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di Claudia Bruno
In un libro letto tempo fa, Joanna Pocock, scrittrice canadese partita da Londra alla ricerca di nuovi stili di vita nel West americano, a un certo punto raccontava di essere stata allontanata e interrotta dalla giovane madre di una comunitĂ , nel rivolgere un gesto dâaffetto alla neonata che teneva in braccio per il fatto di arrivare dalla cittĂ , essere portatrice di microorganismi infettivi e potenzialmente pericolosi. Ă una scena a cui ho ripensato spesso, difficilmente avrei creduto di poterla vivere di persona.
Alla fine di febbraio ho preso un aereo per Roma. Sullâaereo câerano sette passeggeri con la mascherina, erano tutti italiani. Mi ricordo di averli contati, ho pensato che fossero pazzi. Una di loro ha sostenuto per tutto il viaggio che i virus si diffondono attraverso gli zingari che rovistano nei cassonetti. Un altro spostava allâoccorrenza la mascherina dalla bocca per bere una coca tra una scena e lâaltra del film che stava guardando sullo schermo di un tablet. Tutto abbastanza in linea con quello che avrei visto giorni dopo: romani in maniche di camicia con i gomiti appoggiati al bancone aspettando una carbonara â mascherina sotto il mento e mano in tasca âme ce metti pure il pecorinoâ.
Per le strade di Roma le persone camminavano strette, si ammassavano in metro â qualche evento rimandato per prudenza,âvai a sapĂŠâ. Il resto, tutto come al solito â prosecchi e apericene, pizze al piatto e come sempre molti abbracci. Sui treni regionali qualcuno iniziava a ragionare sui contagi, âdi come si potrebbe fare, poi, alla fine, a stare a un metro di distanza la mattinaâ â due regioni diviso cinque vagoni alla volta faceva sempre comunque meno di un metro. Si sapeva giĂ che i bambini non avrebbero presentato sintomi, che le mascherine sarebbero servite fino a un certo punto. Comunque i controllori a Termini non câerano piĂš, ogni tanto qualcuno, nonostante il sole, si avvolgeva il naso in una sciarpa.
In quei giorni ha partorito una mia amica, non vedevo lâora di conoscere sua figlia. Dalle foto sembrava uguale a lei, solo minuscola. Ero emozionata. Le inviavo fiori virtuali in attesa di incontrarla. La mia amica me lo ha detto per messaggio âmi dispiace, non la puoi vedere,questo virus mi spaventa, spero capiraiâ. Non ero sicura di aver capito, ma pochi giorni dopo avevo un aereo per Gatwick. Ad oggi non ho idea di quando tornerò, tutto quello che so è che quel momento è passato.
A Londra, sulla scrivania â un tavolo da pranzo dalla forma ovale ricoperto di ammaccature che ho sistemato in sala davanti alle finestre â câè un dizionario etimologico, lâenciclopedia dei simboli, lo speciale di carta che il Guardian ha dedicato al giorno dellâaddio allâEuropa. Poi unâedera, un tronchetto, una pilea â a Roma ero abituata ad avere un fuori, qui è stata una delle prime cose a mancarmi, avevo bisogno di foglie.
Da qualche giorno sopra al tavolo câè un computer in piĂš, un paio di cuffie e un blocco di indisciplinati scarabocchi. Appartengono allâuomo che ho sposato a qualche mese dalla Brexit. Nato in Italia, come me. Venuto qui per lavorare, al contrario di me. Al mio ritorno, allâinizio di marzo, ha ricevuto una lettera dallâufficio del personale: âsmartworking preventivoâ per il fatto di aver avuto contatti con me.
Adesso condividiamo il mio ufficio portabile. Un ripiano che cambia a seconda delle stanze e delle case. Libri diversi al variare delle stagioni, di sicuro unâagenda e un pc. La sensazione è che anche se ci ho messo quindici anni a capire come arginare lâimpatto delle interruzioni domestiche su quello che faccio, devo ricominciare da capo. Mio marito mi parla, mi interrompe continuamente. Ho fatto un conto, in media per ogni tre frasi che scrivo alla quarta di sicuro mi dice qualcosa. âCome fai a restare seduta, dimenticarti di tuttoâ mi guarda come se mi vedesse per la prima volta. Non sempre rispondo ma so quando ho iniziato â avevo ventâanni, mentre scrivevo mia sorella mi tediava con delle interminabili lezioni di piano.
Lui si alza ogni dieci minuti. âAndiamo?â, mi chiede. âCamminare fa beneâ. Da quando lavora a casa camminiamo anche due ore di fila, non importa se piove. Superiamo i resti del mercato, i grattacieli nuovi. Ci addentriamo nei sobborghi di villette a schiera. In silenzio raggiungiamo il bosco, ci inoltriamo tra i rami che si fanno piĂš fitti. Da una piccola collina osserviamo la cittĂ come se fosse lontana e non ci riguardasse, poi torniamo indietro. Nel tragitto incontriamo tutte le case in cui siamo stati, quelle che abbiamo visitato o in cui saremmo potuti andare. Ă un viaggio a ritroso negli ultimi anni. âTi ricordi la prima volta che abbiamo fatto questa strada?â gli chiedo mentre percorriamo la salita di Normanton Road. âEra prima del referendum, mia nonna era ancora viva, tuo padre ci vedeva beneâ mi fermo per non continuare un elenco che rischia di diventare invadente.
Da quando lâItalia è stata chiusa, locked down dicono qui, mi è venuta la tosse. Ogni tanto mi capita quando sono nervosa. Ho passato le notti a leggere e rileggere sempre le stesse frasi â il significato di quelle istruzioni continuava a andarsene per conto suo, scivolava da unâaltra parte. Chiusi in casa è unâespressione che può voler dire tante cose, adesso non me ne veniva bene in mente nessuna.
Gli italiani che conosco a Londra si sono âauto isolatiâ. Quelli che non hanno potuto vivono al centro di un attentato terroristico guidato dal governo âper salvare lâeconomiaâ. La mia vicina, italiana anche lei, ha ritirato sua figlia dalla scuola, ha chiesto al marito di lavorare da casa. Sono lĂŹ, dentro al loro appartamento al quindicesimo piano di un grattacielo, li guardo nelle storie di Instagram â di incontrarci di persona neanche se ne parla. Ă difficile abitare la distanza quando il tuo paese ha tutta lâimpressione di diventare il futuro prossimo del pianeta. SullâItalia sanno tutti le stesse cose, noi facciamo come se fosse qui adesso, e facciamo come se fosse ovunque. Per il resto Londra continua a girare come una giostra imprudente, in un modo molto simile a come girava Roma tre settimane fa.
âI contagi sono ancora bassi per fermare tuttoâ ci diciamo mentre camminiamo. Da giorni non parliamo che di curve e incidenze, percentuali e denominatori. Non prendiamo i mezzi, non mangiamo fuori â addio mostre, cineforum, Adho Mukha e lindy hop. Vicinanze di nessun tipo, vita sociale zero. Piccoli tragitti da casa verso casa. Mi chiedo quanto potremo resistere prima di impazzire, come farĂ Londra a chiudere nove milioni di persone nei suoi flat cosĂŹ stretti. Se servirĂ davvero questa quarantena che ci siamo imposti in anticipo rispetto quella âveraâ, che a un certo punto arriverĂ , o se finiremo per ammalarcene prima. Per me, come per molti, ogni giorno in piĂš rischia di fare una differenza importante. Le case sono degli inghiottitoi, adesso se ne accorgeranno tutti.
âEra il segno che dovevamo fermarci, prenderci cura di noi stessi, e gli uni degli altri, cambiare sistemaâ sento dire e leggo tante volte, in un andirivieni di cuoricini rossi e namastĂŠ. Lo sento dire da anni, ogni volta che qualcuno scopre su un referto medico una malattia, che gli muore un parente, che viene licenziato, che ha una gastrite. Ci sarĂ stato probabilmente un tempo in cui l’avrò detto anch’io. Ma quel tempo non esiste piĂš.
Proverò a essere sincera. Quando il virus ha cominciato a diffondersi in Cina mia madre, biologa, mi chiamava tutti i giorni. Aveva smesso di chiedermi come stavo, che cosa stavo facendo, voleva solo sapere quante volte e per quanto tempo mi lavavo le mani. Allâinizio ero scettica, anche un poâ infastidita da questa insistenza. Poi è successa una cosa strana: piĂš il virus si diffondeva, attraversava i confini, piĂš mi facevo serena. Nellâincertezza generale, mi preparavo a condividere col mondo quella che per me era una condizione dâesistenza: isolamento a domicilio, futuro incerto, eventualmente tosse secca e mal di testa.
La paura è arrivata dopo.
A Londra gli esperti dicono che lâoutbreak arriverĂ tra quattro settimane. A distanza di poche ore lâOrganizzazione mondiale della sanitĂ ha dichiarato lo stato di pandemia globale, il sindaco ha girato un video in cui sorride invitando le persone a non fermarsi, continuare tutte le attivitĂ , âa patto di lavarsi bene le maniâ. Accanto a un piano di precauzioni collaterali e ancora modeste, il governo ha comunicato le stime di quella che si annuncia come la âpeggiore crisi sanitariaâ della storia piĂš recente accompagnate da un premuroso âpreparatevi a perdere i vostri cari prima del tempoâ. Scrivo a unâamica arrivata qui come infermiera, mi risponde âabbiamo qualche caso, li stiamo isolando,ma sarĂ una merdaâ.
Con mio marito ci siamo divisi la casa. Io salotto, lui cucina. Il social distancing ci ha contagiati. Adesso al posto delle carezze ci scambiamo i meme â un tizio che fischietta cucinando due rotoli di carta igienica, una coppia che ha preso un cane da portare fuori, ma è finto. Per lâItalia non ci sono piĂš aerei. Isolati su unâisola guardiamo lâEuropa chiudersi dentro, ci diciamo che âla salute è un concetto grandeâ, sogniamo la Corea. Io, a volte, di cadere dalle scale che portano allâingresso, per fortuna sto dormendo.
Al nono giorno di quarantena malediciamo Whatsapp e chi lâha inventato, ci pervade una smania epidermica, stabilire un contatto mortale â lâevidenza è scientifica: non è tanto che ânon dobbiamo fidarci di nessunoâ, è accertato, a breve nessuno si fiderĂ di noi.
E non câè niente da fare, le istruzioni per scampare il collasso si sovrappongono al programma di un governo inventato, che divide per comandare. Solo che stavolta è âper il nostro beneâ. Siamo al centro di un cortocircuito politico, un disastro interiore. Restiamo iperconnessi, coi nervi scoperti attaccati alle macchine, non ci accorgiamo che rischiamo il burnout.
Adesso inviamo messaggi introdotti da âse sopravviviamoâ. La sera sul divano ci aggrappiamo a un esercizio immaginario. Ci vediamo tra sei mesi dentro a un cerchio di auto aiuto per gli affetti da PCS (Post-Covid-Syndrome), o un acronimo simile che qualcuno di sicuro nel frattempo inventerĂ . Un poâ ridiamo, un poâ ci viene da piangere. Ma non lo facciamo. A casa stiamo insieme âtroppoâ, ci diciamo ânon so se posso piĂš stare con teâ.
DallâItalia riceviamo video di inni nazionali remixati e cori neomelodici alle finestre, videoappelli di influencer chiusi a chiave in appartamenti di lusso e ville con piscina. âState bene? Boris Johnson è un pazzo! Non riuscite a tornare?â mi scrivono le amiche che âstanno sclerandoâ perchĂŠ in giro âci sono le guardie e hanno chiuso tutto, pure i parchiâ. Di casa non si può piĂš uscire.
âVa tutto beneâ, ci diciamo. Stiamo uniti e stiamo strong. Ma lâEuropa non è la Cina.
In programmi intitolati âlâItalia ha capito, gli altri noâ sentiamo affermare che il sistema sanitario inglese è privato, che il governo ammazzerĂ i vecchi per salvare i giovani con la selezione naturale. Ci ricordiamo a vicenda di mantenere uno sguardo attento, verificare le fonti, non credere a qualcosa a prescindere solo perchĂŠ lo dice qualcuno che è d’accordo con te. Quella che stiamo vivendo non è una catastrofe ambientale, è la crisi di unâsistema sanitario internazionaleâ, del concetto di âsaluteâcome lo abbiamo pensato finora.
Il sistema sanitario inglese è pubblico. Qui, come altrove,i respiratori non basteranno, ma chiamiamo il governo per nome.âBorisâ sa dire tutto e il contrario di tutto. Lâultima volta: che la quarantena inizierĂ dallâisolamento degli anziani e dei piĂš fragili, che cercheranno di limitare la chiusura delle scuole in modo che duri il meno possibile, che nel frattempo chi ha la febbre deve stare a casa. Ă il âsolitoâ metodo diverso. Non tutti ci credono, nessuno ha la certezza che funzionerĂ . Ma anche qui, come nel resto dâEuropa, diciamo spesso âsperiamo beneâ.
Nella Londra del giorno dopo la gente va ancora a ballare nei club e i programmi hanno gli applausi veri, ma è partita la catena del âsi salvi chi puòâ. Istituti e universitĂ trasferiscono corsi e lezioni online, eventi si autoannullano a seconda dellâoccasione, italiani prevedono che âmoriremo tuttiâ. Amici nati e vissuti a Istanbul prima di trasferirsi in Inghilterra, sostengono di aver giĂ contratto il virus e di esserne guariti nel giro di poco. Per loro lâItalia resta un caso particolare a cui rivolgono buoni pensieri âHard times… I pray everydayâ ci scrivono. Comunque mascherine per le strade niente, si va al pub, ma intanto i supermercati si svuotano. Negli scaffali non si trova piĂš frutta,sapone, carta igienica. Le farine spariscono. Il Regno Unito è un paese dâimportazione, tante volte abbiamo immaginato questo scenario pensando a unâhard Brexit. Adesso lo scenario è qui, anche se per altri motivi. Il grocery delivery procede tra esaurimenti e ritardi, ci scrive lettere per ricordarci di non comprare piĂš di quello che ci serve. Molti, oltre alla fiducia, stanno perdendo la calma.
âMi ascolti quando parlo?â mi dice mio marito âmi preoccupa la tua tranquillitĂ â. Lo guardo sistemare sulle scale le bottiglie dellâacqua frizzante che ci hanno spedito al posto di quella naturale. Mi sembra un altro, è dimagrito, sul volto ha delle rughe in piĂš, come se non lo vedessi da tanto tempo. Mi chiedo quanto ne serve a un cervello umano per comprendere un nuovo ordine delle cose. Se il mio è diverso, fatto peggio, se significa che mi sto estinguendo. Come diventerĂ âla nostra vita prima del vaccinoâ, che forme prenderĂ questoâstato di pandemia permanenteâ. Se le palestre avranno posti limitati, se impareremo a ballare senza toccarci.
In attesa di risposte faccio quello che negli anni ho imparato a fare meglio. Lentamente, mi stacco. Esco dal corpo, mi penso da fuori, tengo buona una parte di me, quella infestante che giĂ aveva annodato i fili ai muri e agli angoli di carne. E poi taglio, con cura, dove il nodo non si disfa, con la fiducia che si riformerĂ con la stessa inspiegabile perseveranza con cui i giorni continuano a cominciare.
Ho paura di molte cose. Come tutti, anche che accada qualcosa alle persone che amo, di non poterle raggiungere da dove mi trovo. Sicuramente ho paura di non respirare, so come ci si sente. Ci sono diversi modi in cui si smette. Ne ho provati alcuni.
Però la sera, prima di dormire, câè un pensiero che mi rassicura. Sul tavolo di una delle mie case passate, mia madre mi spiega come avviene la replicazione. Disegna un virus su un pezzo di carta. Ha la testa a forma di prisma, le zampe filiformi, sottili. âCerca la cellula ospite per moltiplicarsiâ mia madre fa un cerchietto con la penna a sfera. âPer un poâ sarĂ la casa del parassitaâ, spiega alla me ragazzina. Prima o dopo ci verrĂ a toccare tutti, mi dico mentre spengo la luce.Penso al pianeta infetto di Haraway, alle parole di Marie Curie, ai disegni di Ernst Haeckel. Se chiudo gli occhi vedo questa mappa,un planisfero in espansione che si è coperto di pallini rossi e allâimprovviso è diventato piccolo.
Londra, 15 marzo 2020
Claudia Bruno, scrittrice e giornalista, è redattrice editoriale di inGenere e collabora con le pagine culturali de Il Manifesto.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Belle riflessioni. Complimenti
Complimenti, belle parole dentro e fuori da un passaggio epocale. Grazie
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