Le tasche piene di parole: “Gita al fiume” di Olivia Laing
«La donna segnata, l’amore perduto» sono due elementi fondamentali del primo libro di Olivia Laing. La donna che, nel tentativo di superare la fine di una relazione, intraprende un viaggio per recuperarsi e riconnettersi al suo io più profondo attraverso il contatto con la natura e la morbosa contemplazione che ne scaturisce. Ma ridurre a questo Gita al fiume (pubblicato da poco dal Saggiatore con la traduzione di Francesca Mastruzzo e Giulia Poerio) sarebbe limitante, perché il pretesto amoroso non totalizza né inquina la scrittura: se mai, contribuisce a generarla. E così anche la donna – spezzata e abbandonata – è sì il motore dell’opera, ma al contempo soltanto uno dei molteplici elementi che la compongono: una ricchissima indagine sul paesaggio in forma narrativa, un saggio botanico, storico e antropologico, un memoir e uno studio sulla scrittura.
We need to talk about Brexit (again)
Brex-lit è una categoria trans-genere che raccoglie sotto di sé testi ascrivibili ai generi letterari più vari – dal romanzo sperimentale a quello di idee, dalla satira alla distopia, dal romanzo realista a quello più prettamente postmoderno – che in maniera più o meno diretta riflettono sulle cause o le conseguenze causate dagli esiti del referendum.
La definizione è sufficientemente generica perché la lista di testi che compongono questo corpus possa allungarsi ogni settimana; basta infatti che in qualche modo si intraveda l’ombra di un riferimento al referendum perché il romanzo possa essere associato a questo sottogenere. Che si tratti del quartetto di Ali Smith, di The cut di Anthony Cartwright, Crudo di Olivia Laing, Middle England di Coe, The man who saw everything di Deborah Levy, The cockroach di Ian McEwan, Reservoir 13 di McGregor, Kudos di Rachel Cusk (giusto per citarne alcuni, ma la lista sarebbe lunghissima), sembra infatti impossibile per i romanzi ambientati nel presente contemporaneo inglese evitare di alludere alla fatidica data del 23 giugno 2016.
La solitudine è una città con le luci accese
È uscito in Italia, per Il Saggiatore, Città sola di Olivia Laing, nella traduzione di Francesca Mastruzzo. Pubblichiamo un pezzo apparso originariamente su The Towner, che ringraziamo.
C’è Arthur Rimbaud in mezzo al marciapiede della 7th Avenue: sullo sfondo si riescono ancora a leggere i titoli dei film usciti quell’anno al cinema; James Bond al New Amsterdam e Amytiville Horror all’Harris, sono Rated X quelli del Victoria. È il 1979, è New York e la foto è una delle tante scattate da David Wojnarowicz prima di morire di Aids, giovane, infelice. Il giorno del suo funerale, il 29 luglio del 1992, un mercoledì, centinaia di persone si radunano nell’East Village, bloccando il traffico; un cartellone annuncia: DAVID WOJNAROWICZ 1954-1992 DIED OF AIDS DUE TO GOVERNMENT NEGLECT.
Di tutte le storie che racconta, la sua è quella a cui continuo a tornare quando finisco Città sola; il saggio di Olivia Laing parla di solitudine, di città e di arte contemporanea e di come questi elementi si combinino; di cosa significa essere soli in una metropoli e di come sia difficile dire davvero qualcosa di questa condizione.
Vivere e lavorare alla Shakespeare & Company di Parigi
Dal nostro archivio, un pezzo di Sara Marzullo apparso su minima&moralia il 4 ottobre 2016.
È in una sera di fine giugno che Julia mi invita a cenare con gli altri tumbleweed nell’appartamento che un tempo era stato di George Whitman. Da un po’ a questa parte lo hanno messo a disposizione dello staff e dei ragazzi che dormono tra i libri, perché abbiano un posto dove cucinare; in questa stagione il tramonto arriva tardissimo e fuori dalla finestra Notre Dame è splendida come sono splendide le cose che non paiono mai vere.
Sotto il tavolo c’è Aggie, la gatta chiamata come Agatha Christie che un giorno è apparsa nella sezione dei gialli e che ha finito per essere adottata dalla libreria; se questa non fosse un’immagine davvero troppo stucchevole, direi che chiunque qui si sente come quel gatto: una volta che impari a muoverti in mezzo a quegli scaffali, andarsene diventa difficile.
Cos’è Kafka? Un’indagine
Una versione ridotta di questa recensione è uscita sul Mucchio, che ringraziamo.
C’è un’opera di Andy Warhol che non conoscevo, finché non ho letto Olivia Laing parlarne in The Lonely City: Laing racconta che l’artista dei party aveva raccolto per anni gli oggetti e i detriti che le persone si erano lasciati dietro – vestiti, orecchini spaiati, un pezzo di pizza, i biglietti della metro che avevano ricoperto il pavimento della Factory – e li aveva sigillati in seicentodieci scatole, le sue Time Capsule. Non c’è personaggio più lontano da Kafka di Andy Warhol; tra l’alto e sgraziato scrittore di Praga e l’inventore delle celebrità non c’è praticamente niente in comune (anche se leggendo le rispettive biografie viene da dire che tra il desiderio di essere ovunque e quello di non essere affatto, non c’è poi grande differenza), eppure Questo è Kafka? segue lo stesso desiderio nascosto in ognuna di queste identity box, ricordare che certe figure una volta erano state persone, che avevano vissuto, come tutti.
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