Napoleone a Roma

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica. (Immagine: Jacques-Louis David)

Il 24 maggio del 1814 Roma esplose in una festa senza precedenti. Dopo quattro anni, dieci mesi e quattordici giorni di forzato esilio, il Papa – Pio VII Chiaramonti – rientrava in città. Era un ritorno trionfale. Il popolo assiepato per le strade seguiva, nella generale ebbrezza, il corteo diretto verso San Pietro. Coppe di vino passavano di mano in mano, le trattorie rigurgitavano uomini e donne incapaci ormai di curarsi del più semplice decoro. La primavera, il sole, la stagione della fioritura si congiunsero con il ritorno dell’unico vero Padre della città, un Padre buono e misericordioso. Balli e canti. Gli anni di Napoleone erano finiti per sempre. La coscrizione obbligatoria, che aveva messo in fuga molti cittadini spingendoli fuori dalle Mura, dovunque fosse possibile trovare un buco per dichiararsi assenti, era un ricordo. Obblighi e doveri che l’autorità napoleonica aveva cercato di infondere negli anni precedenti scomparivano come neve nel caldo infuocato di fine maggio. E tutti i riti e le celebrazioni pubbliche e i fasti dell’Impero che si erano sostituiti alle liturgie cattoliche tornavano al Nord, da dove erano arrivati sulle ali di una coscienza illuminista che Roma non avrebbe mai completamente accettato. La festa spazzò via un lustro in un battito di palpebre. Il ricordo dell’invasore sarebbe rimasto in epocali ritratti tipicamente romani, come nel sonetto del Belli che, vent’anni dopo, ancora rideva amaro: “E ssedute, e ddemanio, e ccoscrizzione, / Ggiuramenti a li preti e a l’avocati, / Carc’in culo a le moniche e a li frati, / Case bbuttate ggiù, cchiese a ppiggione…”. La storiografia seguente non avrebbe fatto sconti, oscurando gran parte delle iniziative francesi di rendere Roma una città moderna.