Scrivere di cinema: La tenerezza

minima&moralia è tra i partner del concorso Scrivere di cinema – Premio Alberto Farassino per giovani aspiranti critici cinematografici: ospitiamo la rubrica di cinema a cura dei vincitori dell’edizione 2016 e vi segnaliamo il bando dell’edizione 2017 (fonte immagine). 

di Marco Castelli

I film  sulle relazioni umane sono come una matassa di storie, che viene fatta srotolare da un gatto su un tappeto. Ne “La tenerezza” il giocoliere è il regista Gianni Amelio, il tappeto sono i vicoli di Napoli ed il colore della matassa è un rosso tra lo stinto di una rosa sfiorita, il cupo del sangue rappreso, ed il colore acceso della giacca a vento del protagonista, Lorenzo, avvocato in pensione.

Intervista a Laura Morante

Questa intervista è uscita su IL ad aprile 2013.

La chiamo al numero di casa: riconosco il quartiere dalle prime tre cifre del numero, abita vicino a casa dei miei, a Roma. Io sono fuori Roma e non posso incontrarla. Il telefono ha dei problemi perciò per lunghi tratti non riesco a interromperla e Laura Morante continua volentieri a parlare del suo lavoro.

Faceva la ballerina, ha esordito al cinema con i due Bertolucci, in teatro con Carmelo Bene (cose off a parte). Ha recitato Anche per Gianni Amelio, Pupi Avati, Gabriele Salvatores, Cristina Comencini, Michele Placido, Gabriele Muccino, Paolo Virzì, Alain Resnais, Nanni Moretti. Per Moretti è stata Bianca e poi la madre del figlio morto ne La stanza del figlio. Elsa Morante era sua zia. Nel 2012 ha esordito alla regia con Ciliegine.

Natale a casa De Sica

Michele Masneri, in procinto di pubblicare il suo Addio, Monti (gennaio 2014) con minimum fax, è evaso dall’omonimo quartiere romano protagonista del suo libro per spingersi fino a San Saba, in una casa molto speciale dove si celebrano i trentennali di un genere molto umiliato e offeso, il cinepanettone. Questo pezzo è uscito sul numero 17 di Studio. (Foto: Gilda Louise Aloisi)

Intanto i luoghi: San Saba, quartiere romano di scicchismo violento, old money, contrappasso sgarrupato-lugubre-fané del fronteggiante Aventino. Conventi e intonaci frananti. Una via sontuosamente alberata, che a sinistra costeggia l’ex ministero delle Colonie, oggi Fao; tanti villini decorosissimi, moderni, e «alcune riuscite realizzazioni di architettura modernista» secondo la Guida Rossa del Touring Club Italiano. Tra queste, casa De Sica. Un appartamento al primo piano di un villino di quattro, opera di Andrea Busiri-Vici, dinastia d’architetti romani per ricchi.

Di fronte, l’ambasciata svizzera presso le Nazioni Unite. Prius silenziose targate Corpo Diplomatico scendono sibilando tra le foglie rosse come in Vermont. Parlate americane da east coast in strada; accanto, il liceo più aspirazionale di Roma, il St. Stephens, per cui rampolli di rare biondezze e stature che passeggiano sotto i platani (una piccola Boston). Viene in mente subito una scena di Simpatici e antipatici (1997) su cui si ritornerà: Christian De Sica (d’ora in poi: CDS) alias Roberto porta a scuola due figlie grasse, e incontra una sua antica spasimante, le fa il baciamano, rievoca momenti magici ormai lontani: «Fregene, estate settantatre-settantaquattro. La Conchiglia. Tu eri sdraiata sulla sabbia dorata. E in lontananza le onde che si infrangevano sulla battigia. Al juke box, Pazza idea di Patty Pravo…». Lei: «Eri tenerissimo». Lui, all’apice del vagheggiamento: «Te ricordi che bucio de culo che t’ho fatto?»

Torino Film Festival, Italia

Alzando gli occhi e guardando il Sole, in realtà, vediamo soltanto un ricordo, la proiezione del Sole com’era otto minuti fa. Lo stesso discorso vale per le stelle – la luce di alcune, addirittura, ci arriva quando sono già morte, esplose nello spazio infinito. Questi, all’incirca, erano i pensieri con cui lottavo durante l’ultimo TFF, svoltosi dal 22 al 30 novembre, con Paolo Virzì all’esordio nella carica di direttore artistico. Si è letto e proclamato ovunque: è stato un successo, un’affluenza al di sopra delle aspettative e una mole di incassi in aumento del 31%, perlomeno rispetto al 2012. Perché, allora, pensavo al Sole e alle supernove?

Un po’, lo ammetto, perché i trionfi hanno un lato inquietante, sepolto nel timore che tutto possa finire da un momento all’altro. Giravo per Torino, guardavo bei film, evitavo gli appostamenti Rai per non finire nel programma di Marzullo. Facevo questo ed altro, mentre le code fuori dai cinema dimostravano che il pubblico era presente, disposto a far parte dell’ingranaggio e a ridare speranza ai produttori e agli addetti ai lavori. Eppure, non so, continuavo ad avere una sensazione ambigua – da un lato ero felice, dall’altro paragonavo l’atmosfera festosa a quella dei funerali gipsy, dove si mangia e si beve per giorni e così ci si congeda dal morto.

Fine della primavera pugliese?

Questo pezzo è uscito sulla «Gazzetta del Mezzogiorno».

di Oscar Iarussi

Se c’è un’immagine sintetica ed espressiva della Puglia negli ultimi quattro o cinque lustri, essa è senza dubbio quella della regione di frontiera. Innescata dagli sbarchi albanesi del 1991 – al culmine nell’approdo della nave «Vlora» nel porto di Bari, un’icona dell’exodus novecentesco – la dimensione frontaliera resa evidente dall’emig razione clandestina fu un trauma che non tardò a essere elaborato in positivo, equivalse a uno choc provvidenziale, offrì un’occasione storica per affrancarsi da un meridionalismo glorioso, ma spesso vittimistico e inefficace. Non furono di poco conto, infatti, la percezione e quindi la consapevolezza della Puglia come una delle linee geopolitiche di confine nel mondo globale e reticolare, una terra fremente dell’incessante movimento di uomini e merci sprigionato dal crollo del Muro di Berlino. In particolare, cambiò radicalmente il punto di vista: era strabico e fallace continuare a ritenere che la stella polare dello sviluppo coincidesse sempre e soltanto con il Nord, con un’Italia settentrionale che in quegli anni si serrava nella agorafobia politica e negli arcaici riti «padani» della Lega.

Il nostro colonialismo rimosso

Questo pezzo è uscito in forma più breve su Orwell. (Fonte immagine: Indire.)

Ci sono delle vecchie immagini girate da Luca Comerio, uno dei pionieri del documentarismo italiano, nella Piazza del Pane a Tripoli nel 1911. La camera indugia sul via vai dei nostri militari in divisa che si affollano lungo la strada, poi l’inquadratura si allarga ed entra in scena un patibolo: almeno venti arabi, tutti uomini, pendono irrigiditi con un cappio al collo. Sono stati da poco impiccati. Chi ha mai visto queste immagini di Comerio (riprodotte per pochi secondi in un vecchio film di Cecilia Mangini, Lino Del Fra e Lino Miccichè, All’armi siam fascisti!, recentemente ripresentato in dvd da Raro Video)? Quanti studenti di storia contemporanea le conoscono, sanno a cosa rimandano? Immagino pochissimi. La loro rimozione dalla memoria collettiva è direttamente proporzionale alla rimozione del colonialismo in Africa e nei Balcani. Un inspiegabile, lungo buio. Un lento, carsico lavorio che via via ha espunto le pagine nere della nostra storia recente, e creato il mito infondato degli “italiani brava gente”.

La Cina, l’acciaio e il porto di Taranto

Torniamo a occuparci dell’Ilva con un articolo di Alessandro Leogrande uscito sul «Corriere del Mezzogiorno».

Taranto vista dalla Cina, la Cina vista da Taranto. Mentre le soluzioni ipotizzate per coniugare salute e lavoro sono ancora tutte in fase di definizione, proviamo ad allargare un po’ il discorso su scala globale. I due esempi che proporrò portano entrambi alla Cina.

Ecco il primo. Mi sono chiesto in queste settimane: quanti film hanno raccontato l’Itasilder e l’Ilva dopo la sua privatizzazione? Non genericamente la fabbrica o il lavoro operaio, non un centrale nucleare o l’inquinamento industriale in senso lato, ma proprio l’Italsider, le città-Italsider, le famiglie-Italsider, il lavoro-Italsider, come si è venuto a determinare – in Italia – nel corso del Novecento? Ho chiesto a un po’ di amici registi e critici cinematografici. Se si escludono il recentissimo “Acciaio” di Stefano Mordini e alcuni documentari più che altro televisivi, la risposta è: nessuno. E ciò la dice lunga sull’assenza di un ricostruzione artistica e di una riflessione culturale su una parte così importante della storia nazionale, che ha messo insieme i destini di Genova, Napoli, Taranto…