Le sottoculture come modello per un futuro di comunità

Questo pezzo è uscito su Che-Fare.

How a culture comes again, it was all here yesterday
And you swear it’s not a trend, doesn’t matter anyway

Nirvana, Aero Zeppelin, 1988

un addio con il rock
la foto di un cuore di carta un cuore fatto con un
manifesto per concerto appallottolato
sarebbe ora di mettersi il cuore in pace
con grande dispiacere di molti siamo di nuovo all’anno zero

Nanni Balestrini, Blackout (1979)

 

I.

Il modello ideale per gestire la “transizione” italiana attuale, per predisporre un immaginario più coerente e funzionale di quello vigente, e soprattutto per far sì che le dimensioni dell’innovazione culturale, politica, sociale, economica finalmente si sostengano a vicenda rimane sempre e comunque quello delle sottoculture: qualcosa che il nostro Paese, non a caso, ha conosciuto a differenza di altri finora in forma unicamente embrionale e subliminale.

Mars Volta. Una storia di confini

Questo pezzo è uscito su inutile.

di Fabio Deotto

Quella dei Mars Volta è  la storia di un miracolo creativo fiorito su una precaria linea di demarcazione tra generi e culture da sempre considerati inconciliabili, un azzardo che per dodici anni ha frantumato stilemi alimentandosi delle proprie stesse contraddizioni. Ma prima ancora di essere una storia di confini violati, quella dei Mars Volta è una storia di confine.

Il confine, a voler essere precisi, è quello tra Messico e Texas. El Paso è una metropoli aggrappata alle rive del Rio Grande, una sorta di oasi urbana circondata dal deserto texano e situata a uno sputo da Ciudad Juarez (per capirci, è il posto in cui Tarantino ha ambientato il casus belli di Kill Bill). La storia dei Mars Volta comincia qui, probabilmente in un pomeriggio del 1990, quando un ragazzino di quindici anni di origini portoricane, Omar Rodriguez Lopez lascia perdere lo studio del basso elettrico e imbraccia per la prima volta una chitarra («Avevo bisogno di più corde» spiegherà a carriera inoltrata).