Il revival della masseria tra jet set e capolarato
Questo pezzo è uscito su Pagina 99. (Fonte immagine)
Guarda le masserie, e capirai la grande trasformazione della Puglia negli ultimi decenni. Perché se è vero, come diceva Cesare Brandi, che la vera Puglia è quella rurale, quella delle pianure di terra rossa solcate dagli ulivi, dalla vite, dal grano, quella delle carrarecce, dei muretti a secco e della pietra addomesticata, è proprio là che un intero mondo è mutato. Anzi, sì è letteralmente capovolto, molto più che nelle città che sorgono lungo la costa. Di quel mondo rurale, plurale e diversificato, la masseria era il cardine architettonico, economico, antropologico, una sorta di ecosistema capace di resistere al passaggio del tempo.
Sudismo e meridionalismo
Questo pezzo è uscito sul Corriere del Mezzogiorno. (Immagine: Untitled, Mark Rothko)
Una cosa è il sudismo, altra cosa è il meridionalismo. Nel recente dibattito alimentato sulle pagine del “Corriere del Mezzogiorno” da vari fattori (l’uscita del libro di Emanuele Felice “Perché il Sud è rimasto indietro”, la scarsa attenzione mostrata verso la “questione meridionale” da parte del neopremier Renzi, il persistere di indicatori come quello sulla disoccupazione giovanile che inchiodano le regioni meridionali), la distinzione sembra essere evidente. Eppure su scala nazionale, nonché in molte parti del Sud, è andata smarrita.
È giusto sottolineare come compito delle coscienze critiche di questa parte del paese sia innanzitutto quello di individuare non le responsabilità “del” Sud, bensì quelle rintracciabili “nel” Sud. È stata questa la lezione del meridionalismo migliore, quello di Salvemini, Dorso, Sturzo, Manlio Rossi-Doria, Tommaso Fiore, teso a decostruire un realtà non monolitica e ad analizzare innanzitutto le colpe delle classi dirigenti locali, della “borghesia lazzarona”, dei tanti azzeccagarbugli annidati sotto lo status quo, della politica ingessata dal trasformismo dei cacicchi e dei viceré. Non perché le colpe siano solo “nel” Sud, ma per il semplice fatto che ogni critica dell’esistente deve sempre partire da sé, dalla necessaria anticamera dell’autocritica.
Ricordare Rina Durante
Rina Durante è stata molte cose. Scrittrice, poeta, saggista, giornalista, “militante” culturale appartenuta a una stagione forse irripetibile della letteratura salentina, e più in generale pugliese. Rina morì nel dicembre del 2004, nove anni fa, e negli ultimi anni della sua intensa vita collaborò assiduamente al “Corriere del Mezzogiorno”.
Il suo articolo più bello, forse, è un lungo racconto dedicato alla “sua” isola, Saseno. Figlia di un sottufficiale di marina, Rina Durante aveva trascorso l’infanzia nell’isola che fronteggia il golfo di Valona, allora controllata dagli italiani. E, come ricordato nel film “L’isola di Rina” di Caterina Gerardi, in seguito ha tenuto sempre racchiuso dentro di sé, come un pungolo, questo peculiarissimo trascorso albanese e marinaro, la sua stramba infanzia tra le ginestre, che le permetteva di avere uno sguardo levantino, esterno, quasi di sbieco – si potrebbe dire – rispetto alle faccende umane. Uno sguardo pienamente figlio del Canale d’Otranto, dei suoi intrecci e del suo meticciato culturale, che tanto ha segnato anche un’altra scrittrice che lei ha amato, Maria Corti. Ma nei suoi ultimi articoli per il “Corriere” Rina (che aveva a lungo scritto anche sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” e sul “Quotidiano”) si occupò anche d’altro, disegnando via via una costellazione di interessi e punti fermi, alla luce della quale indagare il nostro presente.
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