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Che i saggi di Zadie Smith non siano aderenti a una forma standardizzata di genere e usino continuamente l’elemento privato e intimo per collocarlo all’interno di un quadro sociale da analizzare criticamente non stupisce il lettore ormai avvezzo a quella pratica di graduale disvelamento con cui l’autrice si muove tra le pagine. È nel piccolo accadimento apparentemente insignificante lo strumento con cui avviare un’indagine: il punto di partenza si palesa come metafora, o contribuisce ad allestire un’allegoria del presente.

La scelta di affrontare il racconto dei primi mesi della crisi legata alla pandemia usando i Pensieri di Marco Aurelio come “assistenza pratica” – al pari di un manuale di istruzioni – annuncia però la volontà di compiere un superamento rispetto alle visioni narrative sinora offerte. Attraverso contributi ibridi che condensano la critica sociale e l’autobiografia, l’analisi politica e l’ispezione delle proprie inquietudini, Zadie Smith sperimenta continui tentativi di decodifica di un presente oscuro.

Questa strana e incontenibile stagione (traduzione di Martina Testa, Sur, 2020) assomma riflessioni sulle paure personali e collettive che si rivelano fondamentali per compiere una disamina della società del presente, con una particolare attenzione alla realtà americana in cui vive, spesso posta a confronto con quella britannica di cui è originaria.

Autrice di romanzi, racconti e saggi, inclusa nell’antologia di Granta tra i migliori scrittori britannici under 40 e due volte candidata al Man Booker Prize, con l’uscita nel 2000 di Denti bianchi, Zadie Smith si è imposta ben presto come una delle autrici di riferimento nel panorama letterario internazionale. Proprio con l’edizione di Denti bianchi per Mondadori nella traduzione di Laura Grimaldi, il pubblico italiano inizia ben presto ad amarla, apprezzando anche altre opere uscite per lo stesso editore nella traduzione di Bernardo Draghi, come L’uomo autografo e Della bellezza, e i romanzi NW, Swing Time, L’ambasciata di Cambogia e i racconti Grand Union tradotti da Silvia Pareschi.

Sarà però l’uscita dei saggi Cambiare idea e Perché Scrivere per minimum fax e Feel Free (National Book Critics Circle Award) per Sur, tutti tradotti da Martina Testa, a rivelare l’acuto e originale punto di vista sul presente di Zadie Smith, con una ripresa e uno sviluppo di alcuni dei temi affrontati nei romanzi e nei racconti, tra cui il confronto tra culture e generazioni diverse, la relazione con il radicamento ai luoghi, lo sguardo sulle contraddizioni della società.

La sua prosa sposta costantemente l’inquadratura, gioca a evidenziare le luci della metropoli e le ombre della comunità che osserva, un’urgenza inesausta evidente nella scelta di dare forma a un’esplorazione sociale aperta, perché tesa al dialogo con chi legge, attraverso cui strutturare un’analisi politica puntuale e un’acuta critica culturale.

La forma e il pensiero trovano in questi scritti una profonda identificazione: la sua storia, le radici politiche, etiche e esistenziali del suo impegno intellettuale si riconoscono anzitutto nella scelta di ridefinire il genere, forgiandone uno inevitabilmente limitante perché basato anzitutto sull’esperienza affettiva individuale, ma profondamente libero, tanto per chi scrive – nel non imporre una verità ma aprendo continuamente nuove visioni – quanto per chi legge, nell’accoglierne o rigettarne le istanze.

In tal senso colloca la scrittura nell’intersezione di elementi precari e incerti quali “la lingua, il mondo e l’io”, come sottolinea già in Feel Free: “La prima non mi appartiene mai del tutto; il secondo lo posso conoscere solo parzialmente; il terzo è una reazione malleabile e improvvisa ai primi due”.  Aspetto, quello delle ragioni della scrittura, che muove a più riprese le interrogazioni dell’autrice, convinta che sia legato a una forma di resistenza, al controllo.

Significa nuotare in un mare di ipocrisie, in ogni momento. Sappiamo di essere degli illusi, ma la cosa strana è che l’illusione è necessaria, almeno temporaneamente: serve a creare lo stampo, quello su cui riversiamo tutto ciò a cui non riusciamo a dare forma nella vita.

La personale visione con cui racconta il periodo compreso tra marzo e maggio 2020 in un’America investita dalle proteste per l’omicidio di George Floyd, restituisce una riflessione sull’instabilità e sull’indeterminatezza di una prova collettiva, resa con pari intensità nelle pagine vicine al diario intimo, nel racconto delle lotte antirazziste, nella narrazione degli incontri con la dea della fertilità alla fermata del 98, e in quelle dove condensa un’aspra critica all’operato di Donald Trump attraverso amare considerazioni sulle gerarchie americane.

Il racconto di una New York trasfigurata e confusa rivela il peso delle distinzioni di ceto anche nel tasso di mortalità tra neri e ispanici doppio rispetto a bianchi e asiatici: “La mappa del virus nei quartieri di New York diventa più rossa precisamente nelle stesse aree che si colorerebbero se la sfumatura di scarlatto misurasse non la diffusione del contagio e la mortalità ma le fasce di reddito e la qualità delle scuole.” Si interroga sul proliferare di strani capovolgimenti come l’incoerenza di quanti arrivano a rivalutare oggi un sistema sanitario nazionale segnato dal taglio di fondi: “C’è chi ringrazia Dio per l’esistenza di certi lavoratori «essenziali» che prima guardava dall’alto in basso, che fino a poco fa schifava quando li sentiva prendere quindici dollari l’ora”.

Tra i temi cardine della sua intera produzione la questione razziale, le disuguaglianze sociali, analizzate osservando gli esiti di qualsiasi forma di estremismo. Si interroga su un disprezzo forse mai realmente metabolizzato dagli Stati Uniti, pensandolo come un morbo capace di infettare il singolo per poi diffondersi nelle famiglie, tra i popoli, nelle strutture di potere. “Meno vistoso dell’odio. Più letale”, il disprezzo si insinua come un virus nelle sembianze di un terrore segreto la cui permanenza rivela responsabilità politiche sottaciute, tanto dai repubblicani che dai democratici. “Sono ben felici di «annerire» i loro social media per un giorno, di leggere libri solo di autori neri, e di «farsi una cultura» sui problemi dei neri, purché questa cultura non prenda la forma di bambini neri reali che frequentano le loro scuole reali”.

Convinta che l’omogeneità razziale non sia garanzia di pace, considera l’eterogeneità come non inesorabilmente destinata al fallimento, tuttavia non si è ancora pronti secondo Zadie Smith ad accogliere un reale cambiamento per scoprire “che tipo di America potrebbe esserci all’uscita del tunnel della segregazione”.

Non hanno capitale, neanche la propria forza lavoro./ Gli si può fare di tutto./ Non possono appellarsi a nulla./ Tre filamenti nel DNA del virus. In teoria, questi principi della schiavitù sono stati estirpati dalle leggi in vigore nel paese – nonché dal cuore e dalla testa delle persone – tanto tempo fa. In teoria. In pratica si trasmettono come un virus nelle chiese e nelle scuole, nelle pubblicità e nei film, nei libri e nei partiti politici, nelle aule di tribunale, nel complesso carcerario-industriale e, ovviamente, nei dipartimenti di polizia.

Questa strana e incontenibile stagione è anzitutto un’indagine sul privilegio, sulla relatività delle sue forme in rapporto alla classe sociale, alla razza, al genere. “Il privilegio e la sofferenza hanno molto in comune. Entrambi si manifestano sotto forma di bolle: circondano completamente le persone e ne distorcono lo sguardo. Ma la bolla del privilegio è possibile penetrarla e perfino farla scoppiare: mentre la bolla della sofferenza è impermeabile”.

Un mosaico in prosa che pone l’accento sulle distorsioni della civiltà del benessere, tra equivoci ideologici e dinamiche opache nel marcare le nuove tendenze dell’ambiente intellettuale. Pur alternando i registri, il contributo alla discussione sul presente offerto da Zadie Smith si rivela nelle immagini di un quotidiano sbiadito, nei volti e nei luoghi trasfigurati dalle paure, con una narrazione folgorante, a tratti caustica e ironica, che intarsia nuove visioni della contemporaneità.

Non credo che ci sia un’identità politica o personale che possa attribuirsi l’innocenza pura e la rettitudine assoluta. Ma non credo neanche nei viaggi nel tempo. Credo nei limiti umani, non per un senso di fatalismo ma per una cautela che ho imparato dalla storia recente e antica.

La sua peculiare forma satirica non cede al grottesco nello stigmatizzare alcuni dei paradossi del contemporaneo. Attacchi sferzanti accanto a tenere visioni sulla vita altrui dall’ascolto di discorsi rubati per immaginare di cogliere nei pensieri di donne sconosciute una comunanza ideale che spesso cela fraintendimenti sintomatici.

Irriverente e ironica, la sua scrittura trafigge tendenze, protagonisti e leggende dell’attualità, evidenziandone le storture. Una lucida osservazione sulla contemporaneità che rifugge l’idea di un affresco unitario ma che rivendica in quella frammentarietà una costruzione composita sui limiti dell’umano, sull’incapacità di autentica comunicazione in una realtà dominata da feroci disuguaglianze economiche, sociali, razziali, di genere e da un complesso e ambiguo concetto di sottomissione. Pagine che non intendono offrire una mera istantanea del presente ma contribuire da una prospettiva personale e privata al dibattito collettivo per ripensare il cambiamento.

Erano tulipani. Avrei voluto che fossero peonie. Nella mia storia sono, continuano a essere, erano e saranno per sempre peonie: perché, quando scrivo, il tempo e lo spazio stessi si piegano alla mia volontà.

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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