Mezzanotte Strega

di Christian Raimo

Ora che la competizione è finita, svoltasi anche quest’anno con il discutibile gentlemen’s agreement (chiamiamolo così?) tra editori, si può parlare in maniera forse più distaccata del Premio Strega. L’ha vinto, come sapete, il libro di Edoardo Nesi, Storia della mia gente, edito da Bompiani. Il libro di Nesi è subito schizzato in vetta alle classifiche, dopo mesi di ricezione molto distratta.

Premi, Grant e cattedre: idee per il mestiere di scrivere in Italia

Vi proponiamo un intervento di Giordano Tedoldi apparso come commento a questo post, perché riteniamo che la sua proposta, diretta e operativa già nel discorso, abbia valore autonomo.

di Giordano Tedoldi

Le questioni che si parano davanti ai professionisti della cultura, oggi, sono molteplici e non tutte armonizzabili. Si può però affondare una sonda in ciascuna arte e vedere quali liquami emergano.

Luca, sfatiamo un equivoco? Se uno scrittore cerca delle amicizie con altri scrittori, il doppio fine spesso è quello di sentirsi meno solo, non quello di creare una piccola cricca di potere.

di Christian Raimo Qualche giorno fa, all’indomani della premiazione dello Strega, esce l’articolo riportato qui sotto, scritto sul Corriere della Sera da Luca Mastrantonio nella pagina della cultura. Io lo leggo, anche perché mi cita, e non lo capisco. Leggetelo anche voi; e poi, se volete, alla fine della lettura, provate a rispondere a delle […]

Settanta acrilico trenta letteratura: però strega!

Il romanzo d’esordio di Viola Di Grado procede letteralmente per picchi e precipizi. Si intitola Settanta acrilico e trenta lana ed è il romanzo che la casa editrice e/o candida per il Premio Strega 2011. La proporzione tra le virtù di questo testo e le sue irrisolutezze potrebbe essere espressa con le stesse percentuali contenute nel titolo, ma va detto subito che le pur ridotte qualità di questo romanzo hanno la forza di far distogliere l’attenzione dai suoi difetti. L’assoluta freschezza irregolare della scrittura di Viola Di Grado e il suo sguardo spiazzano il lettore al punto da corromperlo, e indurlo a perdonarle moltissimo, addirittura a perdonarle tutto.
La scrittura di Settanta acrilico trenta lana è alterata, predilige colori saturi, è costruita con immagini che si accendono come flash, uno dopo l’altro, ora generando lampi fastidiosi, ora sprigionando bagliori rivelatori. Ambientato nell’oscuro paese di Leeds, in Inghilterra, il romanzo racconta un breve arco di tempo della vita di Camelia, una ragazza affamata di vita che dopo la morte traumatica del padre vive con la madre (o meglio la assiste) in una casa piena di dolore e poverissima di parole: madre e figlia comunicano per la maggior parte del tempo semplicemente attraverso gli sguardi. La madre scatta fotografie a buchi e voragini. Camelia trova lavoro come traduttrice di manuali per lavatrici e con il primo stipendio regala alla madre un pappagallo. Si innamorerà presto di Wen, un ragazzo cinese che la inizierà al mondo degli ideogrammi. Quello di Camelia sarà un amore viscerale e non corrisposto tanto che finirà per avere una storia con il fratello di Wen, un ragazzo emotivamente malconcio e psicologicamente borderline.

Come detto, però, le colonne che sostengono la trama sono le atmosfere di un’Inghilterra invernale fatta di kebab e di negozi cinesi, la cupezza sensuale dello sguardo di Camelia, e lo stile che rende i paesaggi (esteriori e interiori) universi distorti e deformi. La lingua di Viola Di Grado è del tutto snodata, come uscita da un corso di yoga. Ciò comporta a volte una tendinite del linguaggio, alcune immagini sono infatti infelici: «il cielo è soltanto un remake a basso budget dei suoi occhi», «Il sole stava tramontando con la sua solita lentezza da gentleman», oppure «Un sole carnoso come un petto di pollo sporgeva a tratti nella grotta». In altri casi invece le immagini sono gradevoli: «La neve aveva cominciato da poco il suo lavoro di annientamento, guardavo dalla finestra le case scomparire come ricordi», o almeno piacevolmente sorprendenti: «Scoprii un sole sguaiato, enorme, rigurgitato misteriosamente da qualche buco dell’inverno», «La testa rossa del sole scendeva a leccare le creste nere degli alberi».