Galaad con una postfazione di Nicola Lagioia.

È vero che da bambino volevi diventare un cantante?

Sì, verissimo, ma purtroppo ero stonato.

Hai studiato qualche strumento?

Da bambino ho preso lezioni di chitarra da Linda Waterfall, una cantante folk ancora in attività, ma suonavo in modo terribile. Oggi, nonostante non suoni nessuno strumento, spesso sogno di saper suonare il pianoforte o il clarinetto. Soprattutto mi piacerebbe saper cantare. Se potessi cantare, sarei felice di smetterla con la scrittura.

Hydra, Marianne e Leonard Cohen

Questo pezzo è uscito su il Venerdì di Repubblica.

Per celebrare i prossimi ottant’anni di Leonard Cohen (21 settembre) uscirà a giugno in America un libro che racconta i suoi anni in Grecia, nell’isola di Hydra, e la storia d’amore con Marianne, all’anagrafe Marianne Ihlen, nella canzone So Long, Marianne. Il libro si chiama come la canzone (So Long, Marianne, ECW Press, pagg. 288, 24,95 $) e a firmarlo è la giornalista norvegese Kari Hesthamar. La storia accuratamente raccontata da Hesthamar nasce da una lunga intervista rilasciata, dopo anni di silenzio sull’argomento, da Marianne Ihlen, musa e compagna di Cohen nei suoi anni in Grecia. Ed è da Marianne che il libro comincia, tenendo Leonard Cohen da parte per un centinaio di pagine.