di minima&moralia pubblicato 19 Ottobre 2015 · 2 Commenti
Scrivere nonfiction: un intervento di Violetta Bellocchio, curatrice dell’antologia Quello che hai amato. Undici donne. Undici storie vere, in libreria per Utet. Nella foto: Faye Dunaway in Bonnie and Clyde, Arthur Penn, 1967.
di Violetta Bellocchio
Sto passando la giornata con Raffaella Ferré. Abbiamo fatto un libro insieme, ci stiamo conoscendo ora. Abbiamo lavorato a distanza – lei scriveva a Napoli, io leggevo altrove – e a metà settembre siamo ospiti del Festival delle Letterature Mediterranee, a Lucera. È una giornata eccitante. Sentiamo, tutte e due, di non voler perdere tempo. Siamo grate al festival per l’attenzione data al nostro libro, e perché ci rende possibile incontrarci di persona dopo aver lavorato insieme.
Questo pezzo è uscito su Pagina 99.
«Amo pianificare i miei romanzi dall’inizio alla fine», dice Orhan Pamuk. Gli risponde, idealmente, Javier Marías: «sono il contrario del romanziere che sa tutto già prima di cominciare a scrivere». Si alza la voce di Toni Morrison: «quando comincio a scrivere un libro mi è già chiaro dove andrà a parare l’intreccio». Si intromette Michael Cunningham: «all’inizio non ho ben chiaro dove mi sto indirizzando».
Le idee dei grandi scrittori danno l’illusione, di solito, di essere verità universali sulla produzione letteraria. Non ci si accorge mai – come capita ascoltandoli tutti insieme – di quanto siano soggettive e instabili le loro posizioni. È un coro polifonico il risultato del libro orchestrato da Francesca Borrelli, Maestri di finzione (Quodlibet, pp. 610, euro 28), in cui sono raccolti venti anni di incontri e letture con autori di tutto il mondo.
Categoria libri, recensioni · Tag Amélie Nothomb, Anna Maria Ortese, David Foster Wallace, Derek Walcott, Don DeLillo, Effie Briest, Emmanuel Carrère, Francesca Borrelli, Francesco Longo, Günter Grass, Ian McEwan, Jacques Derrida, Jamaica Zincai, Javier Marías, Jeffrey Eugenides, Jennifer Egan, Julian Barnes, Kurt Vonnegut, Michael Cunningham, Orhan Pamuk, Paul Auster, Raymond Carver, Tobias Wolff, Toni Morrison
di minima&moralia pubblicato 21 Febbraio 2014 · 3 Commenti
Oggi David Foster Wallace avrebbe compiuto cinquantadue anni. Pubblichiamo un’intervista che rilasciò nel 1996 a Laura Miller di Salon contenuta nella raccolta Un antidoto contro la solitudine. Traduzione di Martina Testa.
di Laura Miller
L’aspetto dimesso, da topo di biblioteca, con cui si presenta David Foster Wallace contraddice il look delle foto pubblicitarie, con la barba di qualche giorno e la bandana in testa. Ma del resto, anche il più alternativo degli scrittori deve avere un certo grado di serietà e disciplina per produrre un libro di 1079 pagine in tre anni. Infinite Jest, il mastodontico secondo romanzo di Wallace, giustappone la vita in un’accademia tennistica d’élite con le vicissitudini dei residenti di una casa famiglia nei paraggi, il tutto ambientato in un futuro prossimo in cui gli Stati Uniti, il Canada e il Messico si sono unificati, tutta la parte settentrionale del New England è diventata un’enorme discarica per rifiuti tossici, e qualunque cosa, dalle auto private agli anni stessi, è sponsorizzata da grandi aziende. Pieno di slang, ambizioso e qua e là fin troppo innamorato del prodigioso intelletto del suo autore, Infinite Jest ha comunque alla base una solida zavorra emotiva che gli impedisce di andare a gambe all’aria. E c’è qualcosa di raro ed esaltante in un autore contemporaneo che mira a catturare lo spirito dei suoi tempi.
Categoria estratti, interviste, letteratura · Tag A. M. Homes, A.S. Byatt, Auden, Carole Maso, Cartesio, Cormac McCarthy, Cris Mazza, Cynthia Ozick, David Foster Wallace, Don DeLillo, Donald Antrim, Donald Barthelme, Flannery O'Connor, George Saunders, Hemingway, Jeffrey Eugenides, John Donne, Jonathan Franzen, Joyce, Kant, Kathryn Harrison, Keats, Laura Miller, Louise Glück, Martina Testa, Mary Karr, Norman Lear, Philip Larkin, Pynchon, Raymond Carver, Richard Crashaw, Richard Powers, Rick Moody, Rikki Ducornet, Shakespeare, Socrate, Stephen Crane, Tobias Wolff, William Jame, William Vollmann, Wittgenstei
di Paolo Cognetti pubblicato 15 Ottobre 2012 · 3 Commenti
Pubblichiamo la prefazione di Paolo Cognetti a Undici solitudini di Richard Yates (segnaliamo anche che oggi dalle 17.15 Paolo Cognetti è ospite di Fahrenheit su Radio3 per presentare Sofia si veste sempre di nero). (Immagine: Edward Hopper.)
Sul tavolo di Richard Yates, sopra le foto di figlie avute da donne diverse, sopra bottiglie e portacenere e pagine scritte e stracciate e riscritte, è stata appesa per anni questa frase: «Gli americani sono sempre stati inconsciamente convinti che tutte le storie avranno un lieto fine». Sono parole di Adlai Stevenson, la grande speranza democratica degli anni Cinquanta: candidato due volte alla presidenza e due volte sconfitto da Eisenhower, e infine superato da un concorrente dotato di carisma, gioventù e bellezza, John Fitzgerald Kennedy. La frase che Yates amava, quella su cui meditava scrivendo, è l’uscita di scena di un perdente: uno che avrebbe potuto cambiare le cose, ma non ce l’ha fatta, uno la cui storia non ha avuto nessun lieto fine.
Categoria letteratura · Tag Adlai Stevenson, Ann beattie, Arturo Bandini, Beat Generation, Carver, Cheerver, Eisenhower, Flannery O'Connor, John Fitzgerald Kennedy, Martin Eden, Paolo Cognetti, Revolutionary Road, Richard Ford, Richard Yates, Robert Stone, Salinger, Tobias Wolff
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