Intervista a David Cronenberg.

Pubblichiamo l’intervista di Paola Zanuttini a David Cronenberg uscita su il Venerdì di Repubblica, ringraziando l’autrice e la testata. 

Toronto. Aristide e Célestine Arosteguy sono la coppia Sarte-De Beauvoir del XXI secolo. Anticonformisti e libertini. Marxisti irriducibili. Massimi teorici della filosofia del consumismo. Ultrasessantenni e seducenti. Idolatrati dagli studenti della Sorbona, assidui dei loro corsi e del loro letto. Succede che Célestine scompaia: immagini diffuse in rete mostrano il suo cadavere cannibalizzato. Sparisce anche Aristide, che in seguito rispunta a Tokyo. Poi c’è un chirurgo di Budapest trapiantatore illegale di organi. Una malata terminale in fissa con l’eros preagonico.Un neurologo di Toronto che ha avuto il discutibile onore di dare il suo nome a una malattia venerea. E un regime comunista, la Corea del Nord, che calamita defezioni dall’Occidente capitalista. Due giovani reporter – americano lui, canadese lei – supertecnologici, morbosetti e un po’ cialtroni, indagano come si indaga al tempo del giornalismo digitale. Ah, poi ci sono un bel po’ di sindromi inquietanti e bislacche. È il primo romanzo di David Cronenberg: Divorati. Ci ha messo otto anni a scriverlo, ma nel frattempo ha girato cinque film.

Scatola nera #1: Jonathan Lethem conversa con Dave Eggers

Questo pezzo è uscito nel 2002 sul sito di minimum fax. Traduzione di Martina Testa.

Il sarcasmo o Bob Dylan o Una lunga conversazione fra due persone in gamba

Jonathan Lethem: Quello che mi è piaciuto particolarmente della nostra discussione su Dylan è che abbiamo cominciato a individuare un fenomeno interessante: il classico impulso, da parte del fan e del critico, a scegliere un periodo della produzione di Dylan come “l’unica parte valida” per poi accomunare tutto il resto in un’unica onnicomprensiva condanna: come se Dylan dovesse vergognarsi della sua continua produttività, come se la mole imponente del suo lavoro fosse una specie di crimine o di malattia che minaccia l’ascoltatore o il suo rapporto con gli album che ama. E, come hai sottolineato tu, dietro la presunzione di quel tipo di rifiuto si nasconde – in maniera particolarmente intensa – una specie di confusione istintiva e spaventata di fronte alla continua ricerca di quell’artista, all’ostinata determinazione con cui pratica la sua arte, alla sua disponibilità alla sperimentazione, alla crescita e al fallimento. Come se, quando un artista è troppo prolifico, troppo generoso, scattasse un interruttore che lo fa improvvisamente apparire come un insulto al suo pubblico.