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Il 25 agosto esce Il clan di Pablo Trapero: ne scrive Tiziana Lo Porto in un articolo apparso sul Venerdì di Repubblica, che ringraziamo. (Nella foto: una scena del film)

All’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia si è aggiudicato il Leone d’Argento per la miglior regia. Diretto dal regista argentino Pablo Trapero (e in sala dal 25 agosto con Rai Cinema per 01 Distribuzione), Il clan racconta la storia di una famiglia di sequestratori nell’Argentina dei primi anni ottanta.

Il capofamiglia è Arquímedes Puccio (Guillermo Francella nel film), circondato da una moglie e cinque figli partecipi o testimoni dell’attività di sequestri avviata dal padre. A essere rapiti sono i rampolli dell’alta società, a volte coetanei o anche amici dei ragazzi Puccio. Questi ultimi sono tre maschi e due femmine, cresciuti senza fare (né farsi) troppo domande e, raggiunta una certa età, chiamati a partecipare attivamente ai rapimenti.

Il figlio maggiore, Daniel detto Maguila, ha cercato di sottrarsi alla discutibile impresa di famiglia fuggendo in Nuova Zelanda, ma poi è tornato. Il più piccolo, Guillermo, va via a metà film deciso a non tornare. Quello di mezzo, Alejandro, è una star del rugby che gioca nella nazionale argentina dei Los Pumas, e malgrado i comprensibili tormenti interiori è diventato anche lui un rapitore part-time. Moglie e figlie convivono con le urla che arrivano dal seminterrato e fanno finta niente. Ogni tanto uno dei rapiti viene ucciso.

Nessuno denuncia nessuno, godendo insieme al patriarca Arquímedes della temporanea protezione e connivenza del regime militare. Caduta la dittatura cade anche la protezione e il racket. La famiglia Puccio vacilla e poi capitola, disgregandosi di colpo e disperdendosi tra carceri, latitanza e interruzione di ogni rapporto tra i membri. Questa dei Puccio è una storia vera.

Finita sulle prime pagine dei giornali durante la cattura e il processo di Arquímedes e dei suoi soci e familiari, la vicenda è tornata a essere di pubblico dominio grazie a un giornalista argentino, Rodolfo Palacios (autore di diversi libri inchiesta tra cui Conchita, el hombre que no amaba a las mujeres, sul serial killer dentista Ricardo Barreda, e El Ángel Negro, vida de Robledo Puch, asesino serial, prossimo a diventare serie tv in Argentina), che nel 2010 ha deciso di intervistare testimoni e protagonisti della storia cominciando proprio dal patriarca, Arquímedes.

Dalle interviste e ricerche d’archivio è nato l’ottimo libro pubblicato lo scorso anno in Argentina El Clan Puccio (Planeta, pagg. 166, 10,40 euro). Il libro è stato presto adattato in serie tv (Historia de un clan, diretta da Luis Ortega e in 11 episodi, distribuita in Argentina e nel resto dell’America Latina) e adesso, grazie a Pablo Trapero, è diventato un film.

“Film e serie tv sono fedeli alla storia”, dice Palacios, “anche se entrambi i registi hanno dovuto romanzare le situazioni più familiari e intime. È impossibile sapere cosa succedesse davvero dietro le porte chiuse di casa Puccio. Quello che è realmente accaduto lì dentro è un segreto di famiglia che forse non verrà mai rivelato. E non credo nemmeno che romanzare la realtà sia necessariamente un male. Il cinema e la letteratura riescono a dare bellezza alla realtà, a usare la bellezza per dire i fatti più crudeli. Il film e la serie tv sul clan Puccio danno luce al mistero, arrivano lì dove il giornalismo non può arrivare. Sono con Kafka quando dice che la letteratura, e in particolare la poesia, è sempre e solo una spedizione in cerca della verità”.

Dei membri della famiglia Palacios ha intervistato solo Arquímedes. “Alejandro è morto nel 2008”, spiega Palacios. “La moglie di Arquímedes, Epifanía, è ancora viva ma non parla con i giornalisti. Daniel, da quando è scappato dal paese, è come se fosse diventato invisibile. Lo stesso vale per Guillermo. Sylvia, una delle due figlie, è morta anche lei nel 2012, e l’altra, Adriana, che all’epoca del processo aveva undici anni, ha cambiato cognome e come la madre non rilascia interviste. In pratica è come se la famiglia Puccio non esistesse più. Oltre ad Arquímedes, però, ho intervistato due dei membri della sua banda, Roberto Díaz e Guillermo Fernández Laborda, e i parenti delle vittime. Quella è stata la cosa più difficile: sedersi e parlare con i familiari di chi è stato rapito e ucciso. Lì ho capito l’entità del dolore e l’irreparabilità del danno. Un omicida non uccide solo le sue vittime, uccide anche le famiglie delle vittime. E Arquímedes ha ucciso anche la sua di famiglia, e in ultimo se stesso. Personalmente l’ho incontrato poche volte, ma spesso mi chiamava al telefono. Prima che morisse si era creata tra noi una strana relazione. Sul letto di morte mi ha chiamato perché gli facessi l’ultima intervista e perché voleva salutarmi. Non sono andato, e non me ne pento. Al cimitero, quando lo hanno seppellito, c’erano solo due poliziotti e i becchini. E quando sono andato a visitare la sua tomba non ho trovato nessuno”.

Scomparso nel 2013, Puccio non è mai riuscito a leggere il libro né a vedere la serie tv o il film. “In una delle interviste”, continua Palacios, “mi disse che questa forma distorta di celebrità lo rendeva anche felice. Voleva essere parte della storia. Ammirava il suo di padrino, un gangster siciliano, ed era affascinato dalla retorica del peronismo. Si riconosceva nell’Astrologo, il personaggio dei Sette pazzi dello scrittore argentino Roberto Arlt che comandando la sua piccola società segreta vorrebbe conquistare il mondo.

Negli ultimi anni di vita fermava la gente per strada per chiedere se avessero paura di lui, per le stupidaggini che erano state dette sul suo conto, e la gente si limitava a ridire. Il giorno prima di morire, pare abbia chiesto di far scrivere questa frase sulla sua tomba: Come disse un grande imperatore romano: ho provveduto a tutto e ho avuto tutto, ma nulla è valso la pena”.

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Autore

tizianaloporto@minimaetmoralia.it

È nata a Bolzano e ha vissuto ad Algeri e Palermo. Abita tra Roma e New York, dove traduce e scrive di libri, cinema e fumetti per La Repubblica, Il venerdì e D. Ha tradotto, tra gli altri, Charles Bukowski, Tom Wolfe, Jacques Derrida, A.M. Homes, Douglas Coupland, James Franco, Lillian Roxon e Lena Dunham, e ha tradotto e curato la nuova edizione italiana di Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll (minimum fax, 2012). Insieme a Daniele Marotta è autrice del graphic novel Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald (minimum fax, 2011), pubblicato anche in Spagna, Sudamerica, Stati Uniti, Canada e Francia.

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