isochimica

Gli sguardi dei periti dell’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università Sacro Cuore di Roma rappresentavano la paura. Era il 19 marzo del 1985 quando si fermarono davanti a una nube di polvere d’amianto, dopo aver varcato la soglia dello stabilimento Isochimica, situato nel quartiere Borgo Ferrovia ad Avellino. Da circa tre anni operai, poco più che maggiorenni, raschiavano a mani nude con mascherine di carta sulla bocca la varietà più pericolosa del minerale, il tipo crocidolite, dalle carrozze dei treni delle Ferrovie dello Stato. Le fibre di crocidolite, aghiformi, sono in grado di penetrare a fondo nei tessuti, dove rimangono per tutta la vita, provocando alterazioni irreversibili.

Già nel 1985 Carlo, Nicola, Antonio, Francesco e il gruppo di operai consapevoli avevano iniziato una lotta senza ritorno, che significa ampliare il bagaglio del proprio sapere. Sapevano quel che chiesero di certificare, in un clima generale di omertà che attanagliava la città, ai tecnici del Sacro Cuore: «Quanto abbiamo potuto constatare di persona in fabbrica ci permette già di affermare che non esistono sufficienti condizioni di tutela della salute occupazionale dei lavoratori».

Nel mese di febbraio Alessandro Manganiello, contaminato e ammalatosi a causa dell’amianto inalato, se n’è andato. È morto all’età di sessantasette anni. Era uno dei più anziani, ne aveva 36, quando entrò all’Isochimica. È stato fra i primi e i più attivi nella lotta condotta per denunciare quel che è stato e quel che è sepolto sotto a una fabbrica figlia di un processo di delocalizzazione e del ricatto occupazionale in una terra senza lavoro. Prima di lui nel luglio del 2015 il cinquantaduenne Salvatore Altiero si è arreso alla leucemia. Le Tac toraciche raffigurano i sette anni di lavoro, dal 1983 al 1990, vissuti dentro alla fabbrica d’amianto. Questa è una storia italiana poco raccontata, che si sta costellando di lapidi.

Manganiello e Altiero risultavano fra le le 237 parti offese riconosciute dalla Procura della Repubblica nel maxi processo ex Isochimica. Il 21 aprile presso il Tribunale di Avellino si è celebrata la quarta udienza preliminare. Tre anni fa il Procuratore della Repubblica irpino, Rosario Cantelmo, da poco insediato, dando seguito all’ennesima denuncia vergata dai lavoratori ha disposto il sequestro dell’ex stabilimento. Il 10 novembre 2014 la Procura aveva reso nota l’ipotesi dei reati di disastro doloso, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, omicidio colposo e lesioni personali gravi e gravissime, omissioni di atto d’ufficio come singoli e in concorso a carico di 29 persone: proprietà, dirigenti e curatore fallimentare dell’impresa, alti funzionari delle Ferrovie dello Stato, amministratori, tecnici comunali e sindaci succedutisi, responsabili della Asl e delle aziende che avrebbero dovuto mettere in sicurezza il sito.

La gran parte degli operai è contaminata, è salito il numero delle morti: otto quelle che avrebbero accertato i magistrati, più di venti secondo gli operai. Le migliaia di particelle di amianto nei polmoni sono una bomba a orologeria. Come è noto le patologie da amianto possono avere una latenza temporale lunga, e dunque è necessario un monitoraggio sanitario costante.

Tra gli indagati appare anche l’attuale primo cittadino Paolo Foti, che non avrebbe attuato gli interventi per mettere in sicurezza il sito produttivo dismesso. Il 18 aprile Foti ha presentato il progetto preliminare e il piano di lavoro per la rimozione delle strutture dei rifiuti superficiali nell’ex stabilimento Isochimica. Come riportano le cronache della conferenza stampa l’ha definita «l’opera pubblica più importante per la città di Avellino dalla ricostruzione post sismica»: cinque anni di lavori per un importo complessivo pari a oltre dodici milioni di euro. La settimana successiva il premier Matteo Renzi e il presidente della Regione Vincenzo De Luca, durante la stipula del Patto per la Campania, hanno annunciato le risorse per finanziare tale bonifica.

In trent’anni raramente è affiorata sui media nazionali la voce degli operai ex Isochimica. È successo quando la malattia ha cominciato a trasformarsi in condanna a morte. L’Unità di ricerca sulle topografie sociali dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli invece lo ha fatto accuratamente con un’organica raccolta di saggi curata da Antonello Petrillo, Il silenzio della polvere (Mimesis, 234 pagine, 18 euro), rigorosa e ben scritta. Il titolo della ricerca socioetnografica, realizzata sul campo in oltre due anni di interviste, di partecipazione alle assemblee operaie e di quartiere e con la relativa raccolta dei dati, è quantomai appropriato.

L’Isochimica nasce senza un’inagurazione ufficiale. Nei documenti dell’allora Usl 4 e dell’Ispettorato del lavoro di Avellino non c’è una data d’inizio dei lavori di scoibentazione dell’amianto dalle carrozze delle FFSS, non c’è traccia del primo anno di attività. A quell’epoca i rischi dell’esposizione all’amianto erano già noti e l’argomento aveva una centralità nel dibattito pubblico nazionale. Antonio, ex operaio, ricorda:

«Il lavoro era faticoso, ma nelle pause si scherzava, eravamo tutti giovani, si parlava di fidanzate, del matrimonio che grazie a questo lavoro sembrava possibile. Seduti sui gradini delle carrozze dei treni – piene di polvere di amianto – mangiavamo il nostro panino, un caffè e poi si tornava a grattare i vagoni. Ci sembrava normale che il lavoro fosse faticoso, del resto eravamo operai mica impiegati».

Poi si commuove:

«Scusa se piango, ma in quel luogo di morte ci portai pure mio fratello, più giovane di me; è morto da pochi giorni con un tumore. Non me lo perdonerò mai, anche se lui mi ripeteva sempre, fino agli ultimi giorni di vita, che non dovevo sentirmi in colpa perché la cosa che lo consolava era l’idea di morire per un lavoro socialmente utile, che aveva impedito ai tanti viaggiatori e agli altri lavoratori che stavano in quei maledetti vagoni di ammalarsi».

tutabianca

L’anno zero dell’Isochimica è un binario morto della stazione ferroviaria di Avellino. L’antefatto sono carrozze che arrivavano per istruire gli operai alla bonifica dall’amianto. Era la primavera del 1982 e le Ferrovie dello Stato avevano esternalizzato: i dipendenti della costituenda Isochimica, sotto la guida del ferroviere in pensione Vincenzo Foschi, come egli stesso confermò al magistrato Roca, imparavano a rimuovere l’asbesto. Nella ricostruzione documentale proposta dal libro ciò anticipò la realizzazione del raccordo ferrato fra la stazione ferroviaria e il nascente stabilimento dell’Isochimica, che segnerà lo sviluppo e la crisi del Borgo Ferrovia.

Nel periodo 1982 – novembre 1983 ciò avveniva a meno di centro metri da dove i passeggeri sostavano in attesa dei treni. L’amianto raschiato veniva depositato in sacchetti di plastica portati poi via per lo smaltimento verso destinazioni ignote: «Neanche un grammo dell’amianto scoibentato dall’azienda di Elio Graziano risulta smaltito in una qualche discarica autorizzata. La scoibentazione svolta nell’Isochimica produceva enormi quantità di amianto (una delle perizie giudiziarie stima, sulla base dei contratti reperiti, in 2.276 tonnellate l’amianto raschiato presso l’Isochimica) il cui regolare smaltimento comportava costi di altrettanta grandezza. Furono adottati metodi alternativi».

Il metodo veloce consisteva nell’interramento nel perimetro della fabbrica e successivamente nell’impasto di cubi fatti di cemento e amianto, oggi ruderi progressivamente deteriorati che ancora stanno lì, nei luoghi limitrofi a quel che resta dei due capannoni. «Alle volte io stesso raccoglievo da terra i residui della lavorazione per poi riempire sacchi di plastica, quelli comunissimi per l’immondizia. E questi sacchetti sotterrati fuori, nel recinto della fabbrica, a venti, trenta centimetri di profondità. Basterebbe una semplice pala per portarli alla luce», dichiarava un operaio, sotto anonimato, il 2 aprile 1988 a Il Giornale di Napoli.

Il 26 febbraio 1983 l’Isochimica ottenne dal Comune di Avellino la concessione edilizia. L’impianto si sarebbe dovuto occupare della messa in opera di isolanti chimici termo-acustici, dunque la struttura era esclusa da quelle insalubri. Nel settembre del 1986 Isochimica ricevette l’agibilità per un solo capannone, il B, realizzato in ampliamento di quello esistente. Quello dove si concretizzava la scoibentazione non risultava avere alcun permesso concernente l’agibilità: «L’Isochimica non era nelle condizioni giuridiche di svolgere la sua attività, ma né i tecnici comunali, né l’ufficiale sanitario, né alcun altro organismo di vigilanza se ne accorse», scrive Antonio Petrozziello. Nel libro c’è una cartina molto significativa, commovente; l’ha disegnata a penna l’operaio Antonio.

piantina

C’è il binario che collega alla stazione e portava le carrozze dentro allo stabilimento. A sinistra del carro ponte appare il capannone A, dove si effettuava la scoibentazione, mentre a destra il B destinato al montaggio e alle riparazioni delle carrozze che ripartivano. Accanto agli uffici amministrativi spunta l’ufficio degli ispettori delle Ferrovie dello Stato, che dovevano controllare il lavoro: «Istituito presso l’Isochimica un posto fisso di sorveglianza, che aveva il compito di seguire direttamente i lavori ed effettuare collaudi intermedi e finali sulle lavorazioni», scrive ancora Petrozziello. Poi lo spogliatoio con le docce. All’esterno i blocchi di cemento e amianto.

Ma chi è Elio Graziano, il padrone, oggi ottantenne? Si fa chiamare l’ingegnere. Amava mettere in mostra la ricchezza accumulata. A metà degli anni Ottanta comprò, con la benedizione dell’allora Procuratore capo della Repubblica avellinese, l’Avellino Calcio che in serie A dava lustro alla città, doveva sopire il dramma del terremoto. Il calcio alimentò un alone di intoccabilità intorno a Graziano. Gianni Festa, già direttore del Corriere dell’Irpinia lo ritrae così: «È il grande corruttore degli anni ’80 con legami politici non definiti ma affaristici; non si trattava di ideali politici o di partito ma di gente che insomma lo aiutava a scoibentare un po’ d’amianto».

Anna D’Ascienzo ha provato ad avvicinarlo per un’intervista. Lui, figlio di ferroviere, le ha affidato un memoriale in cui si racconta come imprenditore di successo e onesto, ripercorrendo il proprio curriculum: «Superato brillantemente il concorso di dirigente chimico presso le Ferrovie fui inviato a Firenze al laboratorio chimico tecnologico, direzione generale servizio materiale a trazione. Successivamente trasferito a Bologna come caporeparto di produzioni chimiche speciali. Io ero distaccato presso le Officine Grandi Riparazioni delle FFSS dove ho operato per 18 anni».

Nel 1968 il pre pensionato dalle FFSS Graziano tornò al Sud e aprì a Fisciano due fabbriche, poi riunite in una, IDAFF ICG Spa, che realizzavano speciali prodotti chimici destinati quasi per intero alle stesse FFSS (detergenti industriali, agenti per la sverniciatura, prodotti ignoritardanti, diserbanti per i binari). Il salto di qualità negli affari giunse nel 1979 con l’appalto da 140 miliardi di vecchie lire per la fornitura di lenzuola Tessuto non tessuto, una fibra sintetica a base di poliammidi, destinate ai treni notturni delle FFSS.

All’inizio degli Ottanta Graziano era all’apice del proprio successo con la fornitura TNT appaltata alla IDAFF e la decoibentazione all’Isochimica, garantita dal patrimonio di relazioni personali dell’imprenditore. Proprio le lenzuola, pagate a cifre fuori mercato dalle FFSS, segnarono il crollo della fortuna economica di Graziano. Uno scandalo corruttivo che condusse alle dimissioni l’intero consiglio di amministrazione delle FFSS e anticipò Tangentopoli.

D’Ascienzo spiega che il legame tra l’uomo prima dell’azienda pubblica e l’imprenditore privato poi non è scindibile: «Isochimica Spa è il risultato dei lunghi rapporti di successo e di lavoro che egli è stato in grado di costruire e gestire con le FFSS. La traiettoria economica e sociale dell’imprenditore è in uno spazio capitalistico e subalterno, legittimato da FFSS. Egli è oggetto, non soggetto, di pratiche governamentali che scandiscono i tempi del suo essere uomo di successo e criminale all’Isochimica poi».

Graziano portò l’industria nel cuore del terremoto, in quartiere che, come illustra efficacemente Gianpaolo Di Costanzo, nella periferia orientale di Avellino era il punto di contatto fra città e campagna. Quello che era agricolo è diventato industriale: dove c’erano i noccioleti si sono installate le fabbrichette. Nel post terremoto si costruisce e diventa un quartiere dove si dorme non abita. La sorte del quartiere è determinata dallo sviluppo dell’area industriale di Pianodardine al confine del Borgo Ferrovia.

Nella depressione economica della provincia di Avellino, fra le più povere nel Meridione agli inizi degli Ottanta, l’Isochimica con i suoi oltre trecento posti di lavoro è una manna dal cielo a livello occupazionale, ma non è concepita per alcun tipo di sviluppo duraturo. «Il progetto di Isochimica, il cui obiettivo era scoibentare tutti i 20mila quintali di amianto per conto delle FFSS, obiettivo che l’azienda di Borgo Ferrovia ha raggiunto», sostiene Stefania Ferraro.

Il quartiere e la fabbrica, che nell’arco di un chilometro lungo via Francesco Tedesco confina con scuole e campi sportivi, restano corpi separati: «Negli anni l’attività dell’Isochimica non si è tradotta in un legame tra il vissuto dello stabilimento e degli operai e quello del quartiere e dei suoi abitanti», scrive Di Costanzo. La fabbrica è quasi invisibile nel quartiere, come lo stesso lavoro degli operai che non sanno quel che producono. L’Isochimica, l’industria e il lavoro, invece è centrale nello scambio e nella mediazione politica. Il diritto al lavoro è una concessione ambigua. Ancora Di Costanzo: «Alla base vi è un intenso rapporto personale con il potere politico e amministrativo che assume un ruolo di mediatore». Oggi quelle fabbriche sono vuote, delocalizzano. Si emigra. Negli anni più acuti dell’ultima crisi, 2008-2012, nel nucleo industriale di Avellino la disoccupazione è raddoppiata, fino al 15.9 %. Se all’epoca la fabbrica appariva distante, la paura è il sentimento attuale di Borgo Ferrovia, a causa del depotenziamento della verità, dell’assenza di informazioni affidabili sulla condizione sanitaria e ambientale.

Gli operai ricordano che le prime mobilitazioni per il diritto a un lavoro salubre vennero accolte con ostilità dagli abitanti del quartiere, quasi fossero degli scansafatiche. Al ritorno a casa i familiari di fronte all’emergenza occupazionale non coglievano l’allarme dei lavoratori. «Mia madre – rievoca Rita, sorella di due ex operai – ripeteva ogni giorno “finalmente li ho sistemati”, mentre guardava i miei fratelli che andavano a lavorare all’Isochimica tutte le mattine. Prima che un nostro conoscente trovasse loro questo posto uno dei due aveva deciso di emigrare. A mia madre non sembrava vero che finalmente lavorasse a tempo pieno e sotto casa. Ora uno dei due ha gravi problemi dovuti all’esposizione all’amianto e aggravati dalle cure sbagliate».

Il silenzio della polvere contestualizza e trae delle conclusioni analitiche sulla vicenda Isochimica, che Marco De Biase condensa nel proprio saggio. Questa storia prefigura alcune dinamiche di riproduzione del capitale apportate dalla globalizzazione economica: «Isochimica è un laboratorio del capitalismo deregolamentato di matrice neoliberista». E questione chiave è il rapporto tra Nord e Sud del paese: «La vicenda si inscrive profondamente nelle storiche relazioni economico-politiche tra il Nord e il Sud dell’Italia in cui le forme embrionali di economia neoliberista si sono riprodotte all’interno di relazioni di potere di natura coloniale», osserva De Biase.

isochimi

Nella primavera del 1982, quando i giovani operai iniziarono a scoibentare presso la stazione ferroviaria di Avellino, si sapeva già tutto dell’amianto largamente utilizzato per scopi industriali dagli albori del XX secolo. L’asbesto, come ricorda Antonello Petrillo, consentiva di realizzare prodotti e manufatti praticamente indistruttibili grazie alle sue proprietà ignifughe e coibenti e alla facile lavorabilità. Petrillo ripercorre le tappe dell’impiego dell’amianto da parte delle Ferrovie dello Stato. L’amianto era stato tradizionalmente utilizzato come isolante termoacustico e ignifugo nei pannelli interni dei vagoni nelle ferrovie di tutto il mondo; in Italia si decise di introdurlo massicciamente solo negli anni Cinquanta, a seguito di un grave incendio. La crescente consapevolezza sulla pericolosità dell’amianto porta le FFSS a interrompere definitivamente nel 1975 l’introduzione di amianto nelle nuove vetture e a procedere progressivamente alla sostituzione del materiale con fibra di vetro in quelle esistenti.

«Le maestranze delle OGR (Officine Grandi Riparazioni direttamente gestite dalle FFSS a Torino, Bologna, Prato, Foligno e in numerose altre località) e le loro organizzazioni sindacali resistettero come potevano, consce del nuovo pericolo che la decoibentazione dei vagoni avrebbe comportato. Nel 1979 un’indagine epidemiologica riscontrava un sensibile aumento dei tumori tra i lavoratori dell’OGR di Foligno impegnati nella manipolazione dell’amianto», dice Petrillo.

Un piano decennale per la scoibentazione del materiale segnò la svolta di questa vicenda. Fra i dieci OGR e le sei ditte esterne che avrebbero dovuto eseguire il lavoro, una piccola impresa del Mezzogiorno con una sindacalizzazione pressoché inesistente e un contesto sociopolitico, giudiziario acquiescente, qual era l’appositamente costituita Isochimica, smaltì da sola il materiale tossico da 499 delle 516 locomotive elettriche e 1740 delle 4004 carrozze programmate. La tutela del diritto alla salute dei viaggiatori delle ferrovie italiane era dunque affidato agli oltre trecento operai dell’Isochimica, sprovvisti di esperienza nel settore e di una cultura operaia:

«FFSS rispondeva anche alla necessità di adeguare la rete ferroviaria nazionale al modello di privatizzazione dei trasporti che andava ormai affermandosi in Europa e dunque di ridimensionare fortemente i propri organici (- 46% dal 1980 al 2000). La soluzione ai problemi di sicurezza nazionale dei trasporti viene perciò trovata nel consegnare gran parte della responsabilità di bonifica a un’impresa retta da un imprenditore fidato e vincolato all’azienda appaltante da numerosi interessi. Al pari di altri casi di esternalizzazione di comparti di lavorazione pericolosi molto caratteristici della prima fase della globalizzazione e ancor oggi perduranti, non erano più i lavoratori a spostarsi lungo la tradizionale direttrice Sud-Nord delle migrazioni, bensì il lavoro a seguire la direzione inversa», conclude Petrillo.

A mettere i primi lucchetti all’Isochimica è stata la Pretura di Firenze alla fine del 1988. Gli operai, quale forma di resistenza, avevano cominciato a far tornare al Nord carrozze non del tutto scoibentate. In seguito alle reiterate segnalazioni e denunce degli operai delle OGR di Firenze il pretore del capoluogo toscano Deidda ordinò la chiusura dello stabilimento campano.

A Minima et moralia parla Francesco D’Argenio, ex operaio dell’Isochimica, classe 1960, che vive ad Avellino. A febbraio ha visto morire Manganiello il compagno, l’amico di una vita di lavoro e lotte: «Sono stato insieme a lui fino a mezz’ora prima che se ne andasse. L’insufficienza totale del suo respiro è stata una cosa straziante. Forse erano meglio queste maschere ospedaliere per respirare, rispetto a quelle che ci davano per fare la scoibentazione. Lo conoscevo benissimo. Trent’anni fa lavoravamo insieme. Dopo la chiusura della fabbrica abbiamo continuato a frequentarci, abbiamo combattuto. All’epoca eravamo davvero in pochi a farlo. La solitudine è il sentimento che ci ha accompagnato in tutti questi anni. Ma abbiamo intrapreso questa battaglia senza guardare in faccia a nessuno, soli dinnanzi a un grumo di potere senza scrupoli, ricevendo minacce. La magistratura sta andando avanti. Vediamo a che cosa si arriva».

L’Isochimica ha rappresentato il primo impiego per D’Argenio. Aveva poco più che vent’anni. Quando seppe delle assunzioni alla fabbrica di Graziano si mosse per ottenere un colloquio. Questo è il suo ricordo dell’incontro con il proprietario della Isochimica Spa nell’ottobre del 1982: «L’ingegnere Graziano mi disse: “Qua si deve solo lavorare, il padrone sono io. Non c’è nessun altro padrone, si deve solo lavorare”». Ne Il silenzio della polvere altri operai rievocano l’episodio dell’uscita di Graziano dalla propria Mercedes nera in un grande spiazzale dove erano riuniti aspiranti assunti. Voleva prendere tutti ragazzi giovani, forti, in salute e non politicizzati per svolgere quel lavoro. Li scelse indicandoli con un dito. D’Argenio fu subito preso, ma la formalizzazione del contratto si concretizzò mesi dopo l’ingresso: «Diventai fisso nel luglio 1983 e sono stato assunto regolarmente solo a fine anno».

Ha lavorato direttamente nell’area della fabbrica, quando era ancora in costruzione. Era tutto a cielo aperto. C’erano solo i binari, senza il tetto sopra, che collegavano alla stazione e si scoibentava mentre contemporaneamente preparavano il secondo capannone. L’orario era 8-12, un’ora di pausa e poi si riprendeva dalle 13 alle 17. Smontavano i pannelli delle carrozze ferroviarie, toglievano l’amianto, pulivano a fondo le carrozze, applicavano un solvente per poi rimontarle. D’Argenio, come scritto ne Il silenzio della polvere, conferma la presenza all’interno della fabbrica di personale delle FFSS addetto ai controlli: «Componenti delle Ferrovie dello Stato erano lì presenti. Avrebbero dovuto tutelare la nostra sicurezza. Non solo controllare come uscivano ripulite le carrozze ferroviarie. Non l’hanno fatto. Pensavano solo a cosa portare a casa a fine mese».

amianto

«Quando siamo stati assunti – prosegue D’Argenio – nessuno ci disse che avremmo trattato l’amianto a mani nude e il rischio che avremmo corso. Tanto meno si premurarono di fornirci le possibilità che c’erano per proteggerci. Ci hanno messo direttamente a bordo di queste carrozze a rimuovere l’asbesto. Ci diedero un paio di scarpe anti infortunio, quello sì, e una tuta di carta di Tessuto non tessuto, usa e getta, che produceva sempre Graziano a Fisciano nello stabilimento dell’Idaff con cui riforniva le Ferrovie dello Stato. Con lo stesso materiale realizzava le nostre tenute.

Nel 1984 dopo circa un anno, fra noi compagni, avemmo la concreta percezione del pericolo. Chiedemmo protezioni perché la polvere era insopportabile, inconsapevoli però del danno che ci avrebbe arrecato a medio lungo termine l’esposizione costante. Facevamo delle mascherine con lo stesso colletto delle maniche delle tute, ce le mettevamo vicino alla bocca, come fossero fazzoletti per coprirci da queste fibre sottilissime di amianto che noi scoibentavamo all’asciutto. A metà del 1984 quando insistemmo nel reclamare ci diedero una mascherina di carta, quelle con l’elastico. Convocammo i periti dell’Università di Roma, che date le condizioni si rifiutarono addirittura di entrare nella fabbrica. I sindacati erano solo esterni con potere di contrattazione poco o nullo».

Nel 1987 la beffa di caschi protettivi ancor più dannosi: «Graziano prese dei caschi con un aereatore dietro alla schiena, che immetteva in testa la stessa aria buttata fuori. Era un motorino da dietro e ha finito di inguaiarci. Chiedemmo all’Università Cattolica di analizzarli e trovarono più fibre d’amianto nel casco che nell’ambiente del capannone».

Dal 1983 al 1986 D’Argenio si è occupato ininterrottamente della scoibentazione. Sulle carrozze ha contratto la prima malattia professionale, una brucellosi, perché ripulivano anche il trasporto animali. Si riprese dopo tre mesi. «Graziano mi disse: “Non vuoi lavorare più?” Mi ero sposato e nel 1986 mia moglie era in attesa del secondo figlio. Come avrei potuto rinunciare? Chiesi però un cambio di mansione, dunque non più sulle carrozze. “Dentro al taglio della lana vetro stai buono”, rispose Graziano. Dovetti accettare. Eravamo una squadra di sei operai e tagliavamo la lana vetro da mettere sulle carrozze. In definitiva non ho mai smesso di inalare la polvere senza protezioni». D’Argenio ricorda sopralluoghi dell’Ispettorato e dell’allora Usl del tutto estemporanei e superficiali.

A D’Argenio è stata diagnosticata un asbestosi allo stadio iniziale, che risulta nella tabella ufficiale delle malattie professionali riconosciute dalla Repubblica come attribuita all’esposizione ad asbesto. Già nel 2010 gli esami della Medicina del lavoro di Siena avevano individuato placche pleuriche di asbesto, aumentate fino a 6 millimetri. Prima di allora afferma di non essere mai stato convocato dall’Asl avellinese per uno screening. Lamenta insufficienze respiratorie. L’Inail gli ha riconosciuto il 7% di invalidità, percentuale che ha contestato in tribunale. Le analisi, sostenute a Siena a proprie spese, dicono che ha in corpo oltre 9mila particelle di fibre di amianto. «Lavoro da dodici anni al Moscati – spiega – ma con questa patologia non posso praticamente fare più niente. Solo alzarmi la mattina, andare sul posto di lavoro e non faccio niente. Immagini chi di noi lavora ancora in una fabbrica, qualcosa di micidiale».

D’Argenio individua nel Procuratore Rosario Cantelmo la figura decisiva per la riattualizzazione del dossier trentennale Isochimica: «Ha tenuto conto delle nostre denunce. Ha fatto riemergere i fatti. È un magistrato valente. Alla Dia di Napoli, prima di insediarsi ad Avellino, disse che l’Isochimica costituiva una priorità. Avevamo il diritto, c’era il dovere di essere ascoltati. Abbiamo lavorato per la comunità».

Al fianco dell’ex operaio dell’Isochimica c’è Annarita, la figlia ventunenne: «Lei mi infonde coraggio, mi tira su il morale. Studia all’università e negli ultimi cinque anni ha lottato insieme a noi. Si è attivata molto per far circolare le informazioni sia fra di noi sia sul web. Nel 2011, appena sedicenne, è stata la prima a rientrare nell’Isochimica e a fotografare. Una cosa spaventosa: l’amianto è ancora dappertutto».

Fotografie di Annarita D’Argenio

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2 commenti

  1. Un pezzo interessante e ben documentato su una storia che non va dimenticata. Grazie.

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gabrielesantoro@minimaetmoralia.it

Gabriele Santoro è giornalista professionista dal 2010. Ha lavorato per Adnkronos, gli esteri di Rainews24 e Tv2000. Dal 2009 collabora con Il Messaggero. Scrive per il venerdì di Repubblica, Minima&moralia, Il Tascabile – Treccani e l’Osservatorio Balcani – Caucaso. È autore del saggio inchiesta «La scoperta di Cosa nostra. La svolta di Valachi, i Kennedy e il primo pool antimafia» (Chiarelettere, 2020), della guida narrativa «111 luoghi di Roma che devi proprio scoprire» (Emons, 2022) e di «Tutti i colori del rosso» (Feltrinelli, 2024)

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