Un altro tempo ha luogo: un dilemma etico nelle immagini di McCurry

«Però bello, no?». «Sì, non c’è dubbio… bellissimo»: così uno dei commenti che ho raccolto all’uscita della mostra dedicata a Steve McCurry presso il MACRO Testaccio di Roma. Il tono di accondiscendenza tradiva un lieve disagio, quasi che rompere il silenzio fosse superfluo. E in effetti, nell’affollato percorso espositivo regnava un sorprendente silenzio concentrato. Le immagini – alcune notissime – sono certamente responsabili della concentrazione. “Bellissime, non c’è dubbio”, stupefacenti, coloratissime, stampate in formati enormi e disposte su griglie sferiche a circondare lo spettatore. Ma proviamo a chiederci: cosa fanno pensare? È possibile che una certa tensione prodotta delle immagini abbia a che fare con il silenzio e con il disagio nel dirle, semplicemente e inequivocabilmente, belle? Proverò a fare un’ipotesi.

Di fronte a queste foto, per esempio quelle dei bambini, è facilissimo abbandonarsi al piacere della contemplazione senza riflettere su quello che sta accadendo. “Che carino!”, ha sussurrato qualcuno di fronte allo sguardo spaurito di un giovane pakistano o alle braccine pelose di un bimbo indiano appena nato. Se però cerchiamo un elemento di specificità che distingua Mc Curry da Anne Geddes con i suoi bambini-fungo, è immediato rendersi conto dello sforzo qui in atto di rendere artificialmente saliente un istante di autenticità. I bambini in posa sono resi significanti, poco male; ma significanti cosa? Più precisamente, non si tratta di un’autenticità qualsiasi, di istantanee di vite e volti qualsiasi, ma di un’autenticità esotica, relativa a una realtà che ci  appare eccezionale. Il piccolo tibetano nella culla di pelliccia, l’afghana con gli occhi variopinti e sbarrati, il sadhu indiano con la barba tinta di arancio, la donna-giraffa thailandese con i denti neri e lucidi come il giaietto, esistono o sono esistiti realmente, eppure la loro esistenza ci è qui rappresentata come a suggerire un breve discorso: “guardate, è straordinario, ed esiste ancora”.

Che questo possibile messaggio aleggi intorno alle foto di McCurry è confermato da una serie di dettagli stilistici: la scelta di soggetti pittoreschi, con abbondanza di vestiti e capelli molto tinti; l’insistenza sulle scene di tematica religiosa o rituale, dall’India alla Sicilia; la ricerca di scene straordinarie che incoraggino a immaginare un’altra normalità, in cui, per esempio, gli elefanti si accasciano sulle schiene dei padroni (Thailandia del nord), i poveri uomini dormono per terra sotto le immagini dei loro dèi che a loro volta dormono per terra (India), figure misteriose si aggirano isolate in templi diroccati (Cambogia), giovani monaci buddisti giocano a calcio con palloni di pezza in monasteri dalle mura fradice di umidità (Myanmar). Vi è, più in generale, un’evidente doppia strategia che sovrintende a ogni scatto (insieme alla sua rielaborazione digitale): documentare qualcosa d’insolito, e al tempo stesso estetizzarlo mediante la scelta di contrasti drammatici, colori ipersaturi, e situazioni per noi sorprendenti e in parte indecifrabili.

Già, per noi. Perché noi, noi occidentali, o comunque lettori occidentalizzati di National Geographic, siamo il destinatario ideale di queste immagini che altrimenti produrrebbero effetti imprevedibili. Noi che riconosciamo le macerie dell’11 settembre, ma non riconosciamo, di solito, le masse di sadhu indiani che si radunano durante il Kumbha Mela di Allahabad, né sappiamo cosa si trovi intorno ai templi di Angkor Wat in Cambogia, di cui ci vengono mostrati frammenti in stile Indiana Jones. Tutto questo fa parte di un canone, di cui McCurry è probabilmente tra i massimi interpreti: un canone fotografico che va da National Geographic alle fotografie turistiche. Il fatto che un reportage narrativo si possa accostare a queste foto, in effetti, è la sola cosa che potrebbe distinguere molte di esse da ottime fotografie per un catalogo turistico; in altri casi, questo differenziale è garantito dal drammatico contenuto delle immagini che rimanda al recente passato storico-politico (bambini soldato; mutilati di guerra; pozzi in fiamme in Kuwait). In ogni caso, non è esagerato dire che il soggetto-significante deve restare enigmatico e decontestualizzato, importante per la stessa eccezionalità della sua esistenza, privo di parola: in fondo, la foto in primissimo piano della tigre in via di estinzione (per es. in Frans Lanting) è il paradigma extra-umano della fotografia di National Geographic.

Fin qui, ritroviamo un carattere tipico di ogni fotografia “di viaggio”, e forse il fatto che i fili narrativi e geografici vengano spezzati in questa esibizione personale di Mc Curry, in cui tutto è disposto secondo analogie tematiche e formali, non fa giustizia all’autore. Tuttavia, c’è qualcosa di sospetto, che rimanda al silenzio da cui partivamo. La salienza delle immagini è quasi indiscutibile, ma come tale sembra richiedere una carenza di riflessione, e assottigliare così la distanza tra il presunto valore di documentazione e il valore di esotismo che può impressionare lo spettatore al punto da indurlo a balbettare disarmato: “eh, ci sono posti bellissimi…” Restano letteralmente fuori quadro tutti i particolari che potrebbero tradire l’artificialità della foto e diminuirne l’impatto: non possiamo sapere, per esempio, che le donne-giraffa che vivono tra Myanmar e Thailandia sono ormai costrette a indossare gli anelli intorno al collo in virtù del potenziale turistico da esse incarnato e verosimilmente sono state fotografate a pagamento come accadrebbe con qualunque turista; o anche, nella foto del ragazzino che salta in un vicolo blu di una città indiana, avremo l’impressione che egli ci sfugga nel dedalo misterioso e disabitato di un racconto di Kipling, che però ha poco a che fare con la consueta bolgia di Jaipur, in cui è ormai difficile trovare tre metri spopolati. Dei templi di Angkor ci sfuggirà l’intasamento di bancarelle e finte guide che solitamente rende impossibile visitarli in presa diretta come suggestive testimonianze di una civiltà esotica, di un altrove che l’occidente ha inevitabilmente modificato (così, per es., anche Coppola usò i volti dei Buddha di Angkor in Apocalypse now). Pensando a tutto questo, si ha l’impressione che lo spettatore sia indotto ad ammirare in silenzio in forza di un’autenticità sconosciuta che è in verità discutibile e conoscibile. Le scelte di fotografie italiane, viste da un italiano, sembrano confermare questo sospetto: particolari di angeli da gruppi scultorei romani, calchi di statue classiche e cristiane da teatri di posa di Cinecittà, processioni religiose di bambini incappucciati in Sicilia, finanche l’uomo baffuto con coppola e sigaro ritratto come un mafioso lungo un muro di Catania. Si rappresenta un’Italia da Gran Tour ottocentesco, o piuttosto una sua sopravvivenza un po’ da baraccone.

D’altra parte, però, forse tutto questo è troppo severo. Nel messaggio “guardate, è straordinario, ed esiste ancora” serpeggia al tempo stesso una volontà critica. Vi agisce la consueta potenza della fotografia, quella di sospendere il tempo testimoniando con flagranza l’essere accaduto di qualcosa; e questo qualcosa è scelto in quanto appartiene, più che a altri luoghi, a altri tempi storici. Roland Barthes, ne La camera chiara, scriveva che il potere evocativo della fotografia ha “a che fare” con la resurrezione; più specificamente, credo che esso abbia qui a che fare con un sogno di palingenesi. Le scene di Mc Curry rappresentano spesso delle storie che prima o poi non potranno aver più luogo se prevarrà la direzione presa dalla civiltà industriale dei paesi occidentali ed ex-colonialisti. O, nei casi più drammatici, rappresentano i frutti di un disordine mondiale sorto anche e soprattutto per effetto delle scelte operate da quella civiltà. Si trova così il disagio, e il sogno che esso provoca, di cui l’opera di McCurry è di nuovo esemplare, per cui stavolta la salienza delle sue immagini può offrire un altro significato, di utopia mezza realizzata: “potrebbe essere altrimenti”. Come riavvolgendo all’indietro il nastro della nostra propria storia, siamo spinti ad avvertire la bruciante contingenza dei nostri abiti, a percepire come insignificante la liscia superficie dei nostri volti riposati, a trovare infine che la nostra passeggiata di fine settimana apparentemente sospesa nel tempo è in realtà trascinata nel tempo di un sistema non inerziale che sta distruggendo il volto dell’umanità quale esso si è sviluppato per millenni. Il viso di Buddha infranto nelle pareti dello Shwezagon Paya di Yangon, la testa mozzata d’angelo dispersa a Cinecittà, e il volto del bambino afghano ferito dalle bombe, in questo senso, mostrano il lato offeso di quella serenità trovata altrimenti nelle partite a calcio dei ragazzini e nelle preghiere dei monaci birmani. Ecco allora il senso critico, non ipnotico, del “guardate, esiste ancora!”. Vorremmo poter tornare indietro e prendere altre strade, e questo grado zero del nostro tempo ha ancora luogo.

Le immagini di McCurry così ci guardano e suscitano un dilemma, che sta allo spettatore risolvere: possono finire in una campagna turistica che ci risuona dentro (“Egitto, l’inizio di tutte le storie!”, dice uno spot pubblicitario nelle metropolitane romane, tra note arabeggianti, mentre rientriamo stanchi verso casa); così ci lascerebbero intatti, e vagamente insoddisfatti, a concedere il nostro “sì, bellissimo, non c’è che dire”, e magari scacciare un più pungente e sottile “(vorrei ma non posso)”. Oppure possono rifletterci addosso il nostro sguardo, e allora i bambini e i rinuncianti, da un altro mondo che è ancora il nostro, ci direbbero qualcosa che si può forse provare a verbalizzare con un verso di Rilke, a suo tempo ispirato da un torso arcaico di Apollo: “Devi cambiare la tua vita”.

Commenti
2 Commenti a “Un altro tempo ha luogo: un dilemma etico nelle immagini di McCurry”
  1. Nicola ha detto:

    molto bello!
    A me quelle foto, quei visi hanno sempre trasmesso soprattutto uno smarrimento. Vi ho sempre rintracciato più una somiglianza tra tutti, piuttosto che differenze di colori, o abiti. Ho trovato quindi molto più vicina al mio modo di vederle e vederli la seconda parte dell’articolo, il secondo punto di vista.
    Non credo che McCurry abbia mai avuto intenzioni da fotoreportage, da racconto di contesti, crisi, storie locali, chessò, come Zizola. Il fuori-quadro come scelta manifesta penso sia proprio ciò che rende le sue immagini “troppo semplici” e quindi problematiche. Certo queste foto richiedono una buona disposizione alla nostalgia, quel “non potranno aver più luogo” che secondo me coglie molto bene il senso di questo lavoro. Come se fosse una testimonianza, in fondo, proprio della nostra incapacità di immergersi in quelle storie, in quei contesti, ma tuttavia rendendoci conto della loro indefinita complessità, generando così un disarmante rispetto per quegli occhi, e allo stesso orrore per il fatto che stiano scomparendo anche attraverso la nostra stanca complicità.

  2. Nevio ha detto:

    Ottimo commento. Belle immagini quanto superficiali e facili. Però successo di pubblico esagerato.. Al museo di Forlì

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