Intervista a Federico Buffa

Questa intervista è uscita su IL a febbraio.

Federico Buffa commenta partite di basket americano da quasi vent’anni e insieme al suo socio Flavio Tranquillo ha creato uno dei linguaggi più sperimentali della storia dell’informazione italiana. Trasformando l’American english in italiano corrente, Tranquillo e Buffa hanno insegnato agli appassionati italiani una lingua esoterica e la storia di un continente. Hanno detto “Dodici Rodman ad allacciata di scarpe” al posto di “Dodici rimbalzi a partita”. Per Sky, Buffa da qualche anno si occupa anche di calcio. Parliamo di lingua, mentori, entrature, politica in un bar di Milano, nel tardo pomeriggio.

Come cominciano i tuoi rapporti con l’America?

C’è mio padre che vorrebbe farmi fare un anno negli Stati Uniti al liceo – che all’epoca era una cosa abbastanza traumatica – perché conosce una persona il cui figlio lo fa. Io vado in una sorta di ritiro preliminare sul lago di Como di sabato mattina e vengo tagliato al primo turno: “Inadatto al mondo americano”, al che mi sono abbastanza rassegnato. Mi immaginavo giocatore di calcio della squadra e immaginavo che sarei stato piuttosto forte rispetto ai miei coetanei degli anni ’70 americani. Mi avranno ritenuto chiuso e ombroso e quindi inadatto ad andare negli Stati Uniti per un anno. Non mi sono mai perdonato di non esserci andato.

La partita perfetta

È in edicola il nuovo numero di IL, il magazine del Sole 24 Ore. Pubblichiamo un estratto dell’articolo di Daniele Manusia.

All’inizio il calcio era un gioco in cui si correva disordinatamente in gruppo dietro a una palla, caricando a testa bassa il blocco di avversari. Non esistevano quasi i passaggi e l’unico gesto tecnico concepibile era il dribbling. Era uno sport violento in cui si esprimevano coraggio e virilità: Jonathan Wilson, nella storia tattica La piramide rovesciata, racconta che nel mettersi d’accordo sulle regole di base, in età vittoriana, nel Regno Unito si discuteva soprattutto se vietare i calci sugli stinchi.

Meno di duecento anni dopo, con un’accelerazione negli ultimi venti, il calcio si è evoluto fino a diventare uno sport complesso, forse addirittura intelligente. Da quando ogni azione viene scomposta in categorie misurabili possiamo renderci conto di quante cose in effetti succedano in campo. Secondo Stefano Faccendini, manager per l’Italia di Opta (una delle principali società che raccolgono e vendono dati sportivi), una partita di novanta minuti genera in media tra i 1.600 e i 2.000 eventi. Si riferiscono ai tocchi di palla, quindi dipende dalle squadre: «Con il Barcellona saranno senz’altro intorno ai 2.000». Ogni tocco finisce in più di una statistica.

Raccontare il calcio inglese

Riferendosi a Il mio amico Eric di Ken Loach, Daniele Manusia ha scritto una volta che nei momenti di difficoltà in Italia vediamo la Madonna, a Manchester vedono Cantona: è vero, oltre che divertente, e rende l’idea di quanto nel Regno Unito questione sociale e calcio vadano di pari passo. La storia ha le sue origini alla metà degli anni Ottanta, quando il fenomeno degli hooligans era ancora fuori controllo e i due disastri di Heysel (1985) e Hillsborough (1989) stavano conducendo alla grande riforma degli anni 90. Negli stessi anni Margaret Tatcher imperversava facendo a pezzi il welfare state con ricadute violentissime soprattutto in quelle Midlands che ospitavano il grande Liverpool degli anni 80 e il Manchester United che sarebbe diventato la squadra più forte al mondo nella decade successiva.

La vita è una partita a flipper

Questo pezzo è uscito sul Corriere della Sera.

I fallimenti umani sono una sorgente sacra per la letteratura. Tra le parabole di vite stroncate, i campioni sportivi che hanno rinunciato alla gloria formano una mirabile squadra a cui va aggiunto, da oggi, il talento sprecato di José Pagliara. Con la tipica struggente malinconia della promessa non mantenuta del calcio – per colpa di un fallaccio che spegne la sua carriera – José è il protagonista dell’esordio narrativo di Claudio Grattacaso, La linea di fondo, pubblicato da Nutrimenti. Per ventisette anni, José ha covato rabbia e nutrito il rancore contro il suo «carnefice» e ora la sua vita è insabbiata. La moglie, Barbara, è malata, vittima di ossessioni che la tengono in uno stato quasi vegetativo, la figlia ventenne, Irene, comunica col padre solo con gli sms ed è inevitabile che il protagonista conduca un’esistenza consacrata all’amarezza, a sfogliare fotografie sbiadite con uno solo desiderio: «tornarmene indietro nel tempo». Il gorgo delle riflessioni, le piaghe aperte dei rimpianti e il rimuginare sulle colpe sono oltretutto attività apparentemente vane: «la condizione di un naufrago – scrive Grattacaso – non cambia se scopre le cause che hanno fatto andare a picco la nave».

Cassius Clay, il ring invisibile

Questo pezzo è uscito su Europa.

Ci sono tre Cassius Clay. Il primo nasce nel 1942 e sparisce all’età di tredici anni e mezzo, quando un ragazzo nero viene massacrato da alcuni bianchi razzisti in uno stato del Sud degli Stati Uniti. Il secondo Cassius Clay nasce pochi giorni dopo la notizia di quel massacro, ed è un pugile che combatterà sui ring di tutto il mondo, vincerà la medaglia d’oro delle Olimpiadi a Roma e cambierà la storia della boxe. Il terzo è un Cassius Clay che parla. Ma allora non sarà più Cassius Clay, perché avrà preso il nome di Mohammed Alì.

Lo scrittore francese Alban Lefranc ha raccontato la vita di questa icona che intreccia sport e politica e che con il carisma del pugile e la retorica della guida spirituale ha scritto la storia dei diritti dei neri americani. Il testo si intitola Il ring invisibile (edito da 66thand2nd, pp. 152 euro 15) e fa sì che una biografia romanzata faccia decantare gli eventi storici perché di quel tempio che è il corpo di Cassius Clay restino in piedi ferite, paure, abbandoni, un groviglio di riflessioni interiori.

Gianni Mura intervista Giacomo Losi

Ogni lunedì su la Repubblica Gianni Mura compila il suo “campo dei ricordi” raccontando le storie dei suoi calciatori preferiti. Pubblichiamo un’intervista a Giacomo Losi ringraziando l’autore e la testata.

di Gianni Mura

Giacomo Losi nel campo dei ricordi ha il numero 3, ma andrebbero bene anche il 2, il 5 e il 6. Tutti i ruoli della difesa li ha coperti, semmai c’è da chiedersi come riuscisse, lui alto 1.68, a marcare giganti come John Charles. Losi è nato a Soncino, in riva all’Oglio, un centro che dista una trentina di chilometri da Brescia, da Cremona e da Bergamo. Ed è catalogato tra i borghi più belli d’Italia, per la sua Rocca sforzesca e le mura che racchiudono il centro abitato.

«Una volta c’era l’acqua nel fossato intorno alle mura. Ma per noi bambini la festa era il fiume, anche se da festeggiare c’era poco. La mia famiglia era povera, io e mio fratello dormivamo nello stesso camerone dei genitori. Mio padre Pietro lavorava in una cooperativa di facchini che riempivano e svuotavano i grandi silos. Mia madre Maria, era in filanda. E di quelle filandere toste, che andavano a discutere col padrone. Me la ricordo, nel primo dopoguerra, che si dava da fare a organizzare i comizi di Pajetta. Mio padre non ha mai voluto saperne della tessera del Fascio.

Razzismo soft

Dato che in Italia neanche la Lega ammette di essere razzista diventa sempre un po’ spiacevole parlare di come vecchi pregiudizi e stereotipi facciano ancora parte della nostra cultura. Se nessuno è razzista è difficile anche parlare di quella forma soft di razzismo, senza ideali, più simile a una specie di maleducazione sociale che alla violenza che mentalmente colleghiamo al razzismo. Il calcio è una parte importante della mia vita per cui è normale che molte mie riflessioni passino attraverso il calcio, e ultimamente per due casi diversi mi è capitato di chiedermi se si trattasse di razzismo. Ma le persone intorno a me (cioè sui social) hanno mostrato più di una resistenza al riguardo, cosa che mi ha fatto pensare che magari erano casi interessanti.

Dieci anni senza Marco Pantani. Il racconto di Gianni Mura

Il 14 febbraio 2004 moriva Marco Pantani. Lo ricordiamo con l’articolo, ormai noto, con cui Gianni Mura lo raccontò il giorno dopo su la Repubblica (e che compare anche in La fiamma rossa. Storie e strade dei miei Tour pubblicato da minimum fax nel 2008). Segnaliamo anche questo articolo dello stesso Mura uscito su la Repubblica due giorni fa in occasione del decimo anniversario della morte di Pantani.

Pantani trovato morto in un residence 

di Gianni Mura

14 febbraio 2004 – Marco Pantani ha cominciato a morire quella mattina del ’99, a Madonna di Campiglio. Non ha accettato la positività, non ha accettato niente di quello che gli capitava. Tanti altri corridori, invischiati nelle faccende dell’ematocrito, del doping, si sono fermati e sono ripartiti. Lui no. Lui, il re delle salite, si è specializzato nelle discese. Agli inferi, ai paradisi artificiali, a tutto quello che lo nascondeva all’opinione pubblica, ai giornalisti, ai giudici. Si è sempre più isolato, la sua fuga ha avuto distacchi crescenti. E ogni tanto, su questo o quel giornale, su questa o quella televisione, gli appelli: Marco, torna.

Appelli giusti, perché il ciclismo senza Pantani era ed è, così appare in questo momento tristissimo, una minestra assolutamente senza sapore. Un palcoscenico senza un prim’attore, con volenterosi caratteristi che però non riescono a dare una scossa al cuore del pubblico. Pantani ci riusciva benissimo, era la sua grande specialità. Pantani sulle salite era l’equivalente dell’acrobata senza rete. Un rituale, con cadenze quasi mistiche. La spoliazione, per esempio: via il berrettino, via la bandana, a un certo punto via anche gli orecchini. Era come un samurai. Ed erano gli altri a saltare per aria.

Il paradosso Gourcuff

em>Questo pezzo è uscito su L’Ultimo Uomo.

Yoann Gourcuff ha ventisette anni, l’età migliore per affrontare il Mondiale brasiliano, e ne avrà ventinove quando la Francia ospiterà il prossimo Europeo, eppure le probabilità che partecipi a una di queste due competizioni sono prossime allo zero. Tormentato dagli infortuni, arrivato a Lione (per 22 milioni più bonus) quando il Lione ha cominciato il proprio declino dentro e fuori dai confini francesi, messo in ombra dall’esplosione recente della generazione di Alexandre Lacazette e Clément Grenier, prodotti del vivaio lionese. Grenier a ventidue anni è capitano, organizza pizza party per la squadra nei periodi difficili e ha preso il suo posto in campo, al centro del gioco del Lione; Gourcuff, costretto spesso sulla fascia, è il giocatore con lo stipendio più alto della rosa che lo scorso anno ha totalizzato appena 18 presenze (e quello prima 13 presenze, di cui solo 10 da titolare; il che significa che nelle ultime due stagioni ha realizzato appena 5 gol e 4 assist). Sull’ultimo numero di France Football è rappresentato in una vignetta sulle spalle di Jean-Michel Aulas, presidente dell’OL che, a uno sportello del Tesoro, con la faccia rossa e sudata dalla fatica, chiede una riduzione delle tasse per «persone a carico». Nella vignetta YG ha un sorriso stupido e gira la testa in direzione di una farfalla.

La strada per l’Open

Il diario di Fabio Severo dall’Australian Open è uscito un anno fa su Studio in cinque parti. Pubblichiamo la prima e in fondo al pezzo vi rimandiamo alle altre quattro puntate. (Immagine: Davidde Corran)

Arrivo a Melbourne Park per ritirare il mio accredito di sabato, nel giorno del terzo e ultimo turno di qualificazioni dell’Australian Open (AO). Il tabellone del singolare di un torneo del Grande Slam prevede 128 giocatori, di cui 104 accedono direttamente in virtù della loro classifica mondiale, 8 tramite wildcard che dànno accesso diretto nonostante il ranking insufficiente, e 16 tramite le qualificazioni, che a loro volta rappresentano un mini torneo di tre turni con un tabellone di 128 giocatori. Lascio l’ufficio accrediti munito di asciugamano ufficiale, ventilatore portatile e borraccia omaggio e mi ritrovo in un intrico di campi secondari da cui proviene il suono di decine di palline colpite quasi all’unisono, dietro teloni e piccoli spalti semivuoti.