Il grande romanzo delle città italiane

Questo pezzo è uscito su Repubblica, che ringraziamo.

«E il viaggiatore d’oggi può predisporsi a esplorare gli angoli paesaggistici più riposti e intatti che ci siano in Italia, risalendo la Valnerina verso i mitici monti della Sibilla». A leggerle oggi queste parole di Attilio Brilli mettono i brividi: ci voleva un terremoto devastante per svelarci, e contemporaneamente rubarci, l’altra faccia del nostro Paese.

Restituire l’Italia agli italiani attraverso lo sguardo dei più celebri visitatori è esattamente il progetto de Il grande racconto delle città italiane (il Mulino 2016), un libro sontuosamente illustrato e magnificamente scritto da uno dei più profondi conoscitori della letteratura di viaggio europea dell’età moderna.

Era il 1858 quando Carlo Cattaneo scrisse che «la città è l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua»: i resoconti dei viaggiatori che Brilli seleziona, antologizza e monta in una narrazione avvincente rendono visibile questa intuizione, almeno per il tratto che va dal Settecento fino quasi all’oggi. E, anche grazie al sostegno dello sceltissimo apparato iconografico, questi testi rari e preziosi vengono offerti in nutrimento a nuovi, moderni visitatori decisi a non arrestarsi alla superficie dei «grandi attrattori turistici».

Il canone (americano) di Harold Bloom

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica, che ringraziamo (fonte immagine).

Prima di parlare del Sublime, tema molto caro al vetusto e controverso principe dei critici Harold Bloom, bisogna dar conto di qualche mediocrità. L’anno scorso, appena uscito negli Stati Uniti il suo The Daemon Knows: Literary Greatness and the American Sublime, è partita la solita zuffa. Tagliando e incollando qualche riga estrapolata dal ponderoso tomo, Vanity Fair ha presentato i dodici autori americani che a parere di Bloom incarnano «lo sforzo incessante di trascendere l’uomo senza rinunciare all’umanesimo»: Whitman, Hawthorne, Melville e compagnia di defunti maschi bianchi (con l’eccezione di Emily Dickinson).

Dov’è Bill? Appunti su William T. Vollmann

(fonte immagine)

di Marco Drago

William T. Vollmann per me è un bel problema, e non solo per me, sia chiaro. Lo è un po’ per tutti un bel problema, William T. Vollmann. Temo – è una battuta – che sia un bel problema anche per William T. Vollmann.

Sono in una inedita condizione di doppia lettura (o lettura parallela) di due suoi libri, Riding Toward Everywhere (2008) e Kissing the mask (2010). Il primo – per quel che ho capito, sono all’inizio – parla di lui che si unisce a tre tizi che passano il tempo prendendo passaggi dai treni merci. Passaggi illegali, ovviamente. Gente che, in piena notte, salta al volo su un lunghissimo treno di vagoni aperti carichi di tronchi appena tagliati e si fa tutta la California senza motivo. Train hoppers, quelli che un tempo si chiamavano hobos. Una specie di sottocultura con personaggi e mitologie interne che farebbero gioire Bob Dylan. È un libro breve, per essere stato scritto da William T. Vollmann (Bill da qui in avanti) e contiene 65 pagine di fotografie scattate da Bill durante i vagabondaggi. L’altro libro di Bill che sto leggendo, invece, l’ho quasi finito, è lunghissimo, e parla delle maschere del teatro noh giapponese. E di femminilità. E delle donne asiatiche (una fissa di Bill). E poi parla di tante di quelle cose che ci vorrebbe una tesi di laurea per cercare di sviscerarlo tutto.

Twain dall’oltretomba

Questo pezzo è uscito su Il Foglio.

Oltre mezzo milione di parole, una pila di fogli alta tre metri, duecentocinquanta dettature: negli Stati Uniti è più di un secolo che provano a raddrizzare le gambe a questo cane pazzo. Il signor Samuel Langhorne Clemens ha tentato l’impresa per quasi quarant’anni, senza riuscirci del tutto: e viene difficile non arrendersi se si pensa che il suddetto signore era il più titolato a farlo, che tutto quel materiale l’aveva prodotto lui, che quella che stava scrivendo era L’autobiografia di Mark Twain e che Mark Twain era lui stesso. Ovvero l’autore di Huckleberry Finn, Le avventure di Tom Sawyer e una mole imbarazzante di altri testi; ovvero il padre della letteratura americana, secondo la celebre definizione di Ernest Hemingway. Ci provò dal 1870 fino al 1905 e fallì. Ricominciò nel 1905 e andò avanti fino al 1909 e quello che costruì fu uno dei più grandi puzze letterari di ogni tempo. Nella sua ultima incarnazione americana, un volume accademico con oltre 200 pagine di note, ha venduto più di mezzo milione di copie. Quell’edizione, sfrondata e asciugata, l’ha tradotta ora Salvatore Proietti per Donzelli.

Cento anni di Malamud!

Il 26 aprile 1914 nasceva Bernard Malamud. Pubblichiamo la prefazione di Alessandro Piperno a L’uomo di Kiev.

di Alessandro Piperno

Non avevo ancora compiuto nove anni quando mio fratello mi mise al corrente di ciò che Hitler, una trentina d’anni prima della nostra nascita, aveva fatto agli ebrei. Il dato strano è che quella spaventosa rivelazione non mi indignò. Forse perché l’indignazione è preclusa ai bambini. Ciò che provai fu soprattutto terrore. Un terrore vago che non aveva niente a che vedere con la paura della morte. A nove anni, la morte, tanto più se non ha ancora lambito il piccolo confortevole mondo che ti protegge, è un evento astratto e implausibile. A terrificarmi, almeno stando alla dettagliata relazione di mio fratello, era il calvario di cui la morte rappresentava l’epilogo. Un crescendo ineluttabile: la diffidenza degli altri, la delazione, la discriminazione, le confische, la perdita dei diritti civili, l’isolamento sociale, la clandestinità, la deportazione, l’esclusione dagli affetti indispensabili (mamma e papà), la nostalgia straziante per tutto quello che hai perduto, le privazioni materiali, le torture fisiche, il sacrificio dei capelli e della dignità, la fame, la sete, il freddo, l’emorragia di fluidi corporei.

Intervista a Chuck Rosenthal

Questa intervista è uscita su Repubblica Sera.

Le vie della letteratura sono infinite. E Chuck Rosenthal, 63 anni, prolifico scrittore outsider americano, da tempo percorre una strada personale, quella del “giornalismo magico”, che racconta la società contemporanea attraverso narrazioni metaforiche. Una strada che lo ha portato in Italia, dove finora era stato tradotto solo il suo Elena delle stelle (1997). È infatti uscito per l’editore Mattioli 1885 A ovest dell’Eden (West of Eden, trad. it. di Nicola Manuppelli, pp. 245, € 17,90), una storia travolgente, difficile da riassumere, che esplode in tante direzioni tra humour, tragedia e risate. Il protagonista è Shark Rosenthal, scrittore, personaggio in parte autobiografico, con una moglie poetessa, Diosa, e una figlia di nome Gesù convinta di essere davvero il figlio di Dio in versione femminile, il che crea problemi al padre Shark, che si muove tra Hollywood, Malibou, Topanga Canyon e guida il lettore nella Los Angeles del ventunesimo secolo, fra business del cinema e letterario, poeti e santoni, hippies e fanatici di Scientology, con attori in crisi di nervi che ricorrono alla New Age. Persone sconosciute e vip stile Robert Downey jr., Mel Gibson e Sting si rincorrono in (dis)avventure di ogni tipo, di cui l’aggettivo “surreali” esprime bene la follia.

Il battello di Melville e la scialuppa di Crane

Questo pezzo è uscito su Europa.

Scampati a un naufragio, un gruppo di uomini sono a bordo di una scialuppa in mezzo al mare che ringhia: «È in una scialuppa lunga dieci piedi che ci si può davvero rendere conto della grandiosità del mare».

Scorgono all’orizzonte una linea di terra, ma è così lontana che forse sarà irraggiungibile: «Pensa che ce la faremo, capitano?». Altri uomini, stavolta a bordo di un battello, navigano il fiume Mississippi: «L’impetuoso Mississippi s’allarga, scorre scintillando e gorgogliando».

Come le città, anche la letteratura si sviluppa in presenza dell’acqua, che si tratti di oceani in tempesta o di dolci itinerari fluviali. I due gruppi sono protagonisti di due romanzi usciti ora in libreria, e che sono stati pubblicati a pochi decenni di distanza, nell’Ottocento. Il primo è il libro di Stephen Crane, La scialuppa. E altri racconti (Elliot, pp. 320, euro 18,50) nella versione del 1898; il secondo è quello che fu l’ultimo romanzo di Herman Melville, L’uomo di fiducia (edizioni e/o, pp. 352, euro 16), del 1857.

Comunisti d’America, rivoluzionari di carta

Pubblichiamo un articolo di Riccardo Staglianò uscito sul Venerdì di Repubblica.

di Riccardo Staglianò

New York. La rivoluzione sarà rilegata. Alla Barnes&Noble di Union Square, la libreria il cui caffè si trasforma spesso in temporanea base operativa per anarchici e socialisti newyorchesi, il nuovo pantheon siede immobile sullo scaffale delle riviste. I neonati Jacobin e The New Inquiry. L’adolescente n+1. L’anziano ma rinvigorito Dissent. Per citarne solo alcuni, tacendo della collana Pocket Communism della gloriosa Verso, portabandiera della New Left britannica, a pochi metri di distanza tra i libri. La sinistra è morta, viva l’editoria di sinistra. Rianimata da editor ventenni, per un pubblico (mentalmente) giovane, che vuol fare di tutto per smentire la profezia del pur amatissimo Slavoy Žižek su Occupy Wall Street: «I carnevali costano poco. Quello che importa è il giorno dopo». Loro ci sono ancora. Nonostante le varie dichiarazioni di morte presunta, come quella che si desume da un utile rapporto del locale istituto Rosa Luxemburg: «La sinistra (americana) è dura da trovare e ancor più da definire». Soprattutto se sei europeo, abituato all’equivalenza tra politica e partiti. Che qui conduce solo a frustranti aporie.

Ritorno a Odessa (e a Brighton Beach)

Questo pezzo è uscito su Europa. (Immagine: Anno Matthias Henke)

Era «una San Pietroburgo in miniatura», secondo un visitatore inglese dell’800. «Una copia dell’America», secondo Mark Twain, che la visitò nel 1867. È stata un focolaio di intrighi politici e il porto da cui salpavano più di mille navi all’anno, nella fase di massimo splendore. E ancora, alternativamente, è stata «un covo fatiscente di povertà» e un «luogo magico per la musica e per la nostalgia». La storia della città di Odessa è un vorticoso avvicendarsi di prodigi e violenze: l’idillio cosmopolita che la rese un modello di integrazione sparì per la cieca brutalità dell’antisemitismo. L’epopea di questa controversa utopia arroccata tra il Mar Nero e la steppa russa è ora raccontata da Charles King nel libro Odessa. Splendore e tragedia di una città di sogno (Einaudi, pp. 322, euro 30).

Non c’è luogo migliore per osservare come opera la Storia che leggere i resoconti delle grandi città. È qui che la Storia si spoglia della retorica e si manifesta nella sua essenza più tangibile. Si realizzano scalinate monumentali, svettano le cupole, si scolpiscono statue e si danno i nomi alle vie, e poi la Storia cambia registro, si distruggono i teatri, si incendiano le botteghe, i simboli imperiali vengono sostituiti con emblemi nuovi. In base alle fasi politiche, a Odessa si giocava a whist fino a notte fonda oppure si impilavano cadaveri sanguinanti di turchi sugli estuari gelati. In certi anni, i suoi caffè erano affollati di russi abbronzati, e in altri le sinagoghe venivano chiuse. Le città insegnano che la Storia edifica, apre parchi, allarga i viali e poi riscrive il passato, all’infinito. Il lettore di Charles King assiste così alle epoche che si sfarinano insieme ai quartieri.

Alessandro Piperno racconta Saul Bellow

Arriva oggi in edicola il numero cinquantacinque di IL, il magazine del Sole 24 Ore. Pubblichiamo un articolo di Alessandro Piperno uscito a dicembre 2012 ringraziando l’autore e la testata. (Fonte immagine)

di Alessandro Piperno

Prendete i soldi. Un tempo c’erano i soldi. Non facevi a tempo ad aprire un romanzo senza essere letteralmente sommerso da montagne di quattrini. Balzac ci informa pedissequamente sulla solvibilità di ciascun personaggio. Lo stesso Tolstoj, con tutto il suo aristocratico riserbo, è molto sollecito nel rivelare la situazione patrimoniale dei suoi eroi. I soldi, nel cosiddetto romanzo borghese, hanno un ruolo così determinante che molto spesso offuscano le faccende romantiche; o quanto meno le affiancano: come nel caso della Signora Bovary.

Dire che la povera Emma si ammazzi perché oberata dai debiti è un’imprecisione. Ai debiti bisogna aggiungere il senso di delusione e di beffa suscitato in lei dal contegno pusillanime dei suoi amanti (entrambi spilorci). Ma è comunque un fatto che i soldi c’entrino. Così come c’entrano nel delitto compiuto da Raskolnikov e nel revanscismo amoroso di Jay Gatsby. Ma oggi? Chi è disposto a scrivere di soldi oggigiorno? Perché gli scrittori contemporanei nelle faccende pecuniarie si mostrano così avaramente reticenti? E perché nessuno gli rimprovera tale omissione? Basterebbe interrogare le nostre tasche sfibrate per capire che non c’è argomento più impellente. Dov’è finito il fantastico biglietto da un milione di sterline di Mark Twain, e le monete d’argento carezzate da un bieco usuraio dickensiano?

Il denaro, nella maggior parte dei romanzi contemporanei, appare solo per biasimare chi ne ha troppo, o per compatire chi non ne ha abbastanza. Ma la poesia del denaro, be’, quella è scomparsa. Sostituita da una specie di ascetismo puritano. È a questo che penso, in un’associazione di idee non proprio lineare, mentre mi arrovello sulla ragione per cui i lettori contemporanei snobbano uno scrittore del calibro di Saul Bellow. Lui era uno che credeva nella corsa all’oro. Lui che quella corsa all’oro l’aveva intrapresa con successo. Sono trascorsi pochi anni dalla sua morte: sembra passato un secolo. Non che venga ufficialmente disdegnato. Anzi, può ancora capitare di imbattersi in qualcuno che te ne parla con finta devozione.