Quando un anno e mezzo fa feci l’ultima intervista a Claudio Caligari doveva ancora iniziare a girare Non essere cattivo – era novembre, il primo ciak sarebbe avvenuto a febbraio, la sua morte a maggio, a riprese appena finite. Era molto malato e reduce da anni di isolamento nel mondo del cinema italiano; ma questo mancato riconoscimento non aveva scalfito la sua consapevolezza artistica.
Ogni risposta che mi diede conteneva una specie di solida convinzione che potrebbe essere espressa in questo semplice modo: “C’ho ragione io”. Contro tutti e tutto, contro l’evidenza di produttori che l’avevano per decenni allontanato come un appestato, contro una critica che considerava Amore tossico un film di culto sì ma datato anni luce.
Ma c’ho ragione io non era un testamento spirituale, la forma di testimonianza di uno sconfitto che cercava almeno un riscatto morale. Non lo affermava rivendicando, come sarebbe stato giusto, una politica culturale più attenta nei suoi confronti. Lo dichiarava con calma, in quanto artista, come una constatazione: la Roma che ho in mente io vale di più delle cento farlocche, non credibili, che sono state raccontate negli ultimi romanzi e film italiani.
Del resto, era vero, c’aveva ragione lui. Non essere cattivo è un film che, lo sapeva benissimo Caligari, brucia con la semplice forza della sincerità dello sguardo quell’immaginario di cartapesta che, nel migliore dei casi, si era costruito intorno alla narrazione di Roma come una città di cortili finto-popolari dei Cesaroni e una lingua romanoide come quella delle pubblicità in tv con Enrico Brignano.
No, la Roma di Caligari è allucinata, sfibrata ma inesauribile, notturna e generosissima, materna, sorprendente, una città di una vitalità spropositata nonostante la devastazione urbanistica che ha dovuto subire dal dopoguerra in poi: Non essere cattivo non è un film su tutta Roma, ma sulla periferia come condizione dell’anima, sull’eterna disparità di chi non si allinea a una società funzionale, capitalistica – gli accattoni, i tossici, gli impasticcati, i malati, i poveri di spirito.
Anche Gabriele Mainetti sapeva di avere ragione; anche lui ha fatto fatica a trovare dei produttori che riconoscessero nello script di Lo chiamavano Jeeg Robot non un esperimento ludico che creasse un mash-up tra l’immaginario della borgata e quello degli anime giapponesi, ma un film sul vero spirito di una città sfiancata, feroce, vittima di una microcriminalità che è una malattia etica e al tempo stesso però capace di risorgere dalle acque melmose del Tevere. Enzo Ceccotti resta un accattone anche quando diventa un super-eroe, la sua virtù come quella di Vittorio e Cesare di Non essere cattivo è l’indolenza, quella pigrizia che sembra un vizio e indifferenza, ma è resistenza alla società dei cinici e degli sfruttatori. E se qualcosa in questo mondo può rimettersi in moto, come accade alla ruota panoramica del lunapark abbandonato, non è perché le cose potrebbero andare diversamente, ma solo per un lampo di gratuita bellezza.
Le trentadue nomination ai David di Donatello (sedici e sedici) a NEC e LCJR sono una notizia bellissima e lo sono ancora di più perché cadono nel mezzo di una campagna elettorale condotta da candidati sindaci che non si rendono conto di quanto la città che hanno in testa loro non esiste, e che al posto di quella Roma ne esiste un’altra che finora è stata immaginata, raccontata, vissuta da coloro che non avevano voce e che invece si è visto chiaramente che avevano ragione.
Ps. A tutti coloro che faticosamente hanno creduto in questi due film va dato un grande merito, ma se dobbiamo citarne almeno uno questo è Valerio Mastandrea, che si è prestato a girare il primo corto di Gabriele Mainetti quasi dieci anni fa, Basette, e che si è fatto in quattro o in venti per poter riuscire a far sì che Claudio Caligari girasse il suo ultimo film.
Questo articolo è uscito sull’edizione romana di Repubblica.
Christian Raimo (1975) è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha pubblicato per minimum fax le raccolte di racconti Latte (2001), Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004) e Le persone, soltanto le persone (2014). Insieme a Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Francesco Longo – sotto lo pseudonimo collettivo di Babette Factory – ha pubblicato il romanzo 2005 dopo Cristo (Einaudi Stile Libero, 2005). Ha anche scritto il libro per bambini La solita storia di animali? (Mup, 2006) illustrato dal collettivo Serpe in seno. È un redattore di minima&moralia e Internazionale. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia (Supercoralli) e nel 2015 Tranquillo prof, la richiamo io (L’Arcipelago). È fra gli autori di Figuracce (Einaudi Stile Libero 2014).

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