Manganelli sconclusionato #1. Intervista a Romana Petri

Manganelli Sconclusionato è una rassegna di interviste a cura di Emiliano Ceresi, dottorando in “Italianistica” dell’Università di Palermo, che si propone, nell’anno del centenario dalla nascita dello scrittore, di ripercorrere attraverso la voce di giornalisti, autori e critici, l’opera e il lascito intellettuale di Giorgio Manganelli.

Ospite della conversazione esordiale del Manganelli Sconclusionato è Romana Petri, scrittrice, critica e traduttrice che in Cuore di Furia (il suo ultimo libro edito da Marsilio), reinventa, in forma fantastica, proprio la vicenda biografica ed editoriale di Giorgio Manganelli.

Si ricorda il primo libro di Manganelli che ha letto? Ed è stato subito così segnante da divenire un «padre letterario», come lo ha definito?

Il primo è stato certamente l’Hilarotragoedia, ad attrarmi c’era il fatto che fosse un libro completamente nuovo, un oggetto non identificato che apparve, in maniera spiazzante, sul panorama letterario di allora. Io, dal punto di vista letterario, ero una ragazzina al tempo ed ero influenzata, in maniera osmotica,  dagli studi universitari che conducevo, dibattiti e temi che poi ho anche rinnegato con il tempo, non mi riferisco certo ai libri di Manganelli, ma senz’altro all’idea di metaromanzo allora circolante, così come a certe visioni della neoavanguardia che vedeva nel romanzo classico una congegno borghese destinato a smettere di funzionare: ero immersa nella lettura di Antonio Pizzuto, attratta da I Novissimi  scelti da Alfredo Giuliani e sentivo di condividere quella forma «ribellazione», per riprendere il termine di Walter Pedullà, che erano il vessillo dello sperimentalismo, un coté letterario da cui Manganelli si è presto defilato, però.

Effettivamente nel prendere parola al noto incontro a Palermo del Gruppo 63. anche Manganelli parlava della necessità di riadattamento del romanzo a nuove forme1, seppure da lettore non disdegnasse romanzi di impianto classico, come si evince dalle sue recensioni e dalla sua biblioteca.

Certo, penso a  Charles Dickens e Jane Austen, che erano tra i suoi scrittori preferiti. Avrebbe voluto scrivere un romanzo come Emma.  Al tempo, però,  il mio spirito e insieme a quello delle persone attorno a me, animato da una decisa sperimentazione letteraria, spirava in tutt’altre direzioni. Mi torna in mente una rivista come «Cavallo di Troia», diretta proprio da Walter Pedullà in quegli anni, una specie di laboratorio in cui si dava spazio a diversi testi sperimentali, alla letteratura altra: ricordo ancora l’incipit di un racconto che mi colpì moltissimo al tempo: «il pittore posò posa il pennello», con questo doppio verbo che rendeva compresenti le due dimensioni temporali opposte. Simili espedienti stuzzicavano la curiosità di una studentessa come me: ti veniva voglia di scrivere, poi, perché simili giochi formali non richiedevano necessariamente la studiata struttura di un impianto romanzesco ma, piuttosto, coraggio ed estro stilistico.

A volte capitava di scrivere cose francamente insensate, ma ciò a cui tenevo in quella fase era il gusto per la lingua, il calembour: come chi magari non sa ancora disegnare benissimo, ma riesce a creare qualcosa di esteticamente valido tramite degli inusuali accoppiamenti cromatici. E la cosa al tempo mi soddisfaceva. A differenza di molti miei coetanei da giovane non ho mai scritto poesie, ma elaboravo dei racconti secchi e molto criptici, quasi del tutto privi di trama, che si basavano tutti su un certo manierismo di fondo: la fatale attrazione per Manganelli nasce in questa fase. Va aggiunto poi che in quel periodo, per qualche strana ragione, chiunque frequentasse i corsi di Walter Pedullà all’Università veniva attraversato da questo irrefrenabile desiderio di provarsi nella scrittura.2

In Cuore di Furia lei fa un distinguo tra narrazione e scrittura. Come per Alfredo Giuliani anche per lei Manganelli «non era un narratore»?3

Sì, Manganelli era un grande scrittore, non un narratore. Io provo sempre a sintetizzare queste due anime nei miei libri. Per quanto ami le sue costruzioni linguistiche, se avessi potuto scegliere quale capolavoro della letteratura italiana scrivere questo sarebbe, senza indugio alcuno, La Storia di Elsa Morante.

È nota del resto la dichiarata insofferenza di Manganelli per le trame. In un’intervista affermò: «non amo i libri con una storia che mi costringe a tener presente chi è il marito, chi l’amante, chi lo zio matto (…)»

Certamente. E anche io la pensavo così in quel periodo. Poi le cose cambiano e oggi ti direi che il racconto perfetto lo scrive Flannery O’ Connor.

O’Connor è una scrittrice dalla lingua elaborata dal punto di vista stilistico, ma la struttura dei suoi libri è maggiormente vincolata ad un impianto narrativo classico…

Esatto! Nel suo caso la lingua è incendiaria, calda e accecante, pur ardendo una matrice che è spesso povera alla base. Il semplice vivere del resto era per lei una circostanza misteriosa: sosteneva che il cuore della narrativa risiedesse tutto nello sguardo di uno scrittore che, nei momenti in cui riesce a mostrare la propria prospettiva, offre un dono unico e impagabile ai propri lettori. Ma di ciò Manganelli era ampiamente consapevole: lui amava spassionatamente i classici del romanzo inglese vittoriano, tutte storie che richiedevano anche un’esibita componente di partecipazione emotiva in chi le leggeva.

Lui amava Dickens, quando lo incontrai mi fece praticamente un esame in proposito: «Tra  Charles Dickens e Jane Austen lei chi preferisce?». Io ero sprofondata in una sedia bassissima mentre lui mi rivolgeva continuamente domande posizionato in alto, su una specie di trono, può quindi  immaginare lo stato emotivo con cui stavo vivendo internamente la situazione. Gli dissi  quello pensavo con assoluta sincerità: ossia che preferivo Jane Austen se proprio avessi dovuto scegliere tra i due. Lui allora mi promosse. Ricordo che mi fece i complimenti e mi disse: «E adesso mi dica allora il suo romanzo preferito di Jane Austen» e io gli risposi, non senza paura e quasi sillabando: «Emma». A quel punto con una viva luce che gli brillava nello sguardo Manganelli mi incalzò: «e perché?» io ormai sfinita  dall’interrogatorio gli dissi con fare arrendevole: «il perché me lo dica lei, per favore». Lui allora scattò in piedi assumendo un’aria sentenziosa ed esclamò con tono soddisfatto: «Perché è un cruciverba perfetto».

Le pagine più belle della letteratura italiana sono però spesso pagine di scrittura come avvertiva Italo Calvino4 , menzionando le digressioni sul “risotto” o sul “cemento armato” di  Carlo Emilio Gadda.

È vero. Però Gadda è stato certamente più narratore di Manganelli: quasi tutto ciò che ha scritto ha un capo, un centro e una coda, seppure parecchio avviluppati tra loro. I meravigliosi ed eversivi libri manganelliani potrebbero invece essere tutti capitoli di un unico grande libro, come scrivo in Cuore di furia.

Per parlare di Jane Austen ha usato poc’anzi la parola cruciverba, un lessema che rimanda quasi automaticamente all’enigmistica e agli enigmi5, una cifra che Manganelli aveva riconosciuto invece nella sua di scrittura, recensendo Il gambero blu e altri racconti6: mi interessava capire il modo in cui questa compente subentra nella sua opera.

Qui il dato dell’enigmistica rientra soprattutto nei giochi di velamento che faccio con i personaggi, come quello della figlia che si chiama Norama Tripe,  che è l’anagramma del mio nome da scrittrice.

In realtà non mi definirei un’appassionata di enigmi: sono però un’amante dei giochi linguistici, della numerologia e ho, lo confesso, un rapporto davvero bizzarro con le date. Ogni volta che scrivo un romanzo inserisco la data così so quando finisce, quante righe ho scritto quel giorno e quante ne scriverò il successivo – e così via. Mi diverte realizzare quando appongo l’ultima parola di un romanzo, perché so esattamente l’ora in cui l’ho iniziato e il giorno, così come l’ora e il giorno in cui l’ho terminato. A quel punto, faccio la somma di tutti i numeri e nella mia (e solo mia) idea il sottotitolo di quel libro specifico è costituito dal risultato del calcolo tra tutte queste cifre. Si tratta evidentemente di un’abitudine gratuita e innecessaria, ma che replico costantemente per la scrittura di ogni libro, come un rito. Tempo fa nel mandare delle bozze all’editore mi sono dimenticata di togliere tutti questi elementi e ricordo che mi hanno chiamata chiedendomi piuttosto nervosamente: «che   cosa dobbiamo farci con tutte queste date?» (ride n.d.r.).

Anche in Manganelli era presente una dimensione rituale e cerimoniale della scrittura letteraria, seppure in un senso più mitico e tradizionale…

Vero, un rito perenne e totalizzante mi verrebbe da dire. Specie negli uomini vige un po’ questa visione asfittica dell’arte: “Papà è nello studio e non va disturbato”: viceversa questo difficilmente accade alle donne che scrivono, ma anche se fanno le commercialiste o le chirurghe perché provvedono sempre a diverse altre mansioni esterne alla loro professione – e comunque sono obbligate a farlo. Paradossalmente, almeno in parte, questo è un bene: perché sono così immuni da quel pernicioso narcisismo che contagia invece gli scrittori maschi di successo, che non fanno praticamente altro che scrivere, negandosi, di fatto, qualsiasi rapporto con la vita e le sue incombenze – pratiche o terrene che siano. Sono una persona che scrive moltissimo, ma che sa anche quanto ha da fare nell’arco di una giornata. Se mi metto a scrivere posso farlo continuativamente (e senza interruzione alcuna) per un’ora e mezza, ma quando finisco so che per quel giorno non esce neanche una sillaba ed è una cosa che capisco perfettamente da me: ad un certo punto avverto in me il bisogno del palpitare della vita concreta.

C’è un momento della giornata che le è più congeniale per la scrittura?

A differenza di quando ero giovane e avevo questa idea, un po’ derivativa, secondo la quale scrivere di notte fosse una cosa ammantata di fascino, una decina d’anni fa ho cambiato radicalmente le mie abitudini. Invertendo la mia routine ho iniziato così a scrivere tre volte tanto rispetto a quello che facevo la sera:  secondo me c’è una ragione molto precisa ed è quella che ci si sveglia con una mente freschissima, ma ancora molto ingombra di sogni, immagini e visioni, che magari non ricordiamo con immediata nitidezza, ma che emergono gradatamente in ciò che scriviamo.

Michel Houellebecq si è espresso in termini molto simili nel parlare del processo creativo del suo ultimo libro…

Purtroppo devo convenire con lui, anche se lo detesto. Si tratta comunque, per ragionare in termini più ampi, di un tema che ha da sempre a che fare con la letteratura: penso a Julio Cortazar, João Guimarães Rosa, Elsa Morante fino ad Anna Maria Cortese: autori e autrici particolarmente vigili sugli affioramenti del loro inconscio. E poi scrivere la mattina fa sì che io abbia meno cose da correggere, mentre la notte per stanchezza o fretta di chiudere il capitolo mi ritrovavo all’indomani con aggiunte a cui io stessa non sapevo dare spiegazioni.

E scrive in casa o in uno studio?

Dal letto. Un tempo scrivevo e leggevo tutto da seduta. Adesso, invece, conduco da sdraiata la mia vita mentale. il mio picco creativo è al mattino, mentre il pomeriggio lo riservo semmai alle correzioni.

Manganelli, a causa della tempra elusiva e a tratti menzognera, gode di tutta una serie di leggende sul suo conto ancora non del tutto verificate, quelli che Andrea Cortellessa, riprendendo Ernst Bernhard, ha definito «mitobiografemi»8 (penso al viaggio-fuga da Milano in lambretta del ‘53, lo scampato pericolo della fucilazione dai fascisti, e la rotta con Giulio Einaudi per via della sua imperdonabile abitudine a piluccare dai piatti altrui ): come ha trovato un’equilibrata sintesi tra le sue reinvenzioni letterarie e i depistaggi biografici cui aveva già provveduto in vita lo scrittore?

Io non voglio scrivere biografie, ma romanzi. Il mio editore all’inizio voleva inserire in copertino il sottotitolo: “biografia fantastica di Giorgio Manganelli” e forse non ci stava poi così male, se proprio avessi dovuto affibbiare un’etichetta di genere al libro. Alla fine abbiamo optato per mettere un’allusione in quarta di copertina: omettendo il sottotitolo volevamo rendere la vicenda raccontata nel libro in qualche modo autonoma rispetto al personaggio.

Per scrivere di Manganelli sono partita da quei tre o quattro fatti “mitici”, come diceva, però poi il lavoro di ricerca più impegnativo è consistito nel provare a immedesimarmi in lui. Credo fermamente che la più grande lezione sulla letteratura ce l’abbia fornita Gustave Flaubert quando scrisse, in tempi ormai remoti, che i personaggi non devono assomigliare a noi ma che siamo piuttosto noi a dover somigliare a loro. E così: se nel mio romanzo precedente avevo tentato di essere schizofrenicamente Jack London, qui ho provato a interpretare, al massimo del mio potenziale stilistico, Giorgio Manganelli. Ci tengo ad aggiungere che applico il medesimo sforzo anche quando i personaggi sono il frutto della mia invenzione. La scelta che ho fatto ultimamente di ispirarmi alle vicende  di scrittori noti ha del resto ingenerato non pochi equivoci nei lettori al punto che alcuni di loro hanno chiesto se il mio fosse un romanzo o una biografia, dandomi un po’ da sorridere: chi l’ha detto che un mio libro ambientato in Portogallo con un protagonista dal nome fittizio non sia in fondo ispirato a persone realmente esistenti e a me molto vicine?

Potrebbe essere un equivoco a cui si è portati dalla lettura dell’ormai invalsa non-fiction…

Esatto. Stando così le cose sembra che se il protagonista è sconosciuto si tratta di un romanzo mentre se è noto di una biografia: a questo mi pare si riduca il discrimine tra i due generi di scrittura. Ultimamente mi sono molto divertita a scrivere una “finta” autofiction proprio per ironizzare su questa bizzarra modalità di ricezione, provando a mischiare ulteriormente le carte, rispetto al mio solito, tra reali fatti autobiografici e completa scrittura d’  inventiva.

Ovviamente, in simili casi la riuscita dipende anche dalla qualità manipolatorie di chi scrive: è chiaro, per tornare ad Elsa Morante, che ne La Storia ci sono anche cose che la scrittrice ha provato ed esperito in prima persona, ma il tutto è trasfigurato in maniera magistrale da una penna sopraffina. Leggendo alcuni romanzi che escono oggi, mi sembra che l’escursione autoriale sia decisamente minore e il tutto drasticamente più ombelicale: tra l’altro, per sovrammercato, c’è anche l’assurda pretesa di ognuno che la propria vita sia qualcosa di interessante da raccontare – e quindi da pubblicare. Penso sia l’equivoco di chi finisce per scrivere, in fondo, abbastanza limitatamente: anche perché quando hai fatto lavorato a cinque/sei romanzi completamente su te stesso, perlomeno a mio avviso, significa che hai esaurito le riserve di materia a cui attingere.

Per questo motivo, ho sempre preferito la letteratura d’invenzione: Manganelli inventava tantissimo a partire dalle sue angosce, per tornare al suo esempio. Era uno scrittore che riusciva a mettere il proprio lettore con le spalle contro il vuoto più che contro il muro – e tutto questo a partire dal suo malessere individuale. Riusciva a sublimare nelle sue vorticose macchine linguistiche la vertigine che gli proveniva dal guardare fuori dalla finestra, così come nei suoi viaggi infernali sono trasfigurate tutte le sue ansie. E, d’altronde, la sua scomparsa è stata in linea con alcune delle sue fantasie eversive, braccato dalla furia e ghermito dalle sue ipocondrie.

Tra l’altro, scrivendo di Jack London, Manganelli ne parla come di uno scrittore con per il quale avverte quelle che definirei delle inopinate proiezioni autobiografiche: lei come ha affrontato questa ricerca di immedesimazione in due scrittori così diversi?

Il libro l’ho scritto tutto immaginando di essere Manganelli, ma senza subire il transfert che ho avvertito invece con Jack London9, personaggio che mi si confà molto di più: se avessi potuto scegliere mi sarebbe piaciuto essere London (ride n.d.r.). Uno scrittore decisamente più dinamico e avventuroso di Manganelli, non solo quanto a esperienze  vissute, ma proprio in quanto alla tempra emotiva.

Flannery O’ Connor stessa, che cito sempre e amo moltissimo, è stata malata praticamente tutta la vita, ma cavalcava mentalmente un’onda leggendaria e squassante quando scriveva: le sue storie erano così terribili e lisergiche che in quella minuscola città di Milledgeville i suoi lettori, spesso atterriti, si chiedevano dove mai avesse incontrato i balordi che popolavano le sue pagine. Di London, invece, mi ha sempre affascinata questa sua determinazione nel decidere – praticamente da semianalfabeta – di diventare scrittore di romanzi: la motivazione consisteva nel furore per la scrittura che sentiva avvampare e crescere dentro di sé.

Come stavo dicendo, mi sono immedesimata in Giorgio Manganelli senza troppi compromessi, ma quando ho smesso sono ritornata in me con più facilità  che con Jack London, o delle volte in cui ho attraversato, tramite la scrittura, persone a me vicine. Temperare la voce di Manganelli è stato faticoso, ma anche molto divertente e del resto lui era proprio così: un uomo faticoso, ma molto divertente. Possedeva un senso dell’umorismo straordinario e io ho cercato di enfatizzare questo suo tratto  dal punto di vista stilistico. Era davvero unico nel farti avvertire la sua anomalia sotterranea, nel lasciarti percepire questa sua disperazione e, insieme, come un sottile rifiuto per la tentazione di esistere – per riprendere un titolo di Emil Cioran10. Una sorta di ostinazione ironica a voler vivere nonostante la vita non sia poi granché o, meglio, diventi desiderabile solamente momento in cui dobbiamo deciderci ad abbandonarla.

Un altro topos che hanno trattato diversi scrittori straordinari: mi viene subito alla mente Lo Straniero di Albert Camus, ma in fondo anche A Sangue Freddo di Truman Capote, con i protagonisti che commettono crudeltà efferatissime, ma vengono sorpresi dall’angoscia solo quando tutto è precipitato e irrimediabilmente perduto: al momento della condanna a morte.

A proposito di letteratura che muove dalla realtà, dalla cronaca… 

Mi ha sempre colpito un personaggio secondario di quel libro, che viene inserito nel braccio della morte insieme ai protagonisti (Richard e Perry) e che ostenta con loro il fatto di aver assassinato molti innocenti: quando glie ne chiedono la ragione risponde che a togliere la vita  agli esseri umani gli si fa un favore: questa visione devastante e definitiva, ecco, questo penetrare inconsapevolmente nei meandri angosciosi e privi di redenzione di certi personaggi era un’esplorazione che avevo voglia di fare scrivendo Cuore di furia. Manganelli ha vagolato per queste lande in molte delle sue opere, specie quelle più riuscite (penso a Dall’inferno) ed è per questo che mi ha molto divertito lavorare al capitolo in cui Dolores ricostruisce assieme al personaggio dell’editore la trama della Palude definitiva.

Mi chiedevo a cosa fosse dovuta la scelta di ambientare il suo romanzo in Spagna, un territorio che restituisce di fatto alla vicenda un fondale più solare e mediterraneo rispetto alle penombre crepuscolari che si è soliti immaginare per la vita e, soprattutto i paesaggi altri dei libri manganelliani. Tra l’altro uno dei pochi luoghi in Europa non lambiti dalla sua scrittura odeporica di «viaggiatore sedentario».

Ho scelto di ambientarlo in Spagna perché ho sempre visto in Manganelli un picaro: per ragioni biografiche sono inoltre molto legata alla letteratura ispanica e dunque per un’intima coerenza mi sembrava giusto che la storia si svolgesse nella terra d’origine della lingua picaresca. E poi perché il suo “antagonista” Carlo Emilio Gadda, che secondo la leggenda lo accusò all’uscita de l’Hilarotragedia di aver plagiato La cognizione del dolore, aveva ambientato il suo romanzo in un’altra terra ispanofona: l’Argentina. Per questa ragione nel mio libro l’ho inserito trasfigurandone il nome in Carlos Emilio Croconsuelo: mi divertiva giocare col nome del formaggio che il protagonista de La cognizione (Gonzalo Pitiburro n.d.r.) mangiava in Argentina, appunto il croconsuelo, che poi altro non era che il gorgonzola brianzolo. Collocarlo in una terra di lingua ispanica era quindi un doveroso omaggio a Gadda, che aveva un suo peso specifico nella vicenda: del resto per Manganelli sarebbe stato molto più centrato scegliere di ambientare la storia in un paese dell’Inghilterra visto che era un anglista finissimo, oltre che un prosatore nebbioso.

E quella di sostituire con un trattore la leggendaria lambretta con la quale, secondo il mito, fuggì da Milano a Roma è invece una citazione all’epopea on the road di A straight story di David Lynch?

Che film straordinario! La scelta di sostituire il motociclo con il trattore è dovuta in prima istanza a ragioni narrative, visto che avevo deciso il protagonista sarebbe finito a lavorare in maniera claustrale e un po’ animalesca in un granaio e il trattore è il mezzo agricolo per eccellenza. Mi piaceva molto l’idea che partisse con veicolo rubato un po’ picarescamente, appunto, e che il viaggio fosse su mezzo lento per restituire la percezione di un tragitto epocale ed estenuante: la velocità oraria di un trattore non è poi così superiore di quella a piedi.

Questo richiamo al picaresco mi pare si avverta anche nel passo che ha impresso al romanzo, un aspetto, quello del “rumore sottile della prosa”, a cui era sensibile anche Manganelli.

Si tratta per me di un aspetto decisivo. Provo sempre a far consuonare la forma e il contenuto di ciò che scrivo. Mi ritengo una scrittrice musicale, vengo da una famiglia di musicisti, d’altronde – mio padre (Mario Petri n.d.r.) era un celebre cantante lirico – quindi a casa mia la nota tenuta, la stecca quando si intonava, la giusta armonia, lo spezzare una nota per accedere a un’altra e, in generale, concetti quali l’armonia e il rumore della voce, per giocare con un altro titolo manganelliano, erano materie di discussione quotidiana a casa.

Quando scrivo sono solita canticchiare quello che digito e se la pagina non mi torna a livello ritmico provvedo ad aggiungere qualcosa, che sia anche una congiunzione, una mera virgola, un “però”: capita sovente che sia il mio orecchio a dettare ciò che devo mettere od omettere. Si torna al cruciverba: anche nella prosa ci sono parole che devi semplicemente inserire nel tassello giusto e la frase improvvisamente torna: sta tutto nell’ascolto. Riguardo a questo posso aggiungere che solo a posteriori ho scoperto di aver sviluppato una scrittura molto assonanzata: i miei trascorsi da avida lettrice di Chanson de geste si sono rivelati utili.

Manganelli ha una delle prose più immediatamente riconoscibili della letteratura italiana, da cui lei per scrivere questo libro assume alcuni stilemi (per dirne solo alcuni: la propensione al neologismo, agli alterati, gli aggettivi terminanti in -oso/osa): ha temuto il rischio di replicare, come per i famosi «nipotini dell’Ingegnere»11 , un modello stilistico così marcatamente connotato?

Credo che questa possibilità sia in parte scongiurata dal mio metodo di scrittura. Le faccio un esempio: per il libro su Jack London ho scritto diverse lettere sforzandomi di immedesimarmi in lui, quando avrei potuto molto più agilmente basarmi su, o addirittura riprendere, quelle realmente spedite. Per me il divertimento consiste nel penetrare nella mente altrui, ma utilizzando la mia testa, la mia scrittura. Per questa ragione credo di non aver fatto il verso a Manganelli, gli ho cantato una canzone, piuttosto: ho messo cioè la mia voce al servizio della sua storia, come avveniva un tempo nei pannelli siciliani o con i ventriloqui. Per farlo, ho usato una lingua che certamente poteva somigliargli, perché comunque era un idioma che in parte sussumevo dall’analisi dei suoi testi, ma che poi reinventavo, di pagina in pagina, secondando il mio gusto personale e quello che mi suggeriva la situazione narrativa. Non avrei mai potuto rifare in toto la sua maniera: mi sarei sentita una copista o, che è peggio, una famigerata “nipotina di”. Ho provato a lasciare un’impressione di “plausibilismo” ai lettori rimanendo altresì integra nella mia autorialità: non è importante se il personaggio faccia o dica effettivamente qualcosa, ma piuttosto se potenzialmente avrebbe potuto farlo o no.

Nel libro lei fa dire al personaggio dell’editore che Hilarotragoedia è uno dei libri «più oscenamente autobiografici» mai scritti ed il nesso tra vita e scrittura è a più riprese ribadito nel corso del libro: penso al personaggio di Dolores che legge le pagine di Amore come se trattassero della sua relazione sentimentale con lo scrittore. Anche per lei, come per Alfredo Giuliani, «Manganelli era, in modi stravaganti, uno scrittore autobiografico»?12

Certo, non accetto l’idea di macchine retoriche completamente fini a sé stesse e Manganelli in prima persona, malgrado quello che scriveva poi nei suoi saggi e in altre sedi critiche 13, perlomeno nei lunghi conversari che ho avuto il privilegio di avere con lui, riteneva che dietro ogni libro si celasse concretamente un autore. D’altronde nelle sue opere tornano reiteratamente le sue fobie, le sue ipocondrie, il suo rapporto con l’editoria italiana. Nel mio romanzo ho volutamente omaggiato l’Encomio del tiranno, un testo in cui Manganelli fa ironia sul rapporto basato sull’inganno che aveva con i suoi editori: e così da un lato c’è uno scrittore che cerca sempre di blandire chi ha davanti e di spillargli sempre più soldi mediante il bluff, dall’altro l’editore-tiranno che prova sempre a suggere un po’ dell’inconscio creativo dai suoi assistiti. Io trovo che nei testi di Manganelli si ritrovi moltissimo la sua persona, il suo senso di inadeguatezza, la sua psiche: si avverte anche che nella vita era un uomo linguisticamente voluttuoso ma sentimentalmente criptico.

Nella recensione del suo libro d’esordio, Manganelli affermò che a passargli il libro fu Augusto Frassineti, uno scrittore che secondo Manganelli già in vita subì un’ingiusta eclisse. Mi racconta di questo passaggio di libri tra i due?

Augusto Frassineti era effettivamente un uomo dalla penna straordinaria, ma non fu lui a passarglielo; in quel caso Manganelli mentì perché dovendo scrivere una recensione sul mio libro d’esordio non voleva prendersi il merito di aver proposto lui il libro alla casa editrice: è stato quindi così elegante e signorile da non voler ammettere che fosse stato lui a scoprirmi: tutta l’intermediazione fittizia che ideò in quel trafiletto in cui scriveva di me serviva a questo.

Mi dice allora come avvenne la scoperta? So che tutto partì da una telefonata…

Esattamente. Un giorno mia madre mi disse che aveva ascoltato una trasmissione radiofonica che si intitolava “I giorni” condotta da Alfredo Cattabiani e che a un certo punto aveva telefonato un ragazzo chiedendo cosa potesse fare, concretamente, un giovane aspirante scrittore per essere pubblicato. Cattabiani saggiamente gli aveva risposto: «si faccia leggere da uno scrittore che ama molto». Mia madre allora mi telefonò e mi disse, quasi con disinteresse: “ma visto che in questo periodo non leggi altro che Giorgio Manganelli, perché non provi a mandargli qualcosa di tuo?” io all’inizio ero un po’ interdetta però ho preso l’elenco telefonico e tra vari nominativi figurava anche il suo recapito 14 . Così, dopo un po’ di comprensibile esitazione, l’ho chiamato.

All’inizio mi trattò malissimo. Ogni volta che riprovavo a telefonare non c’era mai un momento proficuo per parlargli: nel rispondere tuonava infastidito a qualsiasi ora come a dire: «E lei adesso mi chiama?» oppure rispondeva: «Chi è?» ma come per dire “chi osa?” insomma, non riuscivo mai a comprendere quale fosse il giusto momento instaurare un dialogo. Io non mi persi d’animo e con caparbietà alla fine riuscii a farmi ascoltare, dopo averlo tediato a lungo. Forse gli feci tenerezza, o forse lo presi sulla stanchezza, chissà, fatto sta che un giorno, verosimilmente estenuato dalle mie chiamate, con la sua consueta erre arrotatissima, mi disse seccamente: «vabbè, mi lasci ‘sta rrroba in porrrtinerria» (ride n.d.r.). Io allora impacchettai i miei racconti di corsa e lasciai il plico al portiere: ai tempi ero giovane ma anche discretamente realista, dunque ero certamente eccitata all’idea che gli fosse stato recapitato il mio materiale, ma non riponevo la ben che minima fiducia sul fatto che avrebbe realmente letto i racconti. Invece li lesse e fece prestissimo. Dopo appena tre settimane mi telefonò: ricordo il nodo in gola quando riconobbi la sua voce alla cornetta. Lui, intanto, dall’altro capo mi disse che avrebbe voluto conoscermi di persona, perché il libro gli era piaciuto al punto che lo avrebbe proposto a Rizzoli.

Un colloquio che è si è effettivamente svolto, come mi raccontava prima…

Fu nel suo studio a Roma, un appuntamento che trascorsi nel terrore, affossata su una poltrona mentre lui mi rivolgeva un interrogatorio a tema letteratura inglese da una seduta ben più elevata: chissà perché poi? Avrei potuto tranquillamente non sapere niente in materia. Fu dunque Manganelli a proporlo alla casa editrice solo che le cose andarono per le lunghe e la trafila della pubblicazione fu assai tortuosa. Nel frattempo, ebbi il tempo di invitarlo a cena assieme al suo amico Augusto Frassineti, in effetti – e fu una serata incredibile, di cui conservo tutt’ora una memoria vivida. Dovetti andare a prenderli prima in macchina tutti e due: ricordo che Frassineti arrivò insieme alla moglie; mentre Manganelli accettò di prendere parte all’appuntamento solo dopo essersi fatto solennemente promettere da me che alle otto in punto avrebbe mangiato. Passai a prendere prima Frassineti e poi Manganelli con largo anticipo: ricordo ancora il traffico, l’ansia di predisporre tutto ma, nonostante l’ansiosa premura, varcammo la soglia di casa mia che erano le otto meno cinque. È alle otto spaccate che vedo Giorgio Manganelli iniziare a correre intorno al tavolo brandendo una forchetta e inseguendo il sodale mentre gli urla cantilenando: “Ti mangio, ti mangio”. In forno avevo già messo da tempo una spigola e precotto anticipatamente il riso, conoscendo la famigerata e angosciosa impazienza con la quale Manganelli si viveva l’attesa dei pasti. Alle o e sette minuti ingoiò il primo boccone ma non ero affatto sicura di essere stata perdonata, per quanto l’atmosfera si fosse fatta, nel frattempo, notevolmente più distesa. L’ho capito solo il giorno dopo, quando mi è stato recapitato un mazzo di rose magnifico insieme a un biglietto dalla grafia inconfondibile in cui mi si ringraziava della serata.

Non si parlò della possibile pubblicazione dei racconti dunque quella sera?

Non avevo più avuto il coraggio di chiedergli come fosse andata la sua proposta a Rizzoli, perché temevo non fosse stata neanche presa in considerazione: ero una giovane sconosciuta, in fondo. Invece, non molto tempo dopo, ricevo una telefonata da una voce anonima e impersonale. Sembrava il timbro di  un telefonista, e siccome ero distratta dal fare altro, carpii un’unica parola: “Rizzoli”. Non realizzai immediatamente e ricordo ancora che provai a risalire mentalmente al momento in cui avevo firmato per la spedizione di un’enciclopedia, o qualcosa di simile, per iniziare strategicamente ad accampare scuse per disbrigarmi dalla persona che mi stava parlando.

Dall’altro capo c’era invece Luigi Bernabò, poi divenuto grandissimo agente letterario e al tempo responsabile della narrativa Rizzoli, che mi propose di vederci a Roma negli uffici della casa editrice, che si trovavano vicino a via Veneto. Da quell’incontro in poi l’attesa è stata lunghissima perché nel 1987 ho firmato il contratto – e il libro è uscito nel 1990.

Un modo sicuramente diverso di gestire gli esordienti rispetto all’attuale.

Esatto! Bernabò mi fece però immediatamente firmare un contratto con un compenso di tre milioni di lire, che per me era davvero una cifra notevole all’epoca, ma mi avvertì da subito del fatto che non aveva una data di pubblicazione certa perché gli esordienti erano materia che necessitava di cure e occorreva attendere con cautela e pazienza il momento propizio per farmi uscire. Per fortuna il momento arrivò il 3 febbraio del 1990. Quello stesso anno telefonai altre due volte a Manganelli: la prima fu per avvertirlo del fatto che fossi arrivata in finale al premio Rapallo e lui mostrò una sincera soddisfazione congratulandosi con me e facendomi degli auguri molto vivaci e partecipati. Dopo neanche una settimana lo chiamai per dirgli che avevo vinto il Campiello esordienti e lui di risposta esclamò solamente: «Che folgore!», con il solito rotacismo. Purtroppo scomparve il 28 maggio di quell’anno.

A quel punto alla cura delle carte manganelliane subentrò Ebe Flamini, la Dolores del suo romanzo.

L’ho conosciuta in quel frangente. A ridosso della morte di Manganelli l’ho iniziata a incontrare quasi tutti i giorni, proprio mentre lavorava alla sistematizzazione dei suoi dattiloscritti inediti. Spesso abbiamo affrontato insieme i faldoni di quella che poi è divenuta la sua edizione de La palude definitiva, per questo conosco così a fondo quel libro. È a lei che ho dedicato Cuore di furia.

C’è stata quindi anche una conoscenza sul piano filologico con la scrittura di Manganelli.

Esattamente. Era impossibile che non mi restasse impressa una scrittura simile anche perché aveva un metodo particolare: batteva a macchina ma poi accanto ad alcune parole metteva a penna due o tre frecce con possibili sinonimi, piste alternative o ipotesi di aggettivi sostituibili per minime sfumature di significato. In simili punti dovevamo sforzarci al massimo per comprendere la sua prassi scrittoria, immedesimandoci nei suoi ragionamenti  con il preciso scopo di essere il più fedeli possibili alla sua ultima volontà: abbiamo speso moltissimo tempo a ragionare a capo chino su queste varianti minute sui suoi dattiloscritti. Ebe è stata una persona meravigliosa e infaticabile in quella fase; io la chiamavo “Ibárruri”, la Pasionaria15: era una donna acutissima e d’altri tempi. Mi consegnò un regalo alla fine di tutto questo: un quadro che Gianfranco Baruchello16 aveva dipinto ispirandosi all’Hilarotragoedia e che, mi confessò, Manganelli avrebbe voluto che dopo la sua morte fosse mio.

Tra le pagine più riuscite secondo me ci sono quelle in cui descrive i pasti luculliani che Manganelli (il suo Jorge) sottoponeva ai commensali, tra cui Dolores, appunto.

Molte delle storie e delle dicerie più interessanti che hanno Manganelli come protagonista ruotano attorno al cibo: l’aneddoto, che non potevo non inserire nel libro, della cotoletta carbonizzata lanciata sul soffitto perché troppo cotta  è una storia vera – fu proprio Ebe a raccontarmela. Ma pure la sua curiosa fisima di andare a mangiare sempre nello stesso ristorante, quello che a Roma era “Il Matriciano”17  e che nel mio romanzo diventa il “Chicote”.

Manganelli in Salumeria

 

Visto che questa rassegna si anche l’obiettivo di fornire una bussola orientativa nell’ingens sylva dell’opera manganelliana mi interessa chiudere con quello che, tra i tanti suoi, è il libro che predilige.

Non riesco a esprimere una sola preferenza. Mi limito, non senza sacrificio, a dirne tre: sicuramente Rumori o voci, poi Amore e La Palude Definitiva.

Quindi il Manganelli degli ultimi monodialoghi più che quello degli pseudo- trattati con cui l’ha conosciuto.

Sì, tra l’altro credo che anche qui la lingua riservi soluzioni sorprendenti nelle immagini, oltre che nei sillogismi, penso a quel bellissimo pezzo di Amore che fa: «Io, dunque, ti nomino: un dito fonico ti indica nel centro della notte».

E se dovesse allora isolare una delle pagine più belle?

Forse i momenti in cui la bambolina spolpa il corpo del protagonista in Dall’inferno: da leggere sono state un momento di vera goduria. E poi lo trovo un brano efficacissimo nel dire una cosa molto semplice: a ucciderci non è la morte, è la vita. Nel suo caso erano la vita e l’angoscia insieme che dall’interno se lo stavano divorando budellino per budellino o, almeno, io l’ho sempre vista così.

 

 

1 Cfr. R. Barilli e A. Guglielmi (a cura di), Gruppo 63, Critica e teoria, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 343-349.

2 Di seguito si riporta un breve estratto di una recensione in cui Walter Pedullà scrive all’uscita di Centuria di Giorgio Manganelli: «Sembra un sogno che da noi nasca un libro come Centuria, così diverso dal corrente, scorrevole e corsivo realismo in cui sta affogando ancora un’altra stagione letteraria».  Il brano si legge In W. Pedullà, Miti, finzioni e buone maniere di fine millennio, Milano, Rusconi, 1983, pp. 324-327.

3 A. Giuliani, Giorgio Manganelli teologo burlone, in Le Foglie messaggere, scritti in onore di Giorgio Manganelli, a c. di V. Papetti, Roma, Editori Riuniti 2000, p. 15.

4  Vd. I. Calvino, Notizia su Giorgio Manganelli, in «Il Menabò», n. 8, 1965.

5 Si veda quanto scrive Manganelli in proposito: «Enigmista è parola imparentata con l’enigma; e nell’enigma s’illustra la volontà del suono della parola di impedirci di giungere al supposto significato della parola stessa; insomma, la parola sta lì, ma emette una tal nebbia sonora, se così posso dire, che non ci riesce di adoperarla, e dunque la parola diventa inutile, e pertanto utilissima agli usi letterari», in G. Manganelli, Il rumore sottile della prosa,  Milano, Adelphi,  1994, p. 219. Per approfondimenti si rimando invece a G. Pulce, Manganelli e i classici: incontro con l’enigma, in Le foglie messaggere, cit., pp. 58-69.

6 La recensione, dedicata anche a Io venia pien d’angoscia a rimirarti di Michele Mari,  apparve su “Il Messaggero” del 26 marzo 1990 con il titolo “Fra poesia e licantropia”.

7 Vd. L’intervista a cura di Jean Birnbaum a Michel Houellebecq pubblicato sul sito de “La Stampa”: https://www.lastampa.it/cultura/2021/12/31/news/houellebecq_scrivo_con_la_testa_ancora_nella_notte_-2407370/

8 A. Cortellessa, Il libro è altrove, Ventisei piccole monografie su Giorgio Manganelli, Luca Sossella editore, Bologna, 2020, passim.

9 Si fa riferimento a R. Petri, Figlio del lupo, Mondadori, Milano, 2020.

12 E. Cioran, La tentazione di esistere, Milano, Adelphi, 1984.

11 L’espressione, ormai divenuta celebre, è stata coniata da A. Arbasino, I nipotini dell’ingegnere e il gatto di casa De Feo, in «il Verri»,I, 1960.

12 A. Giuliani, Giorgio Manganelli teologo burlone, in Le foglie messaggere, scritti in onore di Giorgio Manganelli,  a c. di V. Papetti, Editori riuniti, Roma, 2000, p. 17.

13 Si veda esempio, tra i moltissimi disponibili nell’opera manganelliana: «Ma la faccenda è un’altra e ha a che fare con la consapevolezza che chi scrive non è l’ autore – questa è una cosa che credono gli editori, gli amici […]; chi scrive sa benissimo che la scrittura è un accadimento, come si dice ‘nevica’ o ‘piove’…»,in G. Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma, Milano, Rizzoli, 1982, p.73.

14 Tra i corsivi di Manganelli rientra anche un divertito omaggio agli elenchi telefonici da cui si tolgono le prime righe: «Chi crede che, dopo il Libro dei Mormoni, l’occidente non abbia più creato un Grande Libro è pregato di sfogliare l’elenco del telefono, qualsiasi elenco – meglio se di una grande città. Disposti su parallele colonne, minutamente stampati, stanno cognomi e nomi, vie e piazze e numeri: numeri che designano case, e infine il numero telefonico, misteriosa combinazione talmudica, numero che la voce porta incisa sull’aria del suo esile vestito fonico, e grazie al quale ella forse incontrerà altre voci numeriche, e il colloquio delle voci numeriche si fa irrequieto, sterminato coro», in G. Manganelli, Improvvisi per macchina da scrivere, Milano, Adelphi, 2003, p. 103

15 Il riferimento è a Isidora Dolores Ibárruri Gómez, politica repubblicana spagnola attiva durante la guerra civile spagnola del 1936-1939, nota, appunto, con il soprannome de “la Pasionaria”.

16 Uno scritto di Manganelli dedicato all’artista si legge in G. Manganelli, Gianfranco Baruchello, in «Riga», n. 25, a c. di M Belpoliti e A. Cortellessa, Roma, Marcos y Marcos, 2006  pp. 535-536.

17 Altre fonti riferiscono invece de “Il Romagnolo”. Cfr. A. Cortellessa, Il libro è altrove, op.cit., p. 121. La passione di Manganelli per i ristoranti è spesso ribadita nei suoi corsivi. Tra i moltissimi  esempi, si veda questo brano in cui ne tesse l’elogio: «oso dire di disporre di una tastiera limitata quanto accurata di luoghi dove alimentare a seconda degli umori il mio soggiorno terreno; ed in effetti non so pensarmi in un luogo privo di ristoranti, deserto di quei deliziosi camerieri che sulla terra fanno le veci di angeli custodi; amo sedermi a tavola, consultare la fittizia gloria della lista dei vini e dei cibi, discutere con un sollecito competente di cibi e bevande»; o questo in cui sottolinea ironicamente l’assoluta necessità di frequentarli  per il suo benessere psicofisico: «L’agosto è un poco di buono, e non lo nasconde. Per me, questo è il mese in cui, con una cadenza angosciosa, chiudono le librerie e i ristoranti. Ora, se mi chiudete le librerie e i ristoranti io cesso di essere umano, divento una povera cosa affranta, qualcosa da conservare nella formalina in una boccia di vetro, per istruire i giovani aspiranti medici», in G. Manganelli, Improvvisi per macchina da scrivere, cit., p . 156 e p. 258.

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