La sinistra italiana e Israele
Riprendiamo un intervento di Alessandro Leogrande apparso su Lo Straniero.
C’è una linea di frattura che corre attraverso Israele e il mondo della diaspora ebraica, in questi anni. Essa può essere illustrata da due episodi recenti.
Il primo. L’11 gennaio 2015, a pochi giorni degli attentati terroristici nella redazione di Charlie Hebdo e nell’Hyper Cacher di Porte de Vincennes, si tiene a Parigi l’imponente manifestazione cui partecipano oltre tre milioni di persone. A sera, il premier israeliano Netanyahu si reca per una commemorazione delle vittime nella grande sinagoga, e qui ricorda a “ogni ebreo e ogni ebrea che vorrà fare l’aliyah in Israele” che “verranno ricevuti da noi a braccia aperte e con calore. Non arriveranno in un Paese straniero, ma nella Terra dei Padri.”
I militanti jihadisti
Questo articolo è apparso su Lo Straniero.
Come molti uomini e donne di ogni parte del globo a poche ore dalla strage anche a me è venuto di dire immediatamente, istintivamente: “Io sono Charlie”. Ma sono anche ebreo, vorrei aggiungere. Guardando le immagini in tv, ho pensato che uno degli slogan più belli del Maggio francese, subito dopo l’espulsione di Daniel Cohn Bendit dal paese, fu “Siamo tutti ebrei tedeschi”; e che nei giorni tremendi di inizio gennaio il radicalismo jihadista si è scagliato non solo contro gli ebrei per il solo fatto di essere ebrei, contro chi faceva gli ultimi acquisti in un market kosher prima del sabato, ma anche contro uno dei prodotti più irriverenti e libertari dell’onda lunga di quel medesimo Maggio: un giornale come “Charlie Hebdo”.
A uccidere gli uni e gli altri sono stati dei ventenni entrati nelle file del jihad islamico, di cui poco sappiamo e di cui ancor meno siamo stati disposti a capire qui in Italia, paese come sempre mediamente più provinciale, chiuso in se stesso, miope di altri, benché collocato al centro del Mediterraneo. Da tempo siamo indifferenti all’esplosione di quest’area, la nostra: non solo non comprendiamo cosa si agita in Siria o in Iraq, ma anche nelle teste di coloro i quali vanno a combattere in quei paesi e poi fanno ritorno in Europa.
Grandi scrittori immortalati da grandi fotografi
Questo pezzo è uscito su Europa. (Immagine: Emmanuel Carrère, Parigi, 2004. ©Lise Sarfati/Magnum Photos/Contrasto)
Soprattutto, gli scrittori pensano e osservano. Riconoscerli è semplice perché di solito sono circondati da oggetti e ambienti che certificano il loro talento artistico. Gli scrittori sono i loro stessi gesti, i vezzi e i velluti che sigillano la loro diversità (penne, baffi, scrivanie, papillon, bretelle, scarpette e bicchieri di vino). È appena uscito Scrittori (libro edito da Contrasto) che presenta 250 fotografie di grandi scrittori immortalati da fotografi altrettanto celebri (Cartier-Bresson, Robert Capa, Elliott Erwitt, Ugo Mulas, Salgado, e altri). Ma questo splendido catalogo è anche involontariamente un manuale di retorica che illustra la mitologia che avvolge intellettuali, romanzieri e poeti. Per prima cosa, lo scrittore autentico è circondato da libri. Libri sfogliati, libri che caricano chi li sfiora del loro potere evocativo. Molti volumi infatti tra le mani di Adonis e Yeats, di Apollinaire e Cabrera Infante, mentre Márquez ha una copia di Cent’anni di solitudine aperta sulla testa, e spessissimo i libri rifulgono dallo sfondo: dagli scaffali di Margaret Atwood, George Bataille, Malaparte e Gadda. Pile torreggiano da terra e circondano Peter Handke, Musil è sommerso da quelli impilati sulla scrivania; abbondano le librerie ordinate di Vargas Llosa, di Vila Matas, della Némirovsky, e quelle disordinate à la Mishima.
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