Turner e l’arte della serietà

di Gaia Manzini

Vado a vedere Turner con un certo scetticismo, non perché non ami Mike Leigh o William Turner (tutt’altro), ma perché le biografie degli artisti hanno il potere di spiazzarmi. Sembra che partano per raccontare la storia di un processo creativo e invece finiscono sempre per fare altro. Mi ricordo ancora di come Pollock (diretto e interpretato da Ed Harris nel 2000) mi abbia a suo tempo affascinato ma anche fatto infuriare.

La follia, la depressione, l’alcolismo dell’artista sono il nucleo magnetico di tutto l’impianto narrativo, la motivazione forte per la quale si sta raccontando quella storia. Sono descritti in modo estetizzante per il pubblico che ama i geni sregolati, in preda a sofferenze, stranezze e bizzarrie, segni inequivocabili del talento che si ammira, ma che si è ben contenti di non avere. Se sei pazzo che almeno tu sia un genio; se sei un genio sicuramente è perché sei pazzo. Anni fa, davanti al Campo di grano con volo di corvi di Van Gogh, una conoscente, sconvolta dalla potenza del quadro, mi si avvicina e senza giri di parole esclama: “S’è tagliato un orecchio!”.

Il crepuscolarismo punk di Francesco Targhetta

Questo articolo è uscito in forma abbreviata su “Alias / il manifesto”. (Fonte immagine)

Potrà sembrare paradossale, ma uno dei più significativi narratori italiani di questi anni non scrive in prosa, bensì in versi. Sto parlando di Francesco Targhetta, il quale, ancor prima di affermarsi con il romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie (2012), aveva già dimostrato la sue doti narrative nella raccolta poetica di esordio, Fiaschi (2009), in cui tratteggia una serie di situazioni, vicende e personaggi che rivelano il lato oscuro e inquietante della ricca provincia veneta (il titolo giocava proprio sull’ambivalenza del termine “fiasco”, che può significare bottiglia di vino, ma anche fallimento). Del resto, il poeta trevigiano è l’esponente di punta di una nuova leva di autori veneti che hanno messo fortemente in discussione le magnifiche sorti economiche del Nordest (si pensi al recente e importante esordio narrativo di Francesco Maino, Cartongesso).

Le carceri sono le viscere del mondo – su “Cattivi” di Maurizio Torchio

(Immagine: Egon Schiele, Quell’arancia è stata l’unica luce, 1912)

di Luca Illetterati

La narrazione delle situazioni estreme, di quelle situazioni-limite che si pongono ai bordi dell’ordinario e che da questo punto di vista, non di rado paludoso e sfuggente, lo svelano nelle sue dinamiche perlopiù irriflesse, si espone sempre a un doppio pericolo: quello della riduzione e quello dell’enfasi.

La riduzione è il non riconoscimento della differenza, è lo scioglimento dello straordinario nell’ordinario o dell’ordinario nello straordinario; è il tentativo di smussare gli spigoli taglienti dentro una omogeneità che si articola al massimo per differenze di grado, la pretesa di descrivere dentro una grammatica unitaria forme di vita che si distinguono invece proprio in quanto reciprocamente altre e vicendevolmente intraducibili.

Schermi Fallaci

Pubblichiamo un articolo di Annalena Benini apparso ieri sul Foglio, ringraziando l’autrice e la testata. (Nella foto, Oriana Fallaci con Alekos Panagulis. Fonte immagine)

di Annalena Benini

Rinchiudere Oriana Fallaci dentro un film di due ore è un’impresa quasi folle, che lei per tutta la vita ha vietato. “Se vogliono fare i film su di me, che li facciano quando sarò morta”, diceva (o forse urlava) agli avvocati. “Non affiderei mai a un’altra persona la storia della mia vita”. Adesso che Oriana Fallaci è per sempre di chi l’ha letta, amata, oppure odiata, di chi dice che a un certo punto è impazzita o invece ha sempre avuto ragione, un film italiano per la televisione in due puntate (oggi e domani è nei cinema, intero – ieri e oggi per chi legge, ndr) cerca di raccontare la giornalista e scrittrice italiana più celebre del Novecento.

Dal lamento alla nemesi: Philip Roth scatenato

La vita di Philip Roth si complica una mattina del 1959 quando una vecchia fidanzata bussa al suo minuscolo appartamento di Manhattan con un campione di urina in mano. È incinta, e quella è la prova. Roth ha ventisei anni e in tasca il National Book Award vinto con il primo libro, pochi spiccioli e l’intenzione assoluta di scrollarsi di dosso un’infanzia felice e ebraicamente provinciale. Lei, all’anagrafe Margaret Williams, detta Maggie, è bionda e altissima, rappresenta la «vivida incarnazione del radicamento nordico americano». I due avevano condiviso anni di tafferugli amorosi, dopo la separazione lui l’aveva continuata a consolare per pena e solitudine

Foxcatcher, un film che sarebbe piaciuto a Raymond Carver

Foxcatcher è il quarto lungometraggio di Bennett Miller, già acclamato per Capote (2005) e Moneyball (2011). Come i precedenti lavori del regista e come molti altri film nelle sale in questo momento (American sniper di Clint Eastwood, The imitation game sulla vita di Alan Turing, The theory of everything su Stephen Hawking, Big eyes di Tim Burton) è un film biografico: il che ci dice già qualcosa sul bisogno di un certo storytelling contemporaneo di radicarsi saldamente alla realtà, memore forse del grande discorso che attraversa le arti sul realismo e la non-fiction (e dico di certo storytelling perché vale anche il contrario, se è vero che i film più attesi del 2015 sono quasi tutti di fantascienza).

Credo che i miei lettori portino scarpe da ginnastica. Le lettere John Cheever

di Valentina Della Seta

Scrive Benjamin Cheever: «Mio padre era di un candore estremo, quasi compulsivo, con noi figli. Capivo quando aveva bevuto troppo gin. Capivo quando era in imbarazzo, capivo quando commetteva adulterio. Capivo perfino che tonalità di rossetto lei portasse. Ho spesso udito più di quanto volessi. Ma sono ancora sconvolto da alcune cose che ho scoperto». È un passo della prefazione alla raccolta delle Lettere del padre, John Cheever, pubblicate negli Stati Uniti nel 1988. Il libro esce ora per la prima volta in Italia (Feltrinelli Comete, traduzione di Tommaso Pincio, pp. 488, euro 35,00).
Lo scrittore definito il Čechov dei sobborghi e lOvidio di Ossining, autore di più di cento racconti e di cinque romanzi brevi, era morto nel 1982 a settant’anni.

Sopravvivere nel sogno: l’autoritratto di Manea

di Giacomo Giossi 

Norman Manea è uno dei pochi autori in grado di riconoscere il corpo frammentato del Novecento – trasformandolo in densa letteratura – e di portarlo in viaggio fino nel nuovo secolo. Non è la nostalgia e non è la malinconia la cifra di un autore da sempre straniero in primis alla propria stessa terra. In viaggio (e non in fuga) da un secolo che ha rimosso nell’ideologia ogni origine, che ha schiacciato la cultura e ridotto a ridicola estetica la politica, Manea ha la consapevolezza del reduce che non si limita a sopravvivere nel ricordo di chi è caduto o è stato schiacciato, ma alimenta nella scoperta un ricordo che è una confessione di curiosità per le anime perse.

Il verme annidato nel ventre

Il terzo romanzo di Elena Ferrante, La figlia oscura, è un percorso di comprensione e insieme di liberazione; una ricerca del senso dell’esistenza e allo stesso tempo una riconciliazione con essa. La comprensione è frutto dell’analisi, e l’analisi è un atto di coraggio. Per guardare in fondo a se stessi occorre puntare l’attenzione esattamente al centro della propria paura, esaminarne il nucleo più interno e la consistenza indecisa, prenderne consapevolezza, accettarla per quello che è. Soltanto allora è possibile riconciliarsi con la propria vicenda biografica, comprendere le motivazioni delle scelte sbagliate, perdonarsi. La catarsi è un’operazione ecdotica dell’esistenza, una discesa nei recessi viscerali del sé alla ricerca di un significato, una spedizione ardimentosa per scardinare le proprie stesse difese,una missione impossibile volta al recupero del senso.

E allora com’è l’ultimo romanzo di Houellebecq?

L’enlèvement de Michel Houellebecq (Il rapimento di Michel Houellebecq) è un lungometraggio di Guillaume Nicloux trasmesso su Arté qualche mese fa con protagonista lo scrittore francese rapito da un trio di simpatici e corpulenti personaggi. Questi segregano “Michel” all’interno di una casa frugale in una sorta di comune periferico, nell’attesa di istruzioni. Al momento del rilascio, un uomo dalla fisionomia medio-orientale si presenta dentro una macchina nera per consegnare ai rapitori il compenso per il lavoro eseguito: “Mi sembra di averla già vista, forse a un processo per terrorismo, è possibile?” domanda placidamente lo scrittore, “È possibile” risponde l’uomo. Al di là del riferimento al potenziale retroscena jihadista, la nota saliente del film è senz’altro il clima di distensione, il calore da focolare domestico e l’immediata confidenza che il rapito trova e riflette intorno a sé: nessuna tensione, nessun timore, nessuna vera preoccupazione (se non quella di avere un accendino per le molte sigarette da lui fumate), perfino il prodursi di una vera e propria solidarietà, se non amicizia, tra i protagonisti del rapimento. È come se l’obiettivo della sceneggiatura fosse articolare una specie di commento allegorico intorno alla poetica e alla personalità di Houellebecq: una soffice sindrome di Stoccolma, l’uomo immerso negli eventi catastrofici, rapito dal mondo, e allo stesso tempo dotato di un imperturbabile distacco che nulla ha di eroico, semmai il profilo di un disincanto fatalistico quieto e totale, di una connivenza spontanea, e in fondo di un bisogno inconfessato di fraternità e di amore. Tutto ciò inibisce il dramma, vanifica il giudizio morale, lo sfogo della denuncia, esclude qualsiasi iniziativa da parte del protagonista e in qualche modo (in questo mi sembra risieda la genialità del film) riflette l’orizzonte etico e psicologico incarnato dai molti narratori e protagonisti dei romanzi di Houellebecq, compreso l’ultimo, bellissimo, Sottomissione.