Simone Weil è il più grande filosofo del Novecento

Il 3 febbraio del 1909 nasceva a Parigi Simone Weil. Pubblichiamo un articolo di Alfonso Berardinelli apparso sul Foglio e vi invitiamo a leggere un pezzo di Nicola Lagioia uscito su Orwell e su minima&moralia nel 2012.

di Alfonso Berardinelli

Qualche mese fa un giovane critico letterario, piuttosto polemico con le mie opinioni sia politiche che culturali (secondo lui indecifrabili, se non aberranti), mi ha chiesto in conclusione qual è, secondo me, il maggiore filosofo del Novecento. Non ho dovuto riflettere molto per rispondere: Simone Weil. Questa risposta, pur essendo accolta come un’ulteriore provocazione, sembrava anche offrire finalmente un chiarimento: perché certo Simone Weil la si sente nominare, ma non si sa mai come prenderla, non rimanda alle culture dominanti nel Novecento o le respinge, tiene insieme, non per moderatismo, ma per radicalismo, politica e religione, etica e gnoseologia: e quindi, soprattutto, non viene letta, esige molto dal lettore e disturba in particolare gli intellettuali e la loro categoria oggi prevalente, quella degli universitari. La Weil non ha confezionato trattati sistematici usufruendo di fondi di ricerca, e per questo dai filosofi di professione, abituati a rimasticare qualunque autore, spesso senza ragioni sufficienti, viene ritenuta a torto un pensatore non sistematico, teoreticamente inadeguato perché frammentario. Niente di meno vero. Simone Weil non ha costruito sistemi, edifici concettuali dentro cui ripararsi. La sua produzione è occasionale, profondamente motivata dagli eventi della sua vita e da quelli politici degli anni in cui è vissuta (il ventennio fra le due guerre mondiali). Ma i suoi articoli e saggi, i suoi diari e aforismi configurano un pensiero straordinariamente coeso e coerente, originale (parola a lei non gradita!) nella sua cartesiana lucidità e in una eroica onestà esistenziale.

Critica letteraria e giornalismo culturale

Questo pezzo è uscito su Alias/il manifesto. (Fonte immagine.)

di Raffaele Manica

Quante volte, aprendo un vecchio libro, vi si trova dentro, con sorpresa, un ritaglio dimenticato. Non si sa se questa attività, ritagliare pagine di giornale, sussista ancora. Se c’è, è demodée o, con più attuale anglo-preferenza, vintage. Ritagliare una parte di vecchie terze pagine, isolando per poi ricomporre un ampio puzzle, è il compito che si è assunto, assolvendolo in modo eccellente, Mauro Bersani per congegnare il secondo volume di La critica letteraria e il Corriere della Sera, dedicato agli anni 1945-1992 , aperto da un’introduzione che ricostruisce in maniera funzionale anche i rapporti con altre testate (Fondazione Corriere della Sera, pp. XXXVI-1869, € 60,00; un primo volume, per gli anni 1876-1945, è uscito nel 2011 a cura e con introduzione di Bruno Pischedda e con prefazione di Paolo Di Stefano). Non la letteratura, ma la critica letteraria, che è un restringimento di campo importante: proprio la critica letteraria, la sempre moribonda, soprattutto negli anni qui in considerazione, che vanno dall’ultima stagione infocata delle riviste – dal secondo dopoguerra agli anni sessanta e fino ai primi settanta – al tramonto delle riviste o almeno della loro presenza predominante nella discussione letteraria, con l’arrivo di mezzi di comunicazione più veloci almeno quanto, in genere, più superficiali.