“Melanconia di classe. Manifesto per la working class” di Cynthia Cruz

Pubblichiamo, ringraziando l’autrice e l’editore, un estratto dal saggio di Cynthia Cruz Melanconia di classe. Manifesto per la working class (Atlantide Edizioni, traduzione di Paola De Angelis).

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Nei suoi ultimi testi, Clarice Lispector mise a punto un procedimento e una forma di scrittura completamente nuovi, incentrati sulla povertà e l’abiezione. Si tratta di opere in cui l’autrice critica i lavori precedenti che, a posteriori, considerava meno importanti, più ornamentali ed estetizzanti. Con quella svolta radicale, Lispector rinnegò il vecchio io e le opere scritte fino a quel momento, e fece spazio al suo vero io, legato a un’infanzia vissuta nella povertà e nel degrado.

In un’intervista con Júlio Lerner per «TV Cultura», Lispector descrisse il romanzo breve L’ora della stella, la sua ultima opera, come «la storia di una ragazza così povera che mangiava solo würstel».«Però non è quella la storia», aggiunse. «È il racconto di un’innocenza schiacciata, di una miseria anonima». È questo l’asse su cui ruota tutta l’opera di Lispector, ebrea ucraina costretta a fuggire dalla sua terra insieme alla famiglia e a emigrare in Brasile, stabilendosi a Recife, nel nord-est del Paese. La madre morì quando Clarice aveva nove anni e il padre stentava a mantenere la famiglia. In quella stessa intervista televisiva, le fu chiesto quale fosse la professione di suo padre, una domanda consueta che serve a stabilire la classe sociale dell’interlocutore. Dal volto di Lispector traspare la tristezza: distoglie lo sguardo, la bocca è semiaperta. Quella domanda le infligge una ferita: può rispondere e permettere così di venire fissata nella sua classe sociale, può mentire oppure può replicare in modo indiretto. Lispector dice la verità: «Rappresentante commerciale, cose così». In realtà, aveva vissuto un’esistenza precaria e nella prefazione a L’ora della stella l’autrice scrive: «Mi dedico alla nostalgia della mia antica povertà, quando tutto era più sobrio e più degno, e io non avevo ancora mangiato l’aragosta».

«La mia vita più autentica è irriconoscibile, estremamente interiore e non c’è una sola parola che la possa esprimere», scrive nel testo. Risultare incomprensibile agli altri è un sentimento molto significativo nell’esperienza di Lispector. Anche se era figlia di immigrati ed era cresciuta povera, quando divenne una scrittrice affermata, la borghesia brasiliana iniziò a considerarla come una persona della classe media. Lispector, però, era anche misteriosa, enigmatica. La sua apparente stranezza si spiega con il fatto che la borghesia non vede la working class e quindi non riesce a comprendere l’autrice, perché non è in grado di vedere oltre i confini della propria classe sociale. Come Barbara Loden, che le donne borghesi trovano incomprensibile, anche Lispector, scissa dalla sua classe sociale, con la sua melanconia, il suo sentirsi alienata dalla società borghese e la sua estraneità al mondo letterario, appare incomprensibile.

Quando sposò il suo compagno di corso alla facoltà di giurisprudenza, Maury Gargel Valente, che dopo la laurea intraprese la carriera diplomatica, Lispector passò dalla working class alla borghesia. Tuttavia non abbandonò mai le sue origini e continuò a scrivere dei poveri e degli emarginati fino a L’ora della stella, il libro a cui lavorò mentre ormai stava morendo. Per tutta la vita mantenne intatto dentro di sé il ricordo della sua infanzia. Ne “Il manifesto della città” scrive: «Questo il fiume. Ecco il Penitenziario. Ecco l’orologio. E Recife. […] Ci vedo sempre più chiaro: questa è la casa, la mia, il ponte, il fiume, il Penitenziario, gli edifici negli isolati squadrati, le scale deserte di me, la pietra». Come Macabéa, la protagonista femminile de L’ora della stella, che «aveva escogitato un trucco per ritrovare nelle cose semplici e oneste il fascino del peccato», Lispector rimase sempre profondamente consapevole del mondo, di cui vedeva ogni cosa. In “Literatura e justiçia” scrive: «Da quando ho iniziato a conoscere me stessa, il problema sociale è diventato più importante di qualsiasi altra questione: a Recife le baraccopoli nere furono la prima verità che incontrai».La contraddizione di vivere come una persona borghese, continuando però a identificarsi con un’infanzia precaria, produsse in lei un’alienazione, una melanconia. Quando si trasferì a Rio e abbandonò il luogo dove era cresciuta, quella perdita le inflisse una ferita, un vuoto che non sarebbe mai riuscita a colmare. Da adulta, Lispector soffriva di melanconia, un disagio che andò peggiorando con il passare degli anni. In Svizzera, dove il marito era stato inviato in missione, consultò uno psicoanalista che le prescrisse delle pillole per alleviare la depressione. Ma poiché la depressione era un sintomo, una manifestazione esteriore, della melanconia, i farmaci non potevano curarla. Circondata da persone che non la vedevano, e dalle quali si sentiva diversa, Lispector finì per rifugiarsi sempre più nel suo mondo interiore.

Ne L’ora della stella scrive: «Non appartengo a nessun ceto sociale, emarginato come mi ritrovo. L’alta borghesia mi giudica un maestro bislacco, la media teme che io possa alterarne l’equilibrio, il popolo manco mi conosce». Le parole “mostro” e “mostruosa” ricorrono spesso nelle opere di Lispector, che si sentiva un mostro o, per meglio dire, sentiva che gli altri la vedevano come tale. Ne L’ora della stella chiede: «Chi è che non si è mai domandato: sono un mostro, oppure questo significa essere una persona?». Secondo l’Oxford English Dictionary, un mostro è «una creatura mitica per metà animale e per metà umana, oppure unisce elementi di due o più animali; spesso è di grandi dimensioni e ha un aspetto feroce. Nell’accezione più estesa: qualsiasi creatura immaginaria grossa, brutta e spaventosa».Un mostro, pertanto, potrebbe essere una donna ebrea, della working class, del Brasile nord-orientale, che passa per una borghese brasiliana: in parte intellettuale e in parte contadina, in parte operaia e in parte moglie di diplomatico.

In quanto nordestina “anonima”, Lispector appariva “mostruosa” agli occhi della borghesia. In seguito, quando ormai era considerata una persona della classe media, era diventata un “mostro sacro”: «Una delle cose che mi rende infelice è questa storia del mostro sacro: gli altri hanno paura di me senza motivo, così anch’io finisco per avere paura di me stessa». Qui Lispector spiega con chiarezza come impariamo a disprezzare noi stessi perché ci viene continuamente inculcato un senso di vergogna connesso alla nostra classe sociale.

 

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