La città amara di Leonard Gardner

«La fabbrica non assume personale al momento. Le squadre per le pesche sono al completo. Tornate quando i pomodori saranno maturi», annunciò un giovane dall’aria austera. Billy Tully ed Ernie Munger dovevano osservare sempre la fila degli ultimi, che porta in nessun dove, fosse essa per salire sul pullman dei pugili, o a bordo di quello degli stagionali della terra che guadagnano la giornata.

Fat City è l’unico romanzo, scritto magistralmente, di Leonard Gardner, oggi ottantunenne. Pubblicato nel 1969, è diventato un classico. Nel 1972 è stata fortunata anche la trasposizione cinematografica diretta da John Huston, che nel giudizio dell’autore conferì al film una certa autenticità. Fazi lo ripubblica col titolo Città amara (204 pagine, 17.50 euro), traduzione curata da Stefano Tummolini. L’autore, assumendo la prospettiva della natia Stockton, ha ritratto il sogno americano che si spegne all’alba. Questa è la storia di due boxeur semiprofessionisti, uno debuttante, l’altro neanche trentenne, il cui talento non varca il quartiere, che già si sente morire, del loro manager, dei loro amori e della sussistenza nell’America rurale della California Central Valley.

Essere Michael Jordan

Quand’è che saltare diventa volare? Michael Jordan amava che gli ponessero questa domanda. Ha cercato la risposta a lungo, invano, donandoci la grazia e i brividi dell’illusione propria del volo umano. Walter Ioos, fotografo di Sports Illustrated, ha provato a catturare lo spazio di quel secondo in sospeso. A Chicago, durante la gara delle schiacciate dell’All-Star Game 1988, bastò un cenno complice. Ioos era insoddisfatto degli scatti in archivio dall’anno precedente. Lo avvicinò tre ore prima del decollo: «Vorrei conoscere in anticipo la direzione che prenderai». Volle ritrarre il disegno delle contrazioni del suo volto. «Certo, te la indicherà il mio dito indice sul ginocchio. Te ne ricorderai?», gli disse. Poi lo fece spostare leggermente a destra per la condivisione di una fotografia che vantava la pretesa dei segreti.

Selma è tutti i giorni. L’elogio alla disobbedienza di Allen Iverson

Il rumore deve essere stato fragoroso, quanto sincero lo stupore dei compagni di squadra. «Non sono venuto a Memphis per un secondo posto. Coach, Alonzo Mourning non promise di regalarti, una volta approdato in Nba, un pullman decente per le trasferte? Ci penserò io», disse l’allora tredicenne Allen Ezail Iverson, dopo aver gettato dal finestrino il trofeo di consolazione. Qualche anno più tardi un giornalista chiese a caldo a Michael Jordan, se l’esordiente non parlasse troppo in campo. Jordan s’asciugò una goccia di sudore, scosse la testa, per poi rispondere: «Iverson vuole essere rispettato nella Lega. È confidente e vuole emergere. Ed è veramente veloce». Pochi minuti prima Dennis Rodman aveva rifilato una gomitata a quel ragazzino dalla taglia limitata, ma dal cuore fuori misura, reo di averlo beffato a rimbalzo. The greatest heart, secondo Larry Brown che ritroveremo spesso in questa vicenda umana. Per sovvertire le regole del gioco e cambiare la direzione di una vita, che non promette nulla, serve il cuore.

Molti per un malinteso senso di riverenza si defilarono dall’affrontare Jordan. «Nonostante avessi eseguito alla perfezione il mio movimento, riuscì quasi a stopparmi. Una cosa pazzesca che spiega quanto fosse anche un difensore straordinario». Il 12 marzo 1997 Philadelphia cominciò a innamorarsi del bambino che decise di sfidare il mito.

Quell’intervista che rivela lo scrittore

Questo pezzo è uscito su Pagina 99.
«Amo pianificare i miei romanzi dall’inizio alla fine», dice Orhan Pamuk. Gli risponde, idealmente, Javier Marías: «sono il contrario del romanziere che sa tutto già prima di cominciare a scrivere». Si alza la voce di Toni Morrison: «quando comincio a scrivere un libro mi è già chiaro dove andrà a parare l’intreccio». Si intromette Michael Cunningham: «all’inizio non ho ben chiaro dove mi sto indirizzando».

Le idee dei grandi scrittori danno l’illusione, di solito, di essere verità universali sulla produzione letteraria. Non ci si accorge mai – come capita ascoltandoli tutti insieme – di quanto siano soggettive e instabili le loro posizioni. È un coro polifonico il risultato del libro orchestrato da Francesca Borrelli, Maestri di finzione (Quodlibet, pp. 610, euro 28), in cui sono raccolti venti anni di incontri e letture con autori di tutto il mondo.

Scrittori arabi contemporanei, terza puntata

La rubrica di Mario Valentini è dedicata alla letteratura araba contemporanea. Qui le puntate precedenti.

Nagib Mahfuz in cifre  

Non si può non parlare di Nagib Mahfuz in una rubrica dedicata agli scrittori arabi contemporanei ma è anche vero che è troppo scontato parlarne. Che fare allora? Saltarlo?

Per risolvere il dubbio e prendere una decisione sul da farsi ho proceduto con un metodo il più possibile preciso e ponderato, portando avanti un ragionamento che in nessun modo ho voluto lasciare al caso e che ho dunque fatto precedere da una ricerca preliminare meticolosa. Che si è svolta in due fasi: 1ª fase: Indagine storica sulla fortuna di Mahfuz in Italia; 2ª fase: Indagine statistica, scientificamente condotta, sulla sua attuale diffusione tra il largo pubblico.

Era il 1988 quando Nagib Mahfuz vinse il premio Nobel per la letteratura. Ci si può fare un’idea di come venne accolta, in quei giorni, tale notizia andando a rovistare (in rete) tra un po’ di vecchi materiali.

La fine delle metropoli (o di una certa loro idea)?

Che ruolo hanno le metropoli nella letteratura degli ultimi anni? E tutto ciò che non riguarda propriamente il centro delle grandi città? Una coincidenza ha voluto che qualche settimana fa, nello stesso giorno, e su giornali differenti, ne scrivessero Nicola Lagioia e Vittorio Giacopini. Il primo su “La Repubblica”, il secondo sul “Domenicale” del “Sole 24 Ore”. Una dopo l’altra, proproniamo entrambe le riflessioni ai lettori di minima&moralia. (Foto: Paolo Grazioli.)

di Nicola Lagioia

Quale forza evocativa conservano le metropoli nell’epoca delle archistar, degli Apple Store e del bike sharing come termometro della civile convivenza? Ben poca, a giudicare dai contesti che i più importanti scrittori degli ultimi anni hanno scelto per ambientare le loro storie.  Prendiamo il Nobel a Alice Munro. Oltre a una sapienza narrativa poco imitabile, il premio certifica una vocazione regionale in cui la scrittrice cadadese non è sola. Benché i suoi racconti seguano le vicende di provinciali che in qualche caso tentano la carta della metropoli, il fuoco narrativo arde sempre dalle parti di quella Huron County in cui molti lettori italiani si sentono misteriosamente a casa. Sebbene poco sembrerebbe legarci a una dura terra protestante dove la temperatura va spesso sottozero e la tenacia del pregiudizio ricorda quella di una provincia da noi quasi scomparsa, l’impressione è che i fondamentali della vita (guerre famigliari e scontri sentimentali, bisogno di affrancamento, elaborazione del lutto e gestione della solitudine) abbiano più speranza di venire in evidenza tra un emporio di ferramenta e una chiesa presbiteriana che sotto i tabelloni luminosi di Times Square. In più, nel caso della Munro, questo avviene avvalendosi di tecniche narrative modernissime, cioè l’equivalente letterario dei magnifici edifici trasparenti di Zaha Hadid o Frank Gehry dentro i quali tutto sembra poter accadere, tranne la vita quotidiana.

La nostra amatissima: intervista a Toni Morrison

Ácoma è una bellissima rivista di studi nord-americani pubblicata da Shake. Invitiamo i lettori che non la conoscessero a farne l’esperienza. E ringraziamo il comitato di redazione della rivista per averci concesso di pubblicare questa lunga intervista a Toni Morrison risalente al ’95, a cura di Bruno Cartosio e Alessandro Portelli. È uscito di recente […]