L’estasi dell’influenza

di Francesco Guglieri

Questa settimana ho percorso quarantaquattro chilometri a piedi per la bellezza di 61.470 passi.

A volte mi chiedo se è lo spirito del tempo a dare forma alle nostre ossessioni o se, al contrario, sono le nostre ossessioni (da cui i desideri, da cui i bisogni, da cui le merci) a definire lo spirito del tempo. Me lo chiedevo piuttosto oziosamente quando la settimana scorsa ho iniziato a usare un programmino: un’app per l’iPhone che tiene traccia dei miei tragitti, del tempo e dello spazio percorso, con tanto di conteggio dei passi. Non mi considero una persona particolarmente ossessivo-compulsiva, al contrario, ma ammetto che ho sempre subìto il fascino degli elenchi, delle liste, degli archivi personali: le città visitate, i ristoranti in cui ho mangiato, i film visti e, soprattutto, i libri letti. Di fatto poi, proprio perché non sono un autentico ossessivo compulsivo, quando iniziavo a tenere questi diari in forma di elenco di solito smettevo di farlo dopo pochi giorni o un paio di titoli segnati. Il mal d’archivio, come sa bene Derrida, è una patologia della memoria, e cioè dell’identità: come se, facendo un elenco dei libri letti, ad esempio, potesse emergere un autoritratto fedele di me, qualcuno, un avatar, un doppio, che potesse dirmi chi sono, dal momento che io no, non lo so chi sono. Un qualcosa che ricordasse al posto mio ciò che ero stato, anche se solo attraverso la memoria di ciò che per definizione non sono io: oggetti, cose, scritture.

Un romanzo a forma di estuario

Ci sono libri che fanno male, che lasciano cicatrici, com’è il titolo di questo romanzo di Juan José Saer, pubblicato per la prima volta nel 1969. Libri attraversati verticalmente dal dolore e che ti attraversano, rigo dopo rigo. Non sono letture da cui si esce indenni. Mettono a disagio, fanno venire vergogna. Rinnovano, senza anestesia, “le prime ferite della comprensione e dello stupore”.

Juan José Saer lo chiamavano el Turco (el turquito, diceva affettuosamente Ernesto Sabato), perché era di genitori siriolibanesi di religione cattolica. Cresciuto a Santa Fé, compì anche lui, come Cortázar e molti altri sudamericani, il classico apprendistato letterario a Parigi, restando in quella città per trent’anni, fino alla morte. Fu uno scrittore appartato e radicale, di cui solo ora si sta comprendendo appieno la grandezza. Abitava sopra la stazione di Montparnasse e si votò alla letteratura con una dedizione monastica, volgendo le spalle al mercato. Aveva idee chiare e gusti molto netti. Odiava tutto ciò che fosse folclore, colore locale, spezia esotica: la retorica del tango, il barocco. Biasimava il realismo magico trasformato in marketing, ma anche il realismo volgare, il postmodernismo, Harold Bloom e la teoria del canone, il secondo Amado, quello della Bahia pittoresca, Vargas Llosa e Nabokov. Amava invece Ricardo Piglia, John L. Ortiz, I sette pazzi di Arlt, Martinez Estrada, Onetti, Antonio Di Benedetto… I suoi riferimenti erano i classici: Flaubert, Joyce, Faulkner, Proust, Beckett. Per Borges nutriva un grande rispetto: non condivideva la sua convinzione che non si potessero scrivere romanzi senza riempitivi, senza ghiaia, ma da lui ricavò quest’aspirazione alla massima densità.

Speciale Walter Siti – prima parte

Ieri sera Walter Siti ha vinto il Premio Strega con Resistere non serve a niente (Rizzoli). Dedichiamo la giornata a uno speciale sullo scrittore, iniziando da una recensione di Nicola Lagioia su Troppi paradisi uscita nel 2006 sulla rivista Lo straniero.

Italia, televisione, mutazione: un grande romanzo di Walter Siti

Troppi paradisi di Walter Siti è uscito da Einaudi in periodo semiclandestino (limitatamente all’economia editoriale, luglio è tra i mesi più crudeli…) ed è imprevedibilmente balzato agli onori delle cronache per ragioni miserevolmente prevedibili: nel libro si parla del basso impero televisivo targato Rai e Mediaset ed è recente lo scoppio di vallettopoli. Ma questo, probabilmente uno dei più interessanti romanzi italiani degli ultimi anni, è grazie al cielo irriducibile al sottogenere giornalistico del “caso editoriale”. Chi è stato attratto in particolar modo dall’onomastica vip (nomi e cognomi di produttori, presentatori, tronisti e starlette spietatamente intercambiabili) lo ha fatto per opportunità di redazione o per difficoltà di messa a fuoco: lo specchio per le allodole non rifletteva questa volta un ologramma ma l’ombra di ciò che è destinato a resistere al tempo.

Intervista a Domenico Starnone

Questa intervista è stata pubblicata originariamente nel magazine di minimum fax per l’uscita di Fare scene. Oggi che Fare scene torna in libreria con un capitolo inedito, ve la riproponiamo in occasione del settantesimo compleanno di Domenico Starnone e gli facciamo i nostri migliori auguri.

Trovo che una delle migliori armi messe a disposizione del lettore in Fare scene sia l’antiretorica che pervade, in maniera diversa, Primo e Secondo tempo. Provo a spiegarmi. La seconda parte, quella in cui l’io narrante sceneggiatore adulto alimenta suo malgrado l’entertainment nostrano, vale a dire un mondo fatto di volgarità, ipocrisia, bugie, violenza psicologica e soprattutto brutti film, è anche quella in cui quello stesso uomo sembra prendere finalmente coscienza del tempo e della condizione in cui siamo tutti immersi. Guy Debord negli anni Settanta parlava di “società dello spettacolo”. Harold Bloom oggi paventa l’arrivo di una “teologia audiovisiva”. Al contrario, la prima parte del libro (quella in cui il protagonista bambino nutre la propria educazione sentimentale nelle sale cinematografiche napoletane del dopoguerra), lungi dall’essere un quadretto d’epoca edificante, può forse essere inteso come una sorta di cavallo di Troia infilato nei nuovi cinema paradiso di tutte le latitudini e cronologie. Insomma, sembra quasi che tu voglia dirci che l’immagine in movimento (cinematografica, e poi televisiva) ha o meglio ha sempre avuto qualcosa di ingannevole. È così?

Tutte le forme della rappresentazione, a conti fatti, hanno qualcosa di ingannevole, altrimenti non sarebbero forme ma la realtà stessa.  Si potrebbe fare una storia della letteratura concentrandosi solo sulle strategie messe in atto dagli scrittori ora per ridurre al minimo la  natura ingannevole delle forme, ora invece per accentuarla, e le due linee di tendenza, a ragionarci, non sempre risulterebbero nemiche l’una dell’altra, anzi. In entrambi i casi si tratta di simulazioni del reale, ora ottenute con effetti di realismo, ora con effetti derealizzanti. Il problema quindi non è l’ingannevolezza delle forme ma il loro potere, la loro capacità di suggestione di massa. L’immagine, si sa, ha sempre avuto una grande forza, considerato che sintetizza cose e corpi con l’apparenza delle realtà viva. Se poi è aiutata dalla parola (iscrizioni, didascalie, battute chiuse nel fumetto), l’effetto di vita vera si centuplica. L’energia propria dell’immagine, dunque, con l’avvento del cinema muto, del cinema parlato, della televisione, della diretta televisiva, della rete, è esplosa a livelli prima impensabili. E con essa la complessità anche etica della rappresentazione, visto che ormai il virtuale è parte imprescindibile di ciò che chiamiamo reale, ci plasma le teste e il modo di ordinare la nostra vita.

I barbari e la peste

Questo articolo è uscito sul numero di Novembre della rivista Lo Straniero.

di Nicola Lagioia

Invasioni barbariche e fine della civiltà sono due paure che la cultura occidentale coltiva in maniera talmente ricorsiva – e spesso con tale voluttà – da far venire il sospetto che siano a essa addirittura costitutive. Perennemente scisso tra la brama paranoide di annichilire tutto ciò che è diverso da sé e il desiderio inconfessabile di un crollo rigeneratore

Critica da toccata e caduta: prove di testamento di Bloom

di Marco Pacioni Com’è noto, gli angeli volano e si recano istantaneamente nei luoghi più lontani e diversi. Forse per questo hanno facilità a comparire in tante religioni, culture e forme d’arte. In molti hanno provato a seguirne il percorso e ad assumerne il punto di vista per capire di più le cose degli uomini. […]

I sette peccati capitali della critica italiana

Una sezione della rivista Lo Straniero del mese corrente è dedicata allo stato di salute della critica. Mi è stato chiesto cosa ne pensavo dell’argomento. Questo è il mio contributo. Relativamente alle faccende di creatività quando non addirittura di genio, ho sempre detestato gli apparati prescrittivi validi a priori. I «si scrive così o cosà», […]

James Ballard. Uno sciamano per l’apocalisse contemporanea

Il 2009 è stato anche l’anno in cui James Ballard ci ha lasciati. Oltre che un’eredità, le sue opere rappresentano un interrogativo aperto su un argomento che credo ci terrà impegnati ancora a lungo: la presunta fine dell’umanesimo e del concetto di uomo come avevamo imparato a conoscerlo dal Rinascimento in poi. Questo, un mio […]