Un libro inattuale: “Tragico tascabile” di Guido Ceronetti
Questo articolo è uscito in forma più breve su Alias / il manifesto. (Fonte immagine) Gli osservatori più lucidi dell’attualità sono, spesso, scrittori radicalmente inattuali. E oggi più di ieri occorre, forse, un certo grado inattualità per non rimanere abbagliati dagli idoli del presente e, dunque, per non soggiacervi. Ecco perché Guido Ceronetti continua a […]
Il teatro di Sabbath, vent’anni dopo
di Leonardo Merlini
“Quando si nasce, si piange perché ci si ritrova su questo enorme palcoscenico di matti”, diceva Re Lear nella omonima tragedia di Shakespeare, e il vecchio sovrano, che vede andare in pezzi la sua vita e con essa, come hanno scritto critici canonici come William Hazlitt e Harold Bloom, lo stesso valore dell’amore familiare, si trova a fare disperatamente i conti con il disvelamento della profondità della miseria umana. Una miseria dalla quale, già nel Bardo, non c’era sostanziale via d’uscita (se non nel racconto che di questa è stato fatto, proprio da quell’autore che siamo soliti chiamare William Shakespeare, ma questa è una risposta come minimo di secondo livello…).
Abbasso Bloom!
Oggi il critico letterario Harold Bloom compie ottantaquattro anni. Pubblichiamo un intervento di Edoardo Pisani.
di Edoardo Pisani
Come il Sainte-Beuve combattuto dal Proust postumo a inizio Novecento, Harold Bloom è considerato da molti uno dei maggiori critici letterari del nostro tempo, forse l’unico accademico a “godere” internazionalmente dello status di Grande Vecchio, di guru della letteratura. Il suo saggio più conosciuto, Il canone occidentale, è spesso letto e invocato quale baluardo estetico contro i critici marxisti o femministi o multiculturalisti o poststrutturalisti delle università americane, da lui definiti con sprezzo critici del Risentimento – quasi che Bloom non sia, a sua volta e più di altri, un risentito! Il canone bloomiano affonda le radici in Shakespeare, “aurora boreale visibile in un luogo che la maggior parte di noi non raggiungerà mai”, in Dante e in Cervantes, per poi innalzarsi e ramificarsi nella letteratura di tutti i tempi, da Montaigne a Milton a Goethe a Kafka, da Whitman a Proust a Borges a Pessoa, delineando influenze e parentele e catalogando senza sosta, costringendo autori e opere in suddivisioni fin troppo progressive, lineari, come se gli scrittori canonizzati dipendessero o l’uno dall’altro o, e per l’autore è senz’altro così, tutti da Shakespeare e da Bloom.
Un festival per raccontare la scrittura e gli scrittori
Dal 18 al 24 maggio a Ravenna si terrà la seconda edizione di Scrittura festival. Pubblichiamo un intervento del direttore artistico Matteo Cavezzali. (Fonte immagine)
di Matteo Cavezzali
C’è chi scrive per raccontare una storia. C’è chi scrive per ammazzare il tempo. C’è chi scrive perché non sa fare altro. C’è chi scrive perché gliel’ha ordinato la maestra. C’è chi lo fa per necessità. C’è chi scrive per dire che è in ritardo, chi per mandare un bacio, c’è chi scrive perché un giorno non ci sarà più. C’è chi scrive per fermare un pensiero sulla carta. C’è chi scrive per non dimenticare, chi per dimenticare. C’è chi scrive prima di andare a letto e chi scrive perché non riesce a dormire. C’è chi scrive perché vuol ricevere apprezzamenti, c’è chi scrive perché non ha paura di farsi odiare. C’è chi scrive perché ha un libro in testa, c’è chi scrive perché vuole essere chiamato “scrittore”. C’è chi scrive perché non ha voce per gridare. C’è chi scrive come terapia. C’è chi scrive perché è innamorato e quella sera c’è la luna piena. C’è chi scrive perché si annoia. C’è chi scrive perché è stonato o non sa disegnare. C’è chi scrive perché si è trovato una penna in mano e un foglio bianco. C’è chi scrive davanti alla finestra, chi sul treno e chi sul water. C’è chi scrive perché il computer non riesce più a connettersi a internet. C’è chi scrive solo per portarsi a letto le ragazze. C’è chi scrive perché ha un rimorso.
Orson Welles e gli aggettivi del mondo
Il 6 maggio 1915 nasceva Orson Welles. minima&moralia oggi gli dedica due interventi: il primo pezzo è di Giordano Meacci ed è apparso nel 2004 sulla rivista Accattone. (Fonte immagine)
Di solito, maggio è il meno crudele dei mesi. Per questo il cielo, infarcito di diverse sfumature di grigio, pesa come una promessa tradita. Sembra formato dalle sfoglie sovrapposte di cartelloni elettorali che hanno preso troppa pioggia: l’azzurro che si affaccia a strappi è talmente imbolsito e monotono da impedire anche di chiedersi che cosa sono le nuvole. Sono a Villa Borghese, a cinquanta metri dal Globe Theatre dove si sarebbe dovuto proiettare l’Othello di Orson Welles.
Mi sfreccia accanto un ragazzo su una buffa automobilina a pedali; quasi investe un ciclista con la barba. Della scena successiva colgo solo frammenti: una camicia sudata, un cigolìo che si allontana senza voltarsi. Guardo le pareti esterne del teatro, in legno; è stato ricostruito seguendo il disegno originale del suo antenato londinese del 1576. Penso allo Shakespeare reinventato da Welles; e intanto le persone, gli alberi intorno, i chioschi, il cartello che parla di “pianta circolare”: tutto assume la forma straniante di una scenografia sospesa.
Le iguane di Vonnegut
L’11 aprile 2007 moriva Kurt Vonnegut. Pubblichiamo un intervento di Giordano Meacci apparso all’epoca sul Riformista. (Fonte immagine)
Due pagine in sequenza della «Repubblica» di qualche giorno fa, il 12 aprile, erano dedicate, rispettivamente, allo scetticismo di papa Ratzinger nei confronti di Darwin e al “paradiso perduto” delle Galapagos per eccessivo “affollamento turistico”. Benedetto XVI (a braccia aperte, sorridente, al balcone) sembrava affacciarsi su un pubblico di iguane marine in posa. Le due pagine, legate – evidentemente – dal barbone profetico di Charles Darwin, davano vita a un accostamento vonnegutiano. E così, sfogliando il giornale, proprio mentre cercavo di esorcizzare la notizia della morte del geniale tabagista di Indianapolis, mi sono ricordato di Leon, il figlio fantasma di Kilgore Trout – lo scrittore di fantascienza alter-ego di Kurt Vonnegut – che in Galapagos descrive un’umanità nuova, inconsapevole della morte e profondamente mutata, parlando dal futuro quasi impensabile di “un milione di anni dopo” il 1986. Esseri umani che hanno ormai perduto la zavorra dei loro “tre chili di cervello” senza i quali «il nostro» sarebbe stato «un pianeta del tutto innocente».
J.J. Abrams e un gioco metaletterario ghiotto (quasi) quanto Lost
Pubblichiamo un articolo di Mariarosa Mancuso uscito sul Foglio ringraziando la testata e l’autrice. (Nella foto, J.J. Adams con George Lucas. Fonte immagine)
L’oggetto affascina, non si discute. Un finto libro antico preso a prestito più volte in biblioteca (nella terza di copertina sono stampigliati i termini per la riconsegna). Uno scrittore (altrettanto finto) di romanzi che hanno fatto tremare governi, sputtanato industriali senza scrupoli e immaginato il totalitarismo: si chiama V. M. Straka, i critici litigano sulla sua identità neanche fosse Shakespeare o Omero. Un traduttore (lui si presenta così) sospettato di essere l’autore dei 19 romanzi di Straka, o almeno dell’ultimo intitolato “La nave di Teseo” (l’unica certezza è che abbia messo mano al capitolo conclusivo).
Arriva qualcuno a raccontarci tutta la storia di un immenso mare, l’Atlantico
Questo articolo è uscito su il Venerdì di Repubblica.
Sfogliamo un atlante. O ancora meglio: prendiamo un mappamondo, osserviamolo, facciamolo girare. Quel che vediamo sono i continenti, le lingue di terra di cui non ci eravamo mai accorti, le catene montuose, le isole, grandi e piccole, i poli, i ghiacci con i loro contorni bianchi, grigiastri, immacolati e misteriosi. Il resto è mare. Mare immenso che è come un buco attorno alla vita. Il mappamondo, in genere, lo dipinge di azzurro. Sfumature ridotte al minimo. Ombre bianche attorno alle terre e nient’altro. Un azzurro nulla senza vita. D’altronde, cosa importa? Tutta quell’acqua è ciò che divide i continenti, ciò che impedisce le comunicazioni. Un ostacolo, insomma. Non dobbiamo saperne poi troppo. Sappiamo i nomi degli oceani, certo, e di alcuni mari, ma sono nomi che contengono il vuoto nulla di quell’azzurro indistinto. Finché non arriva qualcuno a raccontarci tutta la storia di un immenso mare, la storia dell’oceano per eccellenza, l’Atlantico.
Sogni che il denaro può comprare. Il romanzo di Alan Pauls.
Pubblichiamo la postfazione di Giorgio Vasta a Storia del denaro di Alan Pauls uscito in questi giorni per le edizioni SUR. Il romanzo conclude la “trilogia della perdita” dello scrittore argentino, dopo Storia del pianto (Fazi, 2009) e Storia dei capelli (SUR, 2012). (Fonte immagine)
Ricostruire un albero genealogico sostituendo alle ramificazioni familiari i flussi di denaro. Mettere da parte la superstizione ingenua delle storie individuali e dei loro incroci e dare forma a una stirpe collocando semplici transazioni economiche al posto di matrimoni nascite e morti. Pensare alla propria origine come a un investimento, molto probabilmente avventato, a tutta la propria vita come a uno scoperto che la banca ci segnala allarmata ma che si rivela incolmabile (noi versiamo, continuiamo a versare ma lo scoperto non si riduce, al contrario progredisce, si fa abisso).
Le due morti di Jack London
Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica.
Nacque a San Francisco nel 1876 e morì poco lontano, a Glen Ellen, nel 1916. In quei quarant’anni fu quasi tutto. Inscatolatore di lattine, rivenditore di giornali, razziatore di ostriche, poliziotto dei mari contro i razziatori di ostriche, mendicante, marinaio e cacciatore di foche, addetto all’avvolgimento di fili di iuta, vagabondo, spalatore di carbone, giardiniere, facchino, scaricatore di porto, addetto alla pulizia di tappeti e di aule scolastiche, lavandaio, cercatore d’oro, retore arrembante, attivista socialista, progettista di barche, case e fattorie all’avanguardia. Ma soprattutto Jack London fu scrittore.
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Stato dell’arte e proposta teorica