Umberto Eco, un grande italiano
È mancato ieri sera Umberto Eco, intellettuale e scrittore italiano tra i più noti e apprezzati al mondo. Ripubblichiamo quest’intervista apparsa originariamente sul Venerdì, basata sulla sua esperienza del Gruppo 63.
Un intero scaffale. Nella biblioteca di Umberto Eco – immensa, una Babele affascinante, l’Eden sognato e immaginato da qualsiasi amante dei libri – la letteratura sul Gruppo 63 occupa un bel po’ di spazio. Eppure nessun libro restituisce la risata, piena e fragorosa, dello scrittore quando ricorda quell’esperienza. Questo movimento letterario, definito di neoavanguardia per distinguerlo dalle avanguardie storiche, nasceva ben cinquant’anni fa. Il suo carattere di sperimentazione faceva il paio con le polemiche, incandescenti, che riuscì a innescare. Una su tutte: Carlo Cassola, Vasco Pratolini e Giorgio Bassani, scrittori già noti e consacrati dalla fama e ironicamente bollati come “Liale”, sprezzante richiamo ai romanzetti rosa firmati Liala. Robe da salotti letterari, si dirà. Se non fosse però che alcuni membri del Gruppo 63 saranno destinati a diventare fra i maggiori protagonisti della cultura del Novecento.
Il nuovo libro di Johnny
Questo pezzo è uscito sul Mucchio.
“È come se chi è diventato adulto negli ultimi vent’anni in Italia fosse cresciuto in un tempo postumo”, scrivono – con qualcosa che definirei come “cognizione di causa” – Alessandro Gazoia e Christian Raimo nell’introduzione all’antologia che hanno curato selezionando alcuni tra gli scrittori italiani under 40 più brillanti. Del resto già nel 1992 Francis Fukuyama (attenzione, di professione economista) aveva espresso una sentenza tanto definitiva quanto irriguardosa: siamo alla fine della storia. La tesi ha subìto confutazioni e vari ripensamenti; di sicuro c’è che qualcosa, in questo mondo in bancarotta, continua a muoversi… E in ogni caso vedremo come andrà a finire, è il caso di dirlo.
Il libro di Johnny: l’epica secondo Beppe Fenoglio
Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica.
È una delle opere più straordinarie fra quelle prodotte dalla letteratura italiana del Novecento eppure è rimasta per quasi sessant’anni sepolta nell’oblio, perduta nella dimenticanza in cui finiscono certe grandi incompiute, obliterata da una serie di contingenze finalmente spazzate via. Oggi appare con un titolo biblico e soprattutto epico. Poiché epico fu il lungo romanzo a cui Beppe Fenoglio lavorò come alla sua opera più ambiziosa e che, per questioni editoriali, non vide mai la luce. S’intitola Il libro di Johnny (a cura di Gabriele Pedullà, Einaudi, pp. LXXXI e 791). È la pubblicazione più importante dell’anno. Ma per capirne la portata dobbiamo cominciare da lontano.
Ricordare Rina Durante
Rina Durante è stata molte cose. Scrittrice, poeta, saggista, giornalista, “militante” culturale appartenuta a una stagione forse irripetibile della letteratura salentina, e più in generale pugliese. Rina morì nel dicembre del 2004, nove anni fa, e negli ultimi anni della sua intensa vita collaborò assiduamente al “Corriere del Mezzogiorno”.
Il suo articolo più bello, forse, è un lungo racconto dedicato alla “sua” isola, Saseno. Figlia di un sottufficiale di marina, Rina Durante aveva trascorso l’infanzia nell’isola che fronteggia il golfo di Valona, allora controllata dagli italiani. E, come ricordato nel film “L’isola di Rina” di Caterina Gerardi, in seguito ha tenuto sempre racchiuso dentro di sé, come un pungolo, questo peculiarissimo trascorso albanese e marinaro, la sua stramba infanzia tra le ginestre, che le permetteva di avere uno sguardo levantino, esterno, quasi di sbieco – si potrebbe dire – rispetto alle faccende umane. Uno sguardo pienamente figlio del Canale d’Otranto, dei suoi intrecci e del suo meticciato culturale, che tanto ha segnato anche un’altra scrittrice che lei ha amato, Maria Corti. Ma nei suoi ultimi articoli per il “Corriere” Rina (che aveva a lungo scritto anche sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” e sul “Quotidiano”) si occupò anche d’altro, disegnando via via una costellazione di interessi e punti fermi, alla luce della quale indagare il nostro presente.
Il romanzo e la Storia
Pubblichiamo un articolo di Alessandro Leogrande, uscito sul Corriere del Mezzogiorno, su L’ora di tutti di Maria Corti.
Quando spiffera il vento per le stradine di Otranto immerse nell’umido del mare e nelle chiacchiere della gente, è possibile ascoltare la voce dei personaggi di Maria Corti. L’ho pensato qualche settimana fa, passeggiando da solo per il centro della città idruntina, sollecitato dalla coincidenza di un doppio anniversario. Quest’anno ricorrono i dieci anni dalla scomparsa della scrittrice, e i cinquanta dalla pubblicazione per Feltrinelli del suo capolavoro, “L’ora di tutti” – circostanza ricordata in un’ottima sezione critica pubblicata sull’ultimo numero della rivista “l’immaginazione”, edita da Manni.
In nome di cosa continuiamo a sentirci migliori?
Che cos’è il potere? Se un giorno mio figlio dovesse rivolgermi questa domanda, dilaniato dagli scrupoli, finirei per dargli una risposta evasiva. Per evitare condizionamenti di qualsiasi genere, formulerei un aforisma prêt-à-porter, un esercizio pedagogico interlocutorio in attesa che cresca: Il potere, figliolo, è la cosa che cerca in tutti i modi di impedire la tua espressione personale e professionale, qualunque cosa o persona ti scelga come nemico. Inventerei qualcosa del genere, senza fare nomi e senza chiamare in causa i massimi sistemi. E comunque eviterei accuratamente di prospettargli la possibilità di cambiare le cose. A questo mio figlio che non esiste ancora cercherei infondere disillusione a priori. Quella che io, durante la mia infanzia, non ho avuto. Perché ho sempre saputo da che parte stare fino a che non è arrivato il futuro.
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