Il “Belpaese” come malattia percettiva
Questo articolo è uscito sul n. 20, Speciale Estate, di Artribune
Il paesaggio italiano, come ha affermato in più occasioni Marco Belpoliti, è sempre stato una quinta, un fondale: è esistito come rappresentazione, e al tempo stesso come scena di questa rappresentazione umana. (È questa, per esempio, una delle grandi differenze rispetto al paesaggio nordico o americano, in cui la natura sovrasta e sopravanza di gran lunga la dimensione del singolo e della sua percezione.)
Eppure, con tutto questo non ci potrebbe essere quasi nulla di più lontano dall’idea di location, set cinematografico: l’identità intimamente “teatrale” di questo paesaggio non ha nulla a che vedere con la cartolina, o la ‘cartolinizzazione’. Essa è connessa alla storia, all’antropologia, e ancora di più a quella che Pasolini chiamava la “forma della città” (in un famoso documentario televisivo trasmesso nel 1974), e “il corpo dell’Italia” cioè il suo paesaggio e i suoi paesi: “I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi”[1].
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