Acciaio
di Emilio Santamaria
1. Il racconto
Squilla il telefono alle 8 di mattina.
“Pronto”
“Ciao, hai da fare? vengo a prendermi un caffè da te”
“Va bene ti aspetto”.
Il mio ufficio nella palazzina dell’acciaieria è ampio e tutto sommato confortevole; l’ambiente è quello di un’acciaieria, certamente, ma l’ufficio è vasto e luminoso. La finestra dà su un piazzale con i binari del treno che serve a portare i lingotti, una volta solidificati, al reparto di fucinatura.
Ogni volta è uno spettacolo, questi enormi poliedri di acciaio ancora caldissimi, così imponenti e forti ma anche così delicati che basta qualche impurezza da pochi millimetri a renderli inutilizzabili. Il calore che emanano si avverte anche a decine di metri, sono ancora rossi quando vengono portati via. Di fronte c’è il prolungamento del capannone dell’area lingotti dove appunto si fabbricano ed escono questi enormi manufatti, tanto grandi e pesanti che ci vuole un treno per portarli.
Così 10 minuti dopo Franco si accomoda sulla sedia davanti alla mia scrivania. “Ti voglio raccontare la mia storia”
Io e Franco ci conosciamo da molti anni, da quando a Taranto un giorno lo avevano assunto per lavorare con me e con Pietro a fare ricerca sulle colate continue. Lui aveva già una quindicina di anni di esperienza sulle macchine per il colaggio dell’acciaio, una esperienza di stabilimento come operatore. Ma come succede generalmente, la nostra conoscenza per quanto fosse andata avanti per anni, era rimasta per molto tempo abbastanza superficiale, come può esserlo con un collega di lavoro con cui ci si trova bene, si è affiatati, si lavora tutto sommato in armonia ma poi, pur condividendo molto tempo non si approfondisce più di tanto. Quando, poi, anni dopo, ci eravamo ritrovati a Terni il legame si era approfondito e l’amicizia si era consolidata.
Negli ultimi tempi ci eravamo infatti avvicinati, effettivamente in lui c’erano stati dei cambiamenti. Era in qualche modo più sereno e sebbene sia sempre stato un tipo categorico sembrava più incline alla mediazione. Io avevo avuto parecchi problemi di varia natura e proprio in questo periodo lui mi aveva anche indirizzato laddove avrei potuto intraprendere un percorso di aiuto. Ma di questo parlerò dopo.
“Sai quando avevo 8 anni stavo a Padova, mio padre era un dirigente di una grande azienda a
partecipazione statale, e vivevamo lì in una villetta appena fuori dalla città; un giorno, mi ricordo era una giornata di primavera con un bel sole anche se ancora fredda, ero rimasto a casa e con me era rimasta la segretaria di mio padre. Una bella ragazza di 26 anni. In realtà non era solo la segretaria, quella troia era l’amante di mio padre”
Franco non è tipo da sprecare tante parole, non si perde in preamboli inutili, non è come me che se non sono più che sicuro di aver inquadrato bene l’argomento di cui parlo non vado avanti e prendo sempre le cose alla lontana. Lui alle volte sembra contare anche troppo sull’intuito dei suoi ascoltatori, se mi sta raccontando di quando era bambino non lo sta facendo certo per dilungarsi. Infatti prosegue:
“Così lei si mette a giocare con me, come aveva fatto già altre volte; ma ad un certo punto il gioco prende una strana piega. Mi fa sdraiare sul mio letto mi leva i pantaloni e le mutande e comincia a giocare con il mio pisellino fino a farlo diventare duro poi mi sale sopra e mi violenta. Si siede sopra di me e comincia a muoversi al ritmo di una canzoncina, una filastrocca da bambino che da quaranta anni mi tormenta.”
Franco di nome e di fatto, come ama ripetere. Nessun giro di parole. Ecco, la botta è arrivata subito. Cerco di non farmi travolgere dalla crudezza della cosa, da tutti quei sentimenti che ti turbinano nella mente quando senti certe storie, mi aggrappo ai braccioli della poltrona come se ci fosse un terremoto a scuoterla. Ma già so che non è finita qui.
In un attimo ripercorro 15 anni di conoscenza, mille episodi che ora rivedo sotto un’altra luce.
“Dopo questo episodio ho cominciato ad andarmene in giro da solo, cercavo di stare il meno possibile a casa; stavo solo, e per i miei familiari ero quello che non voleva stare con gli altri. Nessuno ha pensato a qualcosa di diverso, al fatto che il bisogno di solitudine, soprattutto in un bambino, può essere dettato da grossi problemi; nessuno in famiglia ha sospettato nulla, anzi ero additato come quello che non socializzava che rifuggiva la famiglia. Così me ne andavo a zonzo pur di non rimanere nell’ambiente in cui si era consumata quella cosa. Lì intorno la natura era bellissima e io mi avventuravo per i dintorni dove c’era una campagna meravigliosa e anche dei boschi altrettanto belli. Allora ho imparato ad apprezzare ogni cosa della natura.”
E’ vero, Franco è una persona con delle capacità straordinarie. Decide che gli piacciono le piante grasse ed ecco che la sua casa diventa un vivaio. Decine di vasi con ogni tipo di cactus e di tutte le altre piante grasse che riesce a trovare. E di ognuna conosce non solo il nome ma anche tutto il resto, come si riproduce, i terreni più adatti e quanto altro possa essere utile per coltivarla. E questo per mille cose, gli insetti come i tartufi, come le abitudini degli uccelli. Ogni volta si butta in qualcosa e lo sviscera fino a soddisfare quella sua voglia di entrare nelle cose, di sapere, un sapere che poi sfoggia molto raramente. In queste sue
passioni coinvolge tutta la sua famiglia. Lia, la moglie, lo asseconda sempre, mentre i figli a volte le subiscono anche se magari questi interessi sono scaturiti da loro desideri. Desideri che lui fa suoi e invade non lasciando più spazio a loro. In queste situazioni viene preso da una sorta di iperattività in cui coinvolge tutti gli amici e i conoscenti che ha a portata. “Mio figlio sta collezionando insetti, devi aiutarmi”, ad esempio, e ti riempiva di scatoline di plastica dei formaggini per metterceli dentro.
2.Romena
“Sono stato dal prete di Marmore, un giovane prete e gli ho raccontato tutta questa storia che sto raccontando a te, lui mi ha detto che non era in grado di aiutarmi ma che conosceva un posto dove probabilmente sarebbero riusciti a darmi un aiuto concreto.”
Marmore, il paese dove Franco ha scelto di abitare da quando è venuto a lavorare a Terni, è un piccolo paesino sopra alla cascata cui dà il nome; è un posticino un po’ anonimo ma in una posizione molto carina, vicino al lago di Piediluco, appena sopra Terni. Li c’è un bacino idrico che serve per alimentare l’acciaieria, dove di acqua ne serve molta, principalmente per il raffreddamento dell’acciaio fuso nel colaggio dove ne servono letteralmente dei fiumi, ma anche in altri reparti, ad esempio per raffreddare oppure per risciacquare il materiale dopo alcune lavorazioni con attacco chimico. Questo bacino è recintato e sarebbe vietato pescare lì; ci andammo un giorno, subito dopo il mio Primo Corso a Romena, il posto dove mi aveva suggerito di andare. Mi volle a tutti i costi ospitare, io del resto ero molto contento di stare con lui e la sua famiglia, e andammo a fare una passeggiata fino lì. Un luccio enorme era in agguato in un anfratto e si vedeva soltanto il suo muso feroce pronto a spalancare le fauci su qualche malcapitata preda. In mezzo ai sassi Franco raccoglie un amo con un doppio uncino di grosse dimensioni. “Questo era per lui mi sa….altro che divieto di pesca”. La sera cenammo tutti insieme. Mentre lui e la moglie preparavano da mangiare, e da loro si mangia sempre in modo sopraffino, io mi misi a parlare con Roberto, il figlio più grande, studente di ingegneria. Gli avevo dato una parte dei miei libri di studio. Libri ormai di una certa età ma ancora assolutamente validi e attuali. Così parlammo di fisica, un esame che aveva detto di aver sostenuto poco tempo prima. Mi stupii perchè secondo me avrebbe dovuto aver chiari dei concetti che invece sembrava ignorare totalmente, ma ero in uno stato d’animo assolutamente non incline alla malizia e non diedi più di tanto peso a questo.
Come ho detto prima, avevo appena fatto il primo corso a Romena. Romena è il posto dove Franco mi ha indirizzato per affrontare le mie difficoltà, è il posto che il prete di Marmore aveva suggerito a lui per risolvere questo tormento della canzoncina, questo ricordo martellante e incancellabile e tutto quello che significava e comportava.
“Questa canzoncina mi veniva in mente in modo del tutto incontrollato e quando succedeva cominciavo a diventare nervosissimo e mi prendeva un mal di testa terribile, ed esisteva un solo modo per placare il tutto; dovevo assolutamente avere un rapporto sessuale. Perchè vedi, le persone che subiscono una violenza come quella che mi ha fatto quella troia, in genere hanno una reazione di rifiuto del sesso femminile, magari diventando omosessuali. Io ho avuto una reazione del tutto diversa, sono diventato un ammalato di sesso. E il bisogno si scatenava in questo modo. Quella maledetta canzoncina si riaffacciava alla mente e iniziava a martellarmi. Ti ricordi quella volta con Pietro che stavamo nella sala riunioni a Taranto e me la sono presa con lui? In realtà lui non c’entrava niente era solo quel maledetto ritornello”
3.Taranto
Certo che mi ricordavo di quell’episodio. Pietro, Franco e io eravamo un gruppo estremamente affiatato. Pietro è un genio della matematica, pur essendo un ingegnere meccanico amava cimentarsi nello sviluppo di modelli matematici complicatissimi. Con lui abbiamo applicato le reti neurali o neuronali al colaggio dell’acciaio, nella macchina di colata continua, e nelle sue intenzioni c’era lo sviluppo di modelli di caos e l’applicazione di logiche fuzzy nella descrizione del sistema termofluidodinamico della lingottiera di una colata continua.
Io ero molto più per le misure a spanne e per l’approccio statistico, così ci completavamo a vicenda. Pietro era capace di sviluppare decine di pagine di calcoli, e dopo ore di applicazione mi guardava sconsolato perchè gli veniva un risultato assurdo.” Dai ti ci dò un’occhiata io”, e pur facendo fatica a capire e rintracciare il percorso matematico nel turbinio dei conti, normalmente dopo un po’ “ecco qui ti sei scordato un meno” oppure “in questo passaggio manca una parentesi, ti credo che poi non ti torna” allora si ributtava nei calcoli e fino al risultato. D’altronde in quanto a disordine eravamo due campioni imbattibili e anche questo contribuiva al nostro affiatamento. Ma quando si è disordinati si deve avere un colpo d’occhio sviluppatissimo se si vuole sopravvivere, come appunto per individuare la mancanza di una virgola in pagine di calcoli.
Insomma, nella sala riunioni si parlava di questioni di lavoro quando ad un certo punto, ad una battuta di Pietro, abbiamo sempre scherzato fra di noi, Franco sbatte i pugni sul tavolo gli strilla qualcosa e se ne va sbattendo la porta. Ci guardiamo sbigottiti: “Ma che gli avrà preso?”. Ecco che gli aveva preso, la maledetta canzoncina, il ritornello di quella terribile mattina, il desiderio di scappare, un nervosismo incontrollabile.
Qualche ora dopo ci rivediamo, tutto sembra passato. Si ricomincia a lavorare in piena armonia. D’altronde sia lui che Pietro sono persone troppo intelligenti per perdersi in stupidi rancori.
Si va a seguire una colata, andiamo ai convertitori dell’acciaieria due. L’ambiente è irreale. Fra i rumori assordanti delle reazioni con cui si brucia il carbonio della ghisa per farla diventare acciaio, dei carri ponte che trasportano e sversano enormi contenitori di rottame dentro al convertitore, un recipiente di circa 10 metri di altezza e 6 o 7 di diametro da cui escono fiamme e fumi bianchi e arancioni e in cui sembra essere contenuto un pezzetto dell’inferno, fra tutti questi fragori e strepitii si sente aleggiare storpiata dagli
altoparlanti un’aria dell’Aida, si, perché il capo acciaieria è un appassionato di lirica e ha pensato di diffondere le musiche operistiche per coprire o mitigare i rumori dell’ambiente industriale, e questo dà un tocco di surreale, il bello che si mescola con rumori tremendi e spettacoli immani. La reazione continua e manca solo di veder spuntare il forcone e la testa cornuta di qualche demonio. Si parla con gli operatori dietro alle paratie che proteggono dal calore insopportabile, con i vetri anticalore bruniti che permettono di osservare senza abbagliarsi l’acciaio fuso. Ecco, l’acciaio è pronto per essere spillato.
“Passai così un paio di anni, poi tornammo a Taranto. Io a 10 anni ero già sviluppato ed ebbi a quell’età il mio primo rapporto o meglio il primo che cercai io. Con una ragazzina più grande di me. E da quel momento non mi sono mai fermato, avevo come un sesto senso per capire subito le intenzioni di una ragazza, di una donna. E quando ne trovavo una disponibile era mia nel giro di poche ore.”
“Ti hanno rubato l’infanzia e l’adolescenza”
Già perchè io a 10 anni giocavo con i modellini delle automobili e poi un po’ più grande avevo tutti i problemi dell’adolescenza, ma anche la poesia, l’ingenuità, i primi amori, una timidezza eccessiva. Tutte cose a lui negate.
Negate perché una depravata che chissà cosa aveva subìto nella sua gioventù ha dovuto sacrificare un bambino alle sue voglie schifose.
Comincio a realizzare quale bagaglio insospettabile si portano appresso certe persone, e tu che ci stai accanto non ti accorgi minimamente della loro sofferenza nascosta. Qualcuno magari ti sembra un po’ strano oppure ha comportamenti fuori dai canoni e spiazza tutti gli altri. Ma poi dietro, nel profondo, c’è qualche fardello pesantissimo e insospettabile, c’è un motore per ogni cosa.
Effettivamente Franco “di nome e di fatto” come ama ripetere, è un tipo che non si vergogna né si fa scrupolo di dire quello che pensa. E’ arrivato da noi perché lo volevano licenziare, aveva avuto infatti problemi di salute e dopo un certo periodo lo avevano messo fra la cosiddetta forza assente. Oggi lo avrebbero licenziato senza farsi tanti problemi. E’ andato dritto dal capo dell’acciaieria e ha preteso di parlarci; dopo mezz’ora erano amici. E, così, fu mandato a fare un colloquio da noi. Era infatti una persona adattissima a lavorare nella ricerca industriale, il capo lo aveva capito subito. E la sua collaborazione era preziosa non solo per l’intima conoscenza degli impianti ma anche per una sua capacità innata di stringere subito amicizia, di trovare subito l’argomento che unisce, e tutto questo senza un briciolo di superficialità.
4.Venezia
“All’Università andavo a Venezia, studiavo Chimica. Campavo vendendo quadri e disegni di Venezia ai turisti. Mettevo a frutto quello che avevo imparato all’istituto d’arte.” Non mi parla esplicitamente del distacco dalla famiglia, ma da queste parole è evidente il rifiuto di avere alcunchè da loro. La sua voglia di non dipendere non accettare nulla, tantomeno il loro denaro. E continua, “un giorno stavo dipingendo su un ponticello, mi cade il pennello sbaffando il quadro e me ne esco con una esclamazione tipica tarantina; nel mentre passavano dei ragazzi, una di loro si volta e mi risponde in tarantino autentico. Ci siamo guardati e ho capito subito che doveva essere la donna della mia vita. Niente a che vedere con tutte le altre. C’era qualcosa di infinitamente diverso in quello che ho provato e che mi ha trasmesso guardandola. Ho capito subito che era una persona fuori dal comune.”
Si effettivamente Lia è una persona molto particolare, forte, con un carattere deciso e diretto. Solo una donna con queste caratteristiche sarebbe stata capace di tenere testa a Franco e anche di sopportare e superare tutto quello che poi è uscito fuori. E per farlo c’è voluta tutta la sua forza, tutto il suo amore per Franco, tutta la sua capacità di perdonare.
Andammo a trovarli nella villa dei genitori di Lia, a Martina Franca, un bellissimo paese dell’entroterra tarantino, sulle murge, dove avevo preso casa anch’io e tra lei e la madre dei miei figli nacque subito un’antipatia reciproca. Un qualcosa di tipicamente femminile. Lia mi disse quello che pensava della madre dei miei figli quando, molti anni dopo, ci siamo separati. Lia per quanto sia una persona estremamente diretta sa anche quando parlare.
La loro ospitalità era fin troppo spinta. E naturalmente l’aspetto gastronomico era fondamentale. In effetti da Franco ho appreso un mucchio di cose su come cucinare, su come riconoscere il pesce fresco e via dicendo.
“Lia stava insieme ad un altro uomo; ho aspettato per più di un anno che si lasciassero. Ma non potevo fare a meno di lei. E alla fine ho avuto ragione.”
Un qualcosa che ha dell’incredibile, una storia da film, ma a questo punto non mi sorprende più. E’ solo il seguito della sua storia. Lui che parte da Taranto, dove era tornato, perché aveva saputo che Lia si era lasciata. Aveva sentito un amico comune e gli aveva detto di questa cosa.
“Decidiamo di tornare a Taranto; trovo lavoro in acciaieria, come pulpitista in una colata continua, faccio i turni e nel tempo libero mi dedico alla pittura. Faccio quadri e li vendo.”
In effetti un’altra capacità di Franco è quella di mettere a frutto quello che sa fare in modo da guadagnarci su; e lo fa nel modo migliore, senza mai strafare, chiedendo sempre il giusto. L’ho visto mettere insieme collane di pietre bellissime accoppiate in modo ineccepibile, pietre comprate da un cinese a Roma con cui ha subito trattato e si è riuscito a mettere d’accordo spuntando un ottimo prezzo e soprattutto avendo i pezzi migliori. L’ho visto dipingere serie di segni zodiacali, ma anche quadri di soggetti disparati, nature morte con pesci oppure paesaggi, su ordinazione, con una tecnica particolare di frammentazione dell’immagine, in cui l’insieme si percepisce come una unione di parti non sempre combacianti.
Ogni immagine è il risultato dell’unione di frammenti non sempre combacianti, ogni immagine è come il risultato dell’incollare insieme i pezzi raccolti dopo una rottura violenta; ogni quadro è la fotografia della sua vita, il messaggio mi appare chiaro molto tempo dopo, improvvisamente. E che stupido a non averci pensato prima.
Il pulpito di una colata continua è il posto di comando della macchina e chi fa il pulpitista coordina e gestisce tutte le operazioni. Oggi è tutto automatico e il lavoro è soprattutto di controllo, in alcuni impianti mi è capitato anni dopo di vedere colare con il solo pulpitista, il “no man casting” come lo hanno subito chiamato gli inglesi. Un tempo l’ausilio dei computer era molto minore e si dovevano fare molti più interventi manualmente. Quando si cambia la colata e la torretta girevole sposta la siviera vuota, così si chiama l’enorme secchio che contiene l’acciaio fuso, posizionando quella colma di 320 tonnellate di acciaio sopra la paniera per continuare il colaggio ecco che il piano di colata si anima; gli operatori si affrettano a collegare i vari servizi alla nuova siviera poi si effettua l’apertura con il getto di acciaio che spande una pioggia di scintille dappertutto, finalmente si posiziona il tubo (l’elleesse, ladle shroud – il sudario della siviera, che macabri ‘sti inglesi).
5.primo corso
“Il tormento del motivetto di quella mattina, il mal di testa e tutto il resto mi hanno sempre accompagnato, così quando il prete di Marmore mi ha dato il telefono di questa fraternità mi sono subito messo in contatto con loro e sono andato a fare il primo corso. L’ho fatto con Gianni; era diverso da come l’hai fatto tu e alla fine quando è uscita la mia storia l’abbiamo affrontata, condivisa e me ne sono liberato. E’ stato tostissimo, anche altri avevano storie terrificanti sulle spalle.”
Il primo corso a Romena, una tappa fondamentale anche per la mia vita. Romena, una pieve del XII secolo sulle colline del Casentino. Una pieve dove un prete geniale ha voluto fare un “porto di terra”, un posto dove andarsi a fermare, qualche giorno, in attesa che la tempesta passi. Un luogo dove rifiatare e riprendere energia quando le cose della vita sono diventate troppo pesanti e ci si deve scaricare un po’. Un posto dove liberarsi dei fardelli a volte pesantissimi che si sono accumulati durante il percorso della vita. La costruzione è bellissima nella sua semplicità, ed è densa di spiritualità, e le colline e le montagne del Casentino le fanno una corince mozzafiato, e Gigi, il prete che ha creato tutto questo, ci tiene molto
all’accoglienza, al fatto che chiunque arrivi si senta a casa sua.
“Ecco questa è la mia vita fino adesso”
Mi alzo dalla mia poltrona e ci avviamo a prendere il caffè al distributore automatico. Riesco a mormorare: “altro che un caffè….per digerire questa storia”
Inutile dire che da quel giorno un legame ben diverso ci ha uniti.
6.Terni
La gigantesca pressa nella forgia plasma un enorme blocco di acciaio, per tenerlo vengono usati due carri ponte con un sistema di allunghe e catene poderose con cui grazie all’abilità degli operatori e alla loro coordinazione si riesce a dargli una forma appropriata. Da sotto il capo squadra impartisce gli ordini a gesti, ma l’affiatamento è tale che non c’è bisogno di ripeterli. L’ambiente è gigantesco, la pressa stessa è alta quanto un palazzo di tre piani; il forno da cui poco prima è uscito il lingotto ha una bocca larga diversi metri e alta altrettanto. Il materiale si deforma apparentemente con poco sforzo, ma la forza delle 12500
tonnellate della pressa viene tutta messa in gioco e guardando bene si vede la struttura che si deforma sia pure leggermente sotto carico. Il calore delle 250 tonnellate di acciaio arriva dritto e secca la pelle in modo rapidissimo. Bisogna proteggersi, le labbra si screpolano in pochi minuti.
Franco è lì con la termovisione, uno strumento che visualizza e registra le immagini per mezzo del calore emesso. Per capire bene quello che succede è uno strumento essenziale. Gli operatori vanno a colore, cioè intuiscono la temperatura dal colore del pezzo ma non tutti sono così precisi e abili. Ed è bene farsi guidare da uno strumento. Un pezzo appena sfornato, a 1200°C ha un colore arancione chiaro, man mano che la temperatura scende va verso il rosso diventando sempre più scuro.
Finita la forgiatura il pezzo viene rimesso in forno; oramai è troppo freddo per continuare; si rischierebbe di spaccarlo.
Si torna nel mio ufficio.
“Ti ricordi che ti avevo detto di Fabrizio che giocava a pallone?”
“Si” faccio io “un’altra storia curiosa”
Era successo che lì a Marmore i due ragazzi giocavano, i due figli di Franco, uno in porta e l’altro tirava. Si ferma una Mercedes scende un tizio che si mette a guardare i ragazzi. Franco che stava più lontano dopo un po’ si avvicina chiedendogli cosa volesse. Non c’è da stupirsi che sia protettivo con i suoi ragazzi.
Insomma era un ex calciatore, il cui nome era noto anche a me che di calcio non so veramente nulla; era diventato un talent-scout e aveva intravisto nel più piccolo dei figli di Franco un elemento promettente.
Così prendono contatto e il ragazzo entra a far parte della squadra. Fanno diversi tornei, il ragazzo promette bene, potrebbe interessare diverse squadre famose; ma non è certo questo che spinge Franco e Lia ad incoraggiare il figlio nel proseguire; è la passione del ragazzo.
“Beh gli hanno trovato un’aritmia, così non può più giocare; ma lui non vuole lasciare. Non mi frega niente della carriera calcistica ma se lui vuole continuare debbo fare di tutto per metterlo nelle condizioni di ricominciare.”
E così ha fatto. Inizia una sequela di visite mediche, esami, olter e monitoraggi di ogni genere cui il ragazzo si sottopone con ammirevole spirito di sacrificio. Si esclude fortunatamente ogni minaccia nella vita normale ma è necessario che smetta di giocare per evitare situazioni pericolose.
Il ripensare ai problemi di cuore di Franco è immediato. Si, perché quando ancora lavoravamo a Taranto, un giorno in macchina con un collega si sente male, lo portano in ospedale e viene diagnosticato un infarto. Io non ero a Taranto in quei giorni; quando rientro mi raccontano della cosa. Dopo qualche giorno Franco è di nuovo a lavorare con noi, mi racconta tutti i dettagli di questa patologia, delle condizioni in cui lo hanno trovato, della evoluzione e dei possibili sviluppi. Così apprendo tutta una serie di nozioni sul manifestarsi delle crisi cardiache e su come possono prendere in modo molto differente su soggetti diversi. Al solito Franco approfondisce quanto più possibile. E, come per cercare di liberarsi del problema, mi comunica quello che ha imparato domandando ai medici e confrontando la sua esperienza con quella di altri pazienti e amici. Come sempre la sua instancabile voglia di sapere e la sua facilità a stringere rapporti con chi gli sta vicino e a condividere le proprie esperienze e i propri problemi gli permette di entrare nella situazione sviscerarla e renderla accessibile a chi gli sta intorno.
Ripensando a questo, con il senno di poi, c’è da immaginare che lo stress di una situazione portata avanti per troppo tempo possa essere una concausa del problema cardiaco. Questa continua compressione, nel tenere dentro di sé una cosa così pesante così tremenda per troppi anni potrebbe aver generato questo, del resto si dice che lo stress possa avere un effetto deleterio sul sistema cardiocircolatorio e sul cuore in particolare.
Il responso è quello che per tentare di correggere questo difetto sarebbe necessario sottoporre il ragazzo ad un intervento che consiste nell’introdurre degli elettrodi e modulare delle scariche elettriche sul cuore stesso. Un intervento estremamente doloroso ma che poi dovrebbe risolvere il problema annullando l’aritmia congenita.
“Fabrizio è deciso, abbiamo fatto tutte le visite mediche, a Roma al CONI. Ormai ci devono solo dire quando si fa. All’inizio non volevano intervenire su un ragazzo, pensavano che dietro ci fossero due genitori di quelli che farebbero qualunque cosa per far giocare il proprio figlio, per farlo arrivare in alto, in serie A. Non avevano capito di che pasta siamo fatti. Siamo andati a parlare con il responsabile. Lo abbiamo convinto quasi subito. Dopo pochi minuti già non aveva più dubbi.”
In effetti non è facile opporsi alle argomentazioni di Franco soprattutto se è spalleggiato da Lia. Quando è convinto di qualcosa non si ferma davanti a nessuno. Abbiamo in comune un aspetto che in teoria tutti apprezzano, in pratica rende detestabili ai più. Si perché sia lui che io tendiamo a dire le cose come stanno, senza tanti peli sulla lingua.
In riunione di fronte all’esame di un disastro, un pezzo di 85 tonnellate, una specie di enorme mattarello degno di un gigante, spaccato come fosse di vetro, qualcuno tenta di mischiare le carte, di ipotizzare responsabilità di chi ha colato il pezzo, di chi ha fabbricato l’acciaio. Noi siamo ben sicuri del lavoro che abbiamo svolto e controllato. Molto meno di quello che invece hanno fatto gli altri cui abbiamo consegnato il lingotto. I dati non escono fuori, ci si scalda, pugni sul tavolo, toni rudi, si alza la voce. Stavolta è toccato a me di incazzarmi, Franco non interviene. Altre volte so che ha fatto degli autentici show, nei confronti di chi denigra e disprezza il lavoro altrui con frasi e toni che servono solo per gettare discredito al fine di insinuare il dubbio che i problemi possano venire da altre parti.
Non è facile tenergli testa anche perchè Franco non si fa intimorire da nessuno. Non è che avendo davanti un capo, un Amministratore Delegato o un Direttore, il suo tono cambi. Se c’è una cosa che non va la dice e basta, anche in questo siamo molto simili. I capi intelligenti sanno apprezzare.
Non sempre si ha la fortuna di incontrarne.
“Ti racconto l’intervento di mio figlio”
Insomma anche questa prova pesantissima è andata a buon fine. Anche stavolta la caparbietà, la capacità di affrontare le cose nel modo più diretto, quell’atteggiamento, sarebbe da dire quella qualità, di non fermarsi di fronte a niente e a nessuno hanno avuto la meglio. Fabrizio, un ragazzo di poche parole e di molta sostanza si è sottoposto a questo intervento in modo esemplare, senza tradire paure e mascherando il dolore che sicuramente ha provato. Franco si dilunga in particolari, c’è l’orgoglio di un padre che vede il figlio capace di sopportare e superare una simile prova, c’è alla fine il trionfo del bene sul male in questa continua lotta che ha come campo di battaglia la vita di Franco.
Questa storia è durata mesi; nelle pause che il lavoro ogni tanto concede mi aggiorna sulla situazione. Una situazione vissuta con un fortissimo coinvolgimento, suo e di Lia, una situazione di un padre che non vuole assolutamente che il figlio possa pensare di essere qualche modo abbandonato, dove spesso la moglie deve intervenire mediando per frenare qualche eccesso di voglia di intervenire.
Una voglia di intervenire che ha non solo nella vita dei figli. Alle volte Franco si spinge a prendere posizione in maniera anche molto ferma, nei confronti delle scelte personali di persone vicine e amiche. Non sempre tutti sanno apprezzare quella che per lui è una dimostrazione di amicizia estrema ma che altri considerano né più né meno come una ingerenza.
Eravamo in una acciaieria del nord, in un paesino della Val Padana. Io ero a fare uno stage di
aggiornamento presso l’azienda per cui lavorava Franco e ci mandarono a fare un lavoro in questa fabbrica.
7.Augusto
“Devi scrivere la mia storia. Tu sai scrivere; Augusto,” – un alto dirigente di Taranto che lui chiamava per nome ma solo al di fuori della sfera di lavoro, e con cui aveva un rapporto molto amichevole,- “Augusto me lo ripeteva sempre quando eravamo a Taranto.”
“Ho bisogno di raccontare la mia storia, ho bisogno che si sappia che possono succedere certe cose e che succedono quasi sempre nel mondo familiare. Vorrei far conoscere la mia storia perché si possa in qualche modo evitare che succeda ad altri” Ecco, Franco affronta le cose anche apparentemente inverosimili e insuperabili con lo spirito con cui affronta ogni cosa. La vita lo ha messo molte volte di fronte ad ostacoli quasi insormontabili. Ma lui mette in ogni cosa la stessa determinazione. E, forse, sopravvaluta le mie capacità. Io, quando capisco che sta facendo sul serio, lo assecondo e intanto inizio a pensare a come dare un prosieguo a tutto ciò.
Inizio a sentire nel giro delle mie conoscenze se qualcuno avesse a che fare con un regista o uno sceneggiatore per proporre questa storia per un film; mi sembra più fattibile ma nessuno mi dà retta. Sembra che l’argomento sia tabù, eppure di film di violenze sui minori ne hanno fatto diversi, qualcuno anche molto toccante. Non mi sembra che ne abbiano mai fatti su questo specifico tema, sarebbe anche una cosa originale. Ma deve essere un tema di quelli intoccabili. Così dopo qualche tentativo, qualche risposta negativa e molti silenzi decido che mi metterò a scrivere. Proverò a buttare giù qualcosa.
Intanto ripenso ad Augusto; o meglio io lo chiamavo per cognome, gli davo del Lei. Viveva con una donna molto più giovane di lui. A Franco non piaceva; secondo lui, infatti, lei lo sfruttava facendosi mantenere. E naturalmente glielo ha detto. Franco aveva questa abitudine di intervenire nei fatti degli amici, in modo diretto, senza peli sulla lingua. Pensava fosse suo dovere mettere sull’avviso le persone a lui più vicine quando qualcosa gli sembrava strano. Ma bisogna essere molto amici e conoscersi a fondo per accettare serenamente questi suoi interventi nella propria vita, spesso venivano considerate come fastidiose ingerenze.
Non è però pensabile che Augusto non ne fosse consapevole. Ma a lui andava bene così evidentemente. E naturalmente lei ha avvertito questa avversione. Per un lungo periodo infatti non si sono più frequentati.
Augusto è una persona che ritorna spesso nella vita di Franco; si ritrovano quando lui direttore di un grande impianto del Nord Europa fa chiamare un gruppo di tecnici per trovare il bandolo di una matassa molto ingarbugliata. E naturalmente pretende che fra loro ci sia anche Franco.
Mi racconta dell’approccio turbolento con gli operatori di lassù, in particolare con un francese con cui però, superata questa ostilità iniziale con il rischio di venire alle mani, divenne amico. Divenne suo amico quando si rese conto di come e quanto lavorava Franco. Certo non è mai piacevole che estranei vengano a controllarti mentre lavori; ma se c’è qualcosa che viene fatto male ed è entrato nella consuetudine risulta poi molto difficile scoprirlo dall’interno. Il mondo dell’acciaio poi è estremamente conservativo e conservatore e mal tollera le intrusioni dall’esterno. Alla fine il lavoro viene completato con successo.
La storia ha poi una appendice amara; infatti Augusto aveva fatto preparare un assegno per la squadra che consegnò ad un loro responsabile. Ma a loro non è mai arrivato. Franco mi raccontò come in un successivo incontro Augusto gli avesse chiesto se gli era arrivato l’assegno. “Quale assegno?” Due parole e uno sguardo per capirsi ed evitare di toccare nuovamente l’argomento. Non c’era bisogno di aggiungere altro.
E ancora se ne riparla quando mi racconta che l’AD dell’azienda per cui Franco lavorava, poco prima che andasse in pensione, quando Franco era andato a chiedergli un aumento lo richiama dicendogli che era stato un coglione a non sfruttare un’amicizia così importante per avere dei vantaggi.
“Capisci, mi ha dato del coglione, mi ha dato del coglione perché non ho chiesto ad Augusto di intervenire per farmi dare dei soldi e ottenere quello che altrimenti non mi avrebbero mai dato; che personaggio ributtante”
Ecco, l’amicizia vista come un qualcosa di sacro, da non sporcare con mire materiali e per trarne vantaggi.
Un concetto superiore.
8.Vite condizionate
Il giorno dopo ci dovevamo spostare in un altro sito produttivo, ancora più a nord, nelle vicinanze del lago
di Iseo, un posto incantevole incorniciato nelle Alpi, in cui però ci sono numerosi impianti industriali. Le
contraddizioni dell’Italia, posti meravigliosi e fabbriche. Nel tragitto che necessariamente si fa in macchina si parla di tante cose, poi inevitabilmente si finisce sempre a parlare di quello che ha segnato la sua vita.
“Hai presente quel tipo che lavora nel laboratorio?” In ogni acciaieria ci sono dei laboratori e sono un
elemento essenziale nella produzione dell’acciaio, si fanno analisi on-line durante la fabbricazione e la
rapidità di risposta insieme all’accuratezza dell’analisi sono essenziali. Si fanno anche esami microscopici a centinaia di ingrandimenti. Insomma chi ci lavora deve avere una alta professionalità, usare un microscopio a scansione oppure un gascromatografo non è semplice.
Il tizio cui si riferiva Franco io lo avevo visto si e no un paio di volte, lo ricordavo molto vagamente.
“Lo vedevo un po’ strano, un tipo chiuso, come avesse sempre qualcosa dentro che lo tormentava. Sai io
ormai ho come un sesto senso per certe persone, le capisco al volo. Così un giorno l’ho preso da parte e alla mia maniera l’ho fatto parlare. E non mi sbagliavo. Parlando mi ha raccontato della sua infanzia, anche lui ha subìto una violenza da bambino. L’ho fatto parlare e gli ho raccontato di me, alla fine mi ha ringraziato tantissimo. E’ riuscito ad aprirsi, a raccontare questa sua storia, tremenda come tutte queste storie che hanno come argomento la violenza su un bambino, la violenza sessuale su un bambino. Non ha potuto fare a meno di chiedermi come avessi fatto a capire il suo disagio. Gli ho detto che ad un certo punto della mia vita ho cominciato a riconoscere certi atteggiamenti e certi comportamenti in modo automatico.“
Già, strano destino, il suo. Tormentato per tutta la vita da questo episodio, nel momento in cui se ne libera, si libera dell’ossessione, del motivetto martellante, di un mal di testa opprimente, ecco che inizia a riconoscere negli altri quella stessa situazione terribile che ha vissuto anche lui. E come sempre non si frena, non riesce a non intervenire. Sente di dover fare qualcosa e lo fa.
A Romena ho imparato quanto sia diffuso questo tipo di violenza; è uno dei temi su cui lavora Gigi e ogni tanto incontri qualcuno che ti racconta questa terribile storia e quando pensi di averne sentite di tutti i colori ti arriva qualcuno che ti riversa addosso una qualche storia ancora più tremenda; nonni che violentano le nipotine, che se le vendono agli amici, genitori che non riescono oppure non vogliono capire quello che succede ai loro figli, figli che passano sempre per essere scontrosi, musoni oppure degli incapaci perché davanti ai loro aguzzini non riescono a fare niente, non riescono a comportarsi naturalmente, e gli altri non capiscono….
Vite condizionate da questi episodi, vite in qualche modo rimesse insieme, ma segnate per sempre.
E Franco ha sviluppato una sensibilità naturale su questo, e questo dopo esser passato per Romena; dopo essersi alleggerito della sua pena, una pena incancellabile, ha cominciato a chiedersi come poteva fare per aiutare chi era passato nel suo stesso inferno, chi si portava bagagli così pesanti appresso. E poi a chiedersi come poteva fare per trasmettere questo dramma, per prevenirlo e aiutare chi ci si trovasse coinvolto anche se non protagonista.
L’acciaio spillato dal forno viene trasferito al convertitore per l’affinazione, quel processo che si fa per eliminare elementi non graditi e poi raggiungere la composizione finale; si provava un nuovo sistema di soffiaggio per ottimizzare l’ossidazione del carbonio e per rimuovere le impurezze, gli ossidi indesiderati che potrebbero rimanere nell’acciaio e renderlo difettoso; è sempre uno spettacolo vedere questo liquido ribollente reagire e zampillare. Le dimensioni sono molto più piccole di quelle di Taranto tuttavia non è meno impressionante. Da questa postazione si vede bene la superficie; alla fine del processo il sistema si calma, l’arancione chiaro dell’acciaio a 1500 gradi non si vede più, piano piano si riforma lo strato di scoria di colore più scuro. Fra non più di mezz’ora si va a colare e nel giro di un’altra ora sarà solido. Sembra semplice a raccontarlo, ma dietro a questo c’è una sequenza di operazioni estremamente complesse fatta con impianti complicati e sofisticati, e c’è pure un intervento umano, che se non è sempre diretto, è comunque decisivo per avere un prodotto di qualità. Dietro ogni semplice oggetto di acciaio o di quello che chiamiamo ferro c’è non solo una tecnologia a volte estremamente sofisticata ma anche un lavoro complesso e articolato e la partecipazione di competenze e professionalità di moltissimi operatori. E rischio, perchè è un mestiere pericoloso, e tanto sudore, perchè è un mestiere faticoso e operato in condizioni estreme.
L’acciaio ricorda, ricorda tutto quello che ha subìto durante la sua fabbricazione; se è stato fatto male, se si è omessa qualche operazione, se si è forzato qualcosa, prima o poi uscirà fuori; uscirà fuori durante le lavorazioni successive oppure durante il suo impiego. La banalissima scatoletta del tonno può diventare letale se l’acciaio non è stato fatto a dovere; si perché se ci sono impurità, durante lo stampaggio potranno affiorare e diventare passanti e compromettere la tenuta del sistema che non sarà più isolato dall’aria. E allora si mette a repentaglio la vita di qualcuno. E questo è solo un esempio delle migliaia di applicazioni,
della responsabilità che tutti gli artefici di questo processo si portano appresso. Ed è un esempio di quanto l’acciaio si possa ricordare dei maltrattamenti, che magari affiorano dopo lunghissimo tempo dalla sua realizzazione. L’acciaio ricorda anche di quando era liquido. Quando ancora era nelle prime fasi di gestazione.
Questo era il processo cui avevamo assistito prima di partire. Finalmente si arriva, dopo una serie di gallerie interminabili. Davanti a noi il lago, sullo sfondo la meravigliosa cornice delle montagne di confine ancora innevate. Dei colori di una bellezza struggente, siamo al tramonto. Domani si va a visitare quest’altro sito.
9.Università
La sera si cena sul lago, non si parla più delle violenze, si parla di natura, di pesca. Ma la serenità che la natura meravigliosa infonde dura poco.
Ricevo una telefonata una telefonata da Lia, la moglie di Franco, l’ennesima telefonata a proposito di Roberto, il figlio più grande. Lui ha parlato con la madre, non ha il coraggio di affrontare il padre. All’università non è riuscito proprio ad ingranare. In realtà ha finto tutto, gli esami che avrebbe dovuto dare non è mai riuscito ad affrontarli. L’unico esame che ha dato è disegno.
Franco avrebbe fatto qualunque cosa per far studiare il figlio, per farlo riuscire dove lui aveva dovuto lasciare. Si è sempre rimproverato di non aver finito gli studi. Di aver lasciato a metà l’università. Sul lavoro, per il nostro lavoro, non essere laureati è un peccato originale, un peccato che si sconta in molti modi; non in tutte le realtà però.
È un peccato originale e poco importa se poi ti trovi un ingegnere che non vale un fico secco; sarà sempre considerato di più. Lo sapeva bene anche Domenico, una figura storica nell’acciaio italiano; uno che non si peritava certo di rendere ridicoli certi personaggi laureati e anche ben supportati che però a dispetto della loro laurea, e delle loro entrature, non capivano un granché. La sua cartina tornasole preferita era l’umidità della ghisa liquida, una assurdità ovviamente, quale umidità ci può essere in un liquido a 1350°C, ma parecchi ci cascavano; altrimenti ne aveva molte altre da sfoderare. Ricordo la sua ultima telefonata quando era in pensione ed era malato, dopo pochi mesi se ne andò.
Ma per fare questo si deve avere alle spalle una lunga carriera fatta di giornate passate sugli impianti a capire quello che succede, dove intervenire per migliorare, dove invece qualcuno fa qualcosa di sbagliato. E allora si ha voce in capitolo. Bisogna sudare molto per guadagnarsi questa credibilità.
Franco avrebbe voluto evitare tutto questo ai figli. E così quando il più grande dei figli si iscrisse ad ingegneria per lui era come l’avvicinarsi di un traguardo. Purtroppo però le cose non dovevano andare nel verso desiderato.
Insomma questo ragazzo si stava cacciando sempre di più in un guaio da cui ogni giorno che passava sarebbe stato sempre più difficile uscire. Poco tempo prima il nipote di un nostro collega si era suicidato in vista della laurea; una laurea che non era riuscito a prendere e aveva fatto finta per anni, ingannando tutti, di frequentare, fare esami e via dicendo, fino appunto a quel giorno tremendo in cui ha preferito scegliere questa soluzione definitiva piuttosto che confessare il suo fallimento; ma un genitore certo, per quanto possa rimanere deluso da un figlio che lo inganna e lo prende in giro, preferirà sempre questa delusione alla morte del figlio, a questa morte. Fu proprio Franco a raccontarmi questa storia.
Fortunatamente il figlio di Franco ha avuto dopo tre anni il coraggio di confessare il tutto alla madre, a Lia, che ha saputo poi gestire la cosa. Così lei mi telefonò per consigliarsi, per capire quale poteva essere il momento e il modo migliore di dirlo a Franco. Sapevamo tutti e due cosa significasse per lui lo studio del figlio, conoscevamo bene il tono con cui ne parlava, l’orgoglio e la soddisfazione che accompagnavano le sue parole. Mi veniva alla mente quando Franco andava cercando i libri di studio per il figlio, li chiedeva a tutti gli ingegneri e naturalmente io e molti altri gli abbiamo dato quelli che avevamo. Al solito, si sostituiva al figlio e lo faceva per cercare di non farlo sentire da solo. Ma gli eccessi, si sa, non portano mai all’equilibrio.
Alla fine la storia si risolve, anche questa. Un’altra storia pesante, ed è impossibile non pensare ad un collegamento con tutto il resto. Lia, sempre lei che regge tutto, parla spiega e mette le cose a posto, anche se certi problemi si ripresenteranno ed in modo anche peggiore.
10.Padri e figli
Se tuo padre ti ha fatto, sia pure indirettamente, qualcosa di grave quando eri bambino, il minimo che tu possa fare è di rimanere segnato e quando i segni sono solchi così profondi come quelli che la vicenda famigliare dell’infanzia di Franco hanno lasciato nel suo animo, allora è impossibile avere un comportamento del tutto equilibrato, in qualche modo, da qualche parte, si eccede; inevitabilmente si finisce per cercare di compensare quell’attenzione che non si è avuta, quel vuoto incolmabile che si è provato, dando quanto più si può ai figli, perchè non si debbano mai sentire così come si è amaramente provato sulla propria pelle.
E allora in certe situazioni si diventa troppo interventisti e i figli che non capiscono, non possono capire, alle volte reagiscono in modo imprevedibile.
Le acciaierie, qualunque prodotto sfornino, hanno sempre dei punti in comune; uno è costituito dagli odori caratteristici, qualcuno li definirebbe puzze tremende, ma chi ci lavora c’è abituato, gli sono familiari. Entri nei capannoni e anche se avessi gli occhi bendati capiresti quale lavorazione si svolge. Anche i problemi sono quasi sempre gli stessi, problemi di operatività, problemi di materiali, e anche problemi umani, alla fine.
Odori e rumori sono elementi sempre presenti che accompagnano il nostro lavoro. E anche nel fracasso sei capace di capire se c’è un rumore stonato, un qualcosa che non ci deve essere. E senti e ti accorgi, anche se comodamente seduto in ufficio, che il boato che hai sentito appartiene alla normalità oppure se c’è qualcosa di diverso. Te lo senti addosso e intuisci quando c’è qualcosa di strano, qualche situazione che inevitabilmente ha messo a rischio l’incolumità di chi lavora ed è in prima linea; si sviluppa una particolare sensibilità con il tempo e in queste situazioni anche se non sei presente ti senti le gambe molli e cominci a pensare a cosa e soprattutto a chi potrebbe essere rimasto coinvolto. Da noi c’è il cappellano, non a caso.
Negli ultimi anni si sono fatti passi da gigante per quanto riguarda la sicurezza. A Taranto mi ricordo che in una aiuola vicino ad una palazzina c’era una bramma messa in verticale sul lato lungo, rozzamente tagliata con una figura umana. Franco mi spiegò cosa rappresentava. Era una sorta di monumento ad un poveraccio che era finito nell’acciaio liquido, non si sa se volontariamente o per un incidente. Una fine orribile.
Gli era stato tributato questo ricordo.
Il padre di Franco non stava bene, erano anni, molti anni, che non si vedevano, d’altronde che ti vedi a fare se lo fai solo per una consuetudine, solo nelle feste comandate; cosa ci sarà da condividere se per una vita non si è andati d’accordo, se un padre ha rifiutato di vedere, di capire quello che non andava nel proprio figlio, se ha preferito liquidare il tutto nel modo più semplice e meno impegnativo…. “è strano questo ragazzo, vuole stare da solo, ci rifiuta…..” facile lavarsene le mani, facile chiamarsi sempre fuori…. È il padre il protagonista dei racconti di Franco, il resto della famiglia ha un ruolo comprimario.
“Sono andato a trovare mio padre”, nel piccolo gabbiotto di controllo del sistema di colaggio dei lingotti Franco mi racconta quest’altro frammento di storia; il colaggio è lungo, si tratta di un lingotto di grandi dimensioni e solo per riempire la lingottiera ci vuole un’ora, e i controlli da fare sono pochi, la pressione nell’autoclave, il getto attraverso la telecamera, le temperature che gli operatori prendono durante il colaggio. In questa fase c’è poco da intervenire, oramai tutto è stato fatto; le cose non si possono più correggere, c’è solo spazio per altri errori, non per migliorare. Si annota tutto e si vede il risultato ma se a monte si è fatto qualche errore e non si è aggiustato prima, ormai non c’è più nulla da fare.
Mi racconta la scena, al solito me la figuro come in un film, Il padre che lo vede entrare nella stanza, che sta seduto con una coperta sulle gambe, che lo saluta e non manca di fare una battuta sulla sua assenza. E Franco che gli butta addosso tutta la sua storia; che lo travolge con il racconto del suo dramma, un dramma di cui ha sempre visto il padre come il principale responsabile. Un padre che non sa cosa dire, che non riesce a dire nulla, una madre che assiste impotente alla scena e, anche lei, non sa cosa fare, che non riesce a sfuggire dal suo ruolo di comprimaria, di comparsa, anche in questo frangente. La scena si svolge in pochi minuti, e si chiude d’improvviso, quando Franco, incapace di rimanere davanti ai suoi genitori attoniti e ammutoliti, se ne va. Mi racconta tutto questo, e quanta rabbia, quanta emozione traspare.
Il colaggio è finito, ora si aggiunge la polvere per coprire il lingotto, si tratta di un composto ricco di alluminio che a quelle temperature reagisce violentemente e si brucia generando calore; in genere durante questa operazione si levano alte fiamme dagli oblò del coperchio dell’autoclave e si alza un denso fumo nero. Qualche volta la reazione è più violenta. La lunga fiammata si spegne nel giro di qualche minuto.
Ritorna la quiete. Sembra strano ma dopo il colaggio si deve evitare di dare troppi scossoni; non si deve rovinare il delicato equilibrio di questa enorme massa ancora liquida. Basta una anche brevissima scossa violenta per compiere un danno irreparabile che pregiudicherà la vita del più grosso e forte dei pezzi.
Si compila il report e si torna in ufficio. E’ inutile aggiungere altre parole.
Franco è riuscito a raccontare la sua storia al padre. Non lo ha fatto e non poteva farlo in un modo tranquillo non poteva essere il racconto pacato e magari doloroso che tanti figli hanno fatto ai loro genitori ripercorrendo gli inevitabili errori che i rispettivi genitori fanno quando si tirano su dei bambini. Non c’è il manuale di istruzioni per fare i genitori. La nostra è una macchina quasi perfetta ma manca il libretto delle istruzioni e si va a tentativi. Ma certi errori non si possono fare, certe situazioni non possono essere ignorate. Dalle parole di Franco emerge il sospetto che è più di un semplice sospetto che la madre fosse al corrente di tante cose, che la madre avesse capito se non altro della presenza dell’altra. E che non abbia mai fatto nulla per comodità, per non rinunciare ad una vita alla fine comoda e agiata.
Franco prova un sordo disprezzo per la madre, una persona che, secondo lui, ha barattato queste comodità con la propria dignità. Una madre che pur sapendo e vedendo non è mai intervenuta.
Qualche mese dopo il padre di Franco è morto.
Con la morte del padre nasce un altro dramma, nasce il dramma dei sensi di colpa, perché troppo è stata vicina questa morte allo sfogo. Perché è inevitabile che lui si sia sentito responsabile di questo. Ma non c’è riprova ovviamente, non ci sono certezze. Il padre era già malandato, e Franco aveva la necessità di dirgli quello che gli ha detto. Doveva farlo.
Quante volte gli ho detto che non si poteva fare carico di questo, che non si doveva colpevolizzare, che non è stata certo colpa sua se il padre è morto, ma niente, ormai il sospetto di aver sia pure indirettamente causato la morte del padre era saldo in lui. Così il giovamento, la soddisfazione di essere riuscito a tirare fuori la sua storia tremenda di fronte al padre si è trasformato in un terribile boomerang. Ma certe cose si fanno, si devono fare per sopravvivere, non si può pensare alle conseguenze. Una prova terribile, l’ennesima. Una prova da cui non poteva sottrarsi.
Mi raccontò poi Lia che il padre quando Franco stava andandosene commentò “ma proprio ora che ero riuscito a cancellare tutto doveva farsi vivo con questa storia?”
11.Famiglia
E allora mi torna alla mente un episodio di tanto tempo prima, quando neppure immaginavo cosa si
portava dentro quest’uomo. Un episodio che comunque mi ha colpito, quando incontrammo sul lavoro il fratello di Franco e che inquadrato in questa nuova luce assume un colore diverso.
Un giorno, a Taranto, ci chiamano, c’è da andare a vedere perché si spaccano delle bramme. Le bramme sono il prodotto del colaggio in continuo, a Taranto sono di dimensioni impressionanti. Parallelepipedi di acciaio di 10 metri di lunghezza 2 di larghezza e uno spessore di un quarto di metro. Eppure una di queste durante l’ispezione, mentre veniva rigirata, si spacca in mille pezzi, come fosse vetro.
Questa operazione viene effettuata con una enorme calamita, o meglio un elettromagnete. Ci vuole una certa perizia per tirarla su sul lato lungo e poi mollarla facendola ricadere ribaltandola. Ciò ovviamente avviene in un’area dedicata, e soprattutto fuori dalla portata di chiunque. La bramma quando viene ribaltata in questo modo, lo fa con fragore e sollevando un mucchio di polvere; si tratta infatti di una roba di una quarantina di tonnellate che ricadendo fanno tremare tutto quello che c’è intorno. Ma in questa occasione, quando siamo stati chiamati, la bramma, ricadendo, si è rotta in mille pezzi.
Arriviamo al parco bramme. Queste sono impilate come carte da gioco; ognuna riporta il suo numero, la sua identificazione. I mucchi sono alti anche qualche metro e fa una certa impressione girare fra i mucchi separati quel tanto che basta per far infilare le pinze con cui vegono afferrate. Alcuni mucchi poi emanano un calore insopportabile. Le bramme arrivano calde e vengono impilate subito così il calore si conserva molto a lungo. E sebbene abbiano perso il colore rosso sono magari a 500-600°C.
Cerchiamo un operatore del parco. Viene fuori un tizio che Franco sembra conoscere bene, ma con cui non si stabilisce quella relazione di empatia che normalmente contraddistingue gli scambi fra lui e i lavoratori che incontriamo in tutte le diverse aree di lavoro. Anche il tono di voce è diverso.
“È mio fratello” mi sussurra ad un certo punto.
In effetti c’era una certa somiglianza fra i due, ma nulla di tutto il resto faceva pensare ad una simile relazione fra loro. Poi, anni dopo, avrei capito il perché di tutto questo, di questa famiglia in cui lui, Franco, era un elemento che dava fastidio con i suoi comportamenti inspiegabili, una famiglia con cui lui ha voluto interrompere ogni tipo di rapporto e tagliare il più possibile. Poi avrei capito anche il perché, a volte, si cercano fratelli fra le persone vicine ma estranee alla famiglia, servono per sostituire quei fratelli che la vita ci ha negato ma non perché figli unici. A volte ci si sente più soli nelle famiglie numerose. A volte la
solitudine brucia molto di più quando ci sentiamo estranei in una folla.
Ci indica dove andare e in uno spiazzo troviamo i pezzi di bramma ammucchiati, almeno i più grossi. Altri sono sparsi in giro, ma si tratta di pezzi relativamente piccoli, schegge che magari pesano qualche decina di chili. La forma è quella tipica della rottura fragile, come il vetro che va in frantumi. E alcuni di questi frammenti vengono proiettati lontano. Fortunatamente nessuno era nel raggio delle proiezioni. Le superfici di frattura sono lucide e con mille sfaccettature. Non ci sono dubbi. A spaccare in questo modo questa poderosa lastra capace di resistere a carichi inimmaginabili non è stata l’immane forza di un gigante o di un evento naturale.
No, niente di tutto questo.
A spaccare questa bramma è un qualcosa di invisibile, qualcosa di estremamente piccolo ma terribilmente subdolo, qualcosa che si insinua nel reticolo apparentemente impenetrabile dell’acciaio e silenziosamente si sposta nel suo interno per accumularsi in qualche punto debole. Laddove il reticolo cristallino ha una distorsione, una lacuna, una mancanza. E’ l’elemento più piccolo che c’è, l’idrogeno. Il meccanismo non è ancora chiarissimo ma si sa che l’accumularsi di queste molecole piccolissime provoca all’interno della struttura delle pressioni elevatissime, in corrispondenza dei punti deboli; e allora è sufficiente una
sollecitazione anche piccola dall’esterno, un qualcosa che altrimenti sarebbe più che sopportabile, per spaccare in mille pezzi il più robusto dei pezzi. E più grandi e massicci sono i pezzi, più è pericoloso l’accumularsi di questo elemento perché è più difficile che riesca ad uscire.
Non amava parlare della sua famiglia di provenienza. Mi cominciò a parlare della sorella quando lei si ammalò, non molti anni fa. E ne parlava sotto certi aspetti in modo anche lusinghiero. Ne ammirava alcune sue caratteristiche, come quella di entrare in empatia e in relazione, in modo immediato, con persone difficili, problematiche o menomate. C’era però sempre un’ombra di avversione; la sorella sapeva, come poi risultò da alcuni discorsi usciti proprio quando Franco andò a parlare con il padre; quante cose, però, sapesse della torbida storia familiare non sono riuscito a capirlo.
12.Altri ricordi
Siamo a Romena, sono passati molti anni da quanto ho narrato sopra; ora un’altra terribile sfida è piombata nella vita di Franco; è malato, molto. Sono quasi due anni che combatte con un male terribile, al cervello. È stato operato due volte. Per due volte fra le mani e il bisturi di un chirurgo; una persona abilissima e anche molto umana, con cui Franco ha stabilito fin da subito un rapporto che supera di gran lunga quello che normalmente si instaura fra paziente e medico. Per due volte, dicevo, è stato operato in testa poi quando la malattia era già in corso, o meglio, quando la malattia è regredita al punto di non apparire più negli esami, siamo andati di nuovo a Romena per un paio di giorni. Franco voleva parlare con Gigi, Lia voleva che Franco parlasse con Gigi. Negli ultimi tempi la malattia, il peso di questa su tutta la famiglia, una famiglia centrata sulla figura di Franco, stava rovinando i rapporti fra loro. Purtroppo le cose squilibrate non si rimettono mai a posto da sole. Ad uno squilibrio se ne aggiunge un altro e poi ancora altri, tutti per cercare di bilanciare la situazione ma in realtà il risultato non è mai una condizione di equilibrio stabile. E allora ogni minima perturbazione può creare disastri.
Quando mi espresse il desiderio di andare mi sono offerto subito di accompagnarlo. Così andammo.
Durante il viaggio apprendo altri particolari su quei momenti terribili dell’infanzia. Gli interventi alla testa provocano normalmente effetti collaterali, quali attacchi di epilessia che sono in qualche modo controllati dalla somministrazione di farmaci appositi. Dipende certamente anche dalla zona cerebrale interessata. Non solo, questo in Franco ha provocato un rimescolamento, è ricominciato a farsi sentire il maledetto motivetto, la canzoncina della violenza. Insieme a questo stanno riemergendo ricordi sommersi. Come quando il padre lo chiudeva in bagno per punirlo perché non voleva imparare a leggere l’orologio; dai ricordi sembra che ce lo abbia tenuto fino a che lui non è riuscito a dire l’ora corretta. E andava male a scuola. Come questi, altri ricordi precedenti, altrettanto, se non più torbidi.
“Una volta, prima della violenza, la sera andai in giro per casa e sbirciai senza farmi vedere mio padre sopra a mia madre e lei si lamentava, e naturalmente non capii cosa stava succedendo, ma quei gemiti mi sembravano di dolore e pensai a perché mio padre stesse facendo del male alla mamma….” Ecco altri tasselli che si aggiungono “non molto tempo dopo, mia madre era scesa a Taranto per assistere la nonna che doveva subire una operazione, mi successe, era mattina presto, di sentire altri rumori, accompagnati da gridolini di gioia e soddisfazione. Mi affacciai e mio padre stava sul letto con lei, la segretaria. Si accorgono di me, io scappo e mi vado a nascondere dietro una tenda, una tenda praticamente trasparente. Lei mi vede subito, ovviamente, ma non mi rimprovera, tutt’altro. Mi chiama, sta al gioco, recupera la situazione guadagnandosi la fiducia di quel bambino di 8 anni che già aveva visto troppe cose che sarebbe stato molto meglio non vedere. Ecco che quando mio padre doveva partire a sua volta per lavoro fu quasi automatico che lei rimanesse con noi.”
Ecco, lei, la troia, come la chiama Franco, era riuscita a carpire la fiducia di un bambino di pochi anni, a superare la sua diffidenza e i suoi timori. Chissà se nella sua mente malata già pensava alla violenza che avrebbe poi messo in atto, chissà se aveva già pianificato tutto oppure se è tutto venuto improvvisamente.
Cosa è successo poi, quali altri segreti ci sono in questa storia? Quel giorno quando il padre e la sua amante hanno sorpreso Franco che li spiava; dopo, dopo che lei lo aveva trovato dietro la tenda, cosa hanno fatto? Cosa gli hanno fatto? Perché il padre ha detto quelle cose quando Franco lo è andato a trovare ormai alla fine della vita? E’ come se sapesse, se fosse a conoscenza di qualcosa. E tutto fa pensare che sia qualcos’altro.
E poi Franco continua, racconta dei suoi incontri, di tutte le donne con cui aveva questi rapporti occasionali, rapporti in cui usciva fuori il bambino di 8 anni, sempre. E un bambino di 8 anni non conclude il rapporto, non viene, e ogni volta era così un atto ripetuto indefinitamente, in modo meccanico e per lungo tempo. Una situazione molto apprezzata dalla partner di turno. Una situazione che per lui era invece soltanto la perpetuazione di quella violenza, senza quel trasporto e quel piacere che dovrebbero sempre accompagnare l’atto d’amore. E se la partner non poteva capire la tempesta all’interno di quell’uomo che era in quel frangente solo un bimbo di 8 anni, e ne coglieva solo l’aspetto per lei positivo sul momento, nemmeno amici e conoscenti potevano afferrare qualcosa di questo dramma. Anzi un uomo con tutte queste donne, era visto come un uomo fortunato e sicuramente un grande amatore. Mi aveva già
raccontato di queste storie ma mai interpretandole così. Poi aggiunge altri particolari della sua vita in quel periodo, di un amico poliomelitico ma grande amatore anche lui, con cui per un periodo della sua vita aveva diviso la casa a Venezia. E poi di due amiche che abitavano in una città vicina, non ricordo ma forse era Padova, e la scoperta che costoro si mantenevano vendendosi. In quel momento si sono accavallati ricordi di quella parte della sua vita, in un modo un po’ confuso e ho faticato a tenere il filo dei racconti.
A Romena ci sono dei momenti di preghiera in cui ognuno partecipa nel modo che preferisce. E la sera prima della cena ci si riunì, le persone presenti in quel momento nella fraternità, per questo momento di riflessione e condivisione. Quando è finito Franco mi confida che era sul punto di tirare fuori la sua storia, io gli dissi che probabilmente non era la situazione adatta; bisogna essere preparati anche a ricevere certe confidenze; non sono materia per tutti in ogni momento. Io non credo nelle preghiere, ma nella condivisione si. E sono stato ben contento che la sera non abbia tirato fuori la sua storia. Al mattino ugualmente si ripete questo momento, e allora Franco inizia a parlare; fortunatamente nel raccontare il perché era stato lì tanti anni fa, solo un accenno alla storia della violenza. “Sono venuto qui perché avevo un maledetto motivetto in testa…” ma non ha specificato il perché. “La permanenza a Romena mi ha permesso di liberarmi di questa canzoncina, ora sono tornato perché purtroppo a seguito di quello che ho subito per la malattia, mi è tornato in mente…” Tutti i presenti, pur non capendo a fondo di cosa parlasse, hanno percepito che il dramma di Franco non era la malattia, terribile, che lo sta affliggendo adesso, e tutte le cure connesse. No, hanno capito perfettamente che dietro c’era un dramma di portata molto più grande e di origini molto più lontane.
Ben fatto. Sei riuscito a trasmettere quello che provavi senza entrare in dettagli che per qualcuno sarebbero potuti essere troppo forti. Hai fatto capire le difficoltà della tua vita in un modo pacato e senza traumatizzare chi ti stava intorno. Infatti alcune persone che in quei giorni erano lì e partecipavano a queste condivisioni mi sembravano molto fragili, in un momento delicato della loro vita. Spesso chi è in questo stato si ferma a Romena, dove trova accoglienza e comprensione a prescindere. Ed è stato importante rispettare questo loro stato d’animo.
E, sempre in quella occasione, il ricordo delle medicine che gli davano per placare la sua irrequietezza, la sua incapacità di stare fermo, per aiutarlo a dormire. E si perché incapaci di spiegarsi questa agitazione, oppure incapaci di affrontarla, i genitori lo portarono da uno psichiatra, anche se lui si ricorda di uno psicologo. In realtà era qualcuno in grado di poter prescrivere medicine, non poteva essere uno psicologo. E questo giù a dargli calmanti e psicofarmaci, che certo non hanno migliorato la situazione.
13.Psicologi.
Lui ha una sfiducia totale nella categoria, così adesso che si trova in una condizione di bisogno non riesce ad aprirsi completamente, perché quando si ha una malattia come la sua, c’è bisogno di sostegno, non c’è dubbio. Ma per avere il sostegno bisogna aver fiducia in chi ci è vicino, in chi ci ascolta. Franco ora rischia di rovinare il rapporto con il suo figlio minore, che non riesce a sopportare la situazione pesante di avere una persona così provata in casa. Già prima era difficile avere un rapporto lineare con il padre, è inevitabile quando la vita ti ha segnato così tanto. Ma adesso questo sarebbe rovinoso. Lia al solito cerca di rimediare, smuove ogni cosa per uscire da questa ennesima situazione negativa.
Già perché il ragazzo più grande, Roberto, dopo la storia dell’università si è messo a lavorare. E’ un ragazzo capace. Il padre voleva farlo entrare nel mondo dell’acciaio, e ci sarebbe anche riuscito, ma il figlio non ha voluto. Ha preferito entrare nella grande distribuzione. Ma questo ha condotto al definitivo allontanamento del ragazzo dalla famiglia. Infatti sul posto di lavoro conosce una donna ben più grande di lui. Si cominciano a frequentare e si innamorano. La famiglia non si oppone a questa scelta. Anzi accolgono questa donna in modo esemplare, e inizialmente le cose sembrano svilupparsi in armonia. In seguito diversi fatti iniziano a turbare l’equilibrio iniziale. Tutto inizia con un ricovero in ospedale di lei. All’inizio si pensava ad una malattia molto seria, poi si è capito che invece era tutt’altro. E da questo Lia ha capito una serie di cose sulla ragazza. Ha capito che così come sulla malattia, la ragazza aveva mentito su molte altre cose. Questo ha portato ad una radicalizzazione della situazione.
I rapporti si son deteriorati, la ragazza di 13 anni più grande di lui ha avuto facile gioco nell’influenzare Roberto e i due hanno rotto completamente i rapporti con la famiglia. I due si sono voluti sposare e per lungo tempo hanno cercato un prete che celebrasse; sono andati persino a Romena. Ma Gigi, come già altri, ha detto loro che dovevano prima risolvere la situazione con la famiglia di Franco e poi avrebbe potuto e voluto sposarli. Alla fine hanno trovato un familiare di lei che li ha sposati, in un posto lontano. Sono andati a vivere insieme e Roberto non ha mai voluto tornare sui suoi passi. Tant’è, e questo è veramente tremendo, quando il padre è stato in ospedale e si è sottoposto per due volte ad un intervento pericolosissimo lui è andato a trovarlo per pochi minuti. Ricordo quando mi telefonò pochi giorni prima del primo intervento. Mi disse senza giri di parole che avrebbe avuto piacere di vedermi, anche perché non era sicuro di risvegliarsi più. E se aveva desiderio di vedere i suoi più cari amici ne aveva sicuramente di più di incontrare questo figlio ormai lontano.
L’acciaio si deforma in modo sorprendente, è capace di assorbire una quantità di energia enorme e questa proprietà si chiama resilienza, una parola un tempo appannaggio di soli ingegneri, ora invece di moda; queste qualità sono originate da microscopici difetti nel reticolo cristallino, difetti che permettono agli strati di materiale di scorrere internamente permettendo la deformazione. Dai piccoli difetti nascono queste grandi proprietà dell’acciaio che ci permettono di utilizzarlo nelle mille applicazioni che ha. Certo le imperfezioni sono microscopiche, se fossero più grandi comprometterebbero la possibilità di usare il materiale, ma se non ci fossero, se il reticolo cristallino fosse perfetto l’acciaio sarebbe inutilizzabile, sarebbe un inutile materiale durissimo e indeformabile. La natura ci sorprende sempre e annulla l’illusione della perfezione, anzi sono le imperfezioni a dare le proprietà più valide e utili.
“Massimo scusa se ti disturbo, devo dirti una cosa.” Massimo è un alto dirigente dell’azienda dove lavoro. Una persona con cui non sono sempre andato pienamente d’accordo. Ma è una persona in gamba, su alcune cose abbiamo avuto punti di vista anche molto diversi e siamo arrivati a discutere anche in modo molto animato. “Massimo, ti volevo dire di Franco. Ormai non c’è più nulla da fare. Quando hai un momento di tempo sentilo. Sai quanto gli farebbe piacere”
Lui non dice una parola. Io non ne aggiungo altre. Rimane con lo sguardo fisso nel vuoto per diverso tempo. Poi ci scuotiamo tutti e due da questa inevitabile riflessione. Si perchè Franco ci ha sempre abituati troppo bene. Le mille difficoltà della sua vita le ha sempre affrontate a viso aperto. E ogni cosa riusciva a trovare una soluzione. E anche stavolta alle prese con un male terribile, un male che normalmente in poco più di un anno porta alla morte, lui sembrava resistere rintuzzando i tentativi del male di riformarsi, operandosi due volte in testa. Ma poi alla fine ha ceduto anche lui, e noi che ci siamo voluti illudere ci troviamo di fronte questa triste realtà.
In questi ultimi mesi l’atmosfera nella loro casa era nettamente migliorata. Fabrizio ha messo da parte ogni recriminazione verso il padre, verso la sua troppa presenza, il suo decisionismo, si perché questo enorme squilibrio patito da Franco nella sua infanzia si è trasformato in una pressione eccessiva verso i figli. La totale e colpevole assenza di suo padre ha scatenato la reazione opposta, una presenza eccessiva e un intervento continuo nelle attività dei figli, un intervento che ha sortito effetti opposti a quelli desiderati. Ma come biasimarlo. Franco avrebbe desiderato più di ogni altra cosa un qualunque gesto di attenzione da parte del padre e non quel rifiuto per questo figlio.
In questi ultimi mesi la consapevolezza dell’avvicinarsi della fine ha dato loro la forza e la voglia di superare tutto e finalmente ogni tensione è scomparsa, ma rimaneva la lontananza dell’altro figlio, Roberto, che nonostante fosse a conoscenza delle condizioni del padre aveva smesso di incontrarlo, si perché per un periodo negli ultimi tempi si erano sentiti e visti, ma ciò senza che gli altri familiari partecipassero. Tutto finchè Franco non ha chiesto al ragazzo di tornare ad avere relazioni con la madre e il fratello.
E allora all’aggravarsi della situazione ci si è mossi un po’ tutti per cercare di ricucire la situazione; Franco pur senza nominarlo direttamente manifestava una gran voglia di rivedere il figlio.
Ho ancora in mente le parole gonfie di stupido orgoglio di Roberto che incapace di tornare sui suoi passi diceva che non avrebbe mai più voluto rivedere la madre. Inutili i tentativi di farlo riflettere sul fatto che ci sono situazioni irreversibili. Quando lo farà sarà terribile per lui; e più tardi capirà e peggio starà. Terrificante il messaggio mandato alla madre che per un’ultima volta aveva disperatamente tentato di farlo tornare a trovare il padre.
E giorni fa, mi raccontava Lia, Franco si chiedeva perché anche questa cosa gli doveva succedere; non bastava tutto quello che la vita gli aveva riservato; tutti gli ostacoli e tutte le sofferenze, il tutto culminato con la malattia; e per ultimo questo figlio incapace di andare oltre, di superare i contrasti e dare un ultimo saluto al padre. Perché?
E questa domanda continua a essere presente.
Diceva Lia “Non voglio esserci quando si renderà conto di quello che ha fatto”.
14.La malattia
Un giorno mi telefona Lia, Franco era in pensione già da un po’, noi ci sentivamo spesso e qualche volta li andavo anche a trovare. Mi telefona, era di lunedì, e mi racconta che il giorno prima erano andati a Rieti con un amico comune e che era successa una cosa molto inquietante. Franco guidava la macchina e ad un certo punto stava invadendo la corsia opposta senza rendersene conto. L’amico molto prontamente si rende conto della cosa e corregge la sterzata; riescono ad accostare e fermarsi. Lui avrebbe ripreso la guida ma l’amico e Lia riescono a convincerlo che è meglio di no. D’altronde non ci si riesce a spiegare la cosa; Franco non ricorda nulla, è come se avesse avuto un black-out di qualche secondo.
Qualche giorno dopo gli accertamenti rilevano un qualcosa che non ci dovrebbe essere. Si decide di operare al più presto. Il chirurgo è una persona molto disponibile e anche molto preparata, di fama internazionale. Opera non solo a Terni ma anche negli Stati Uniti. Inutile dire che rimane subito colpito da questo paziente che vuole sapere tutto, che pretende di essere messo al corrente di ogni cosa, che scherza anche sulla malattia. Con Franco, ovviamente, c’è sempre Lia, e loro affrontano insieme questa altra, ennesima prova terribile che la vita mette loro davanti.
Una operazione molto delicata; come tutte le operazioni in testa. Lo vado a trovare prima dell’intervento, lui mi ha chiamato e mi ha detto molto chiaramente che c’è il rischio che non ci si veda più. Si passa un po’ di tempo insieme e si parla del più e del meno. Franco naturalmente fa una accurata descrizione dell’intervento e di quello che dovrà subire. Mi racconta del chirurgo e del suo rapporto con lui, un rapporto diretto e disteso. Bene, bisogna essere completamente fiduciosi nella persona che ti aprirà la testa.
L’operazione va bene; gli esami istologici danno però la peggiore delle sentenze. Si tratta della peggiore forma di tumore al cervello; una forma che mediamente concede non più di sedici mesi di vita. Franco naturalmente lo studia e approfondisce. Non sembra stupito di questa cosa. Un giorno poi, molto tempo dopo, fa questa amara considerazione che fra tutte le possibili forme proprio quella gli doveva toccare, quella da cui non c’è scampo.
“Fra tutti i mali che possono prendere alla testa proprio quello che non lascia nessuna possibilità mi doveva capitare”
L’operazione è superata brillantemente; inizia il calvario della chemio. Franco è molto indebolito da questa cura. Comincia anche a fare una dieta vegetariana e si beve grandi bibitoni a base di aloe e altre cose che si dice facciano bene in questi casi.
Ogni volta che fa le analisi però suscita l’ammirazione del consesso di medici che segue e analizza la sua malattia. I valori ematici sono sempre molto buoni nonostante la chemio.
Lui è però debole e spesso non se la sente nemmeno di alzarsi e fare una passeggiatina. Lia e Fabrizio che gli stanno vicino ne soffrono. Ne soffrono perché la sua presenza è molto pesante e si ha la sensazione che si voglia adagiare e non voglia cogliere questo dono dell’essersi liberato, sia pure in modo temporaneo, della malattia. La situazione in alcuni momenti si appesantisce. Dall’ospedale consigliano uno psicologo, ne affiancano sempre uno ai malati di tumore. Inizialmente è una battaglia perché Franco non ne vuole sapere, memore delle terribili sedute cui era costretto da bambino e soprattutto dei farmaci che gli venivano somministrati al tempo; farmaci che però vengono prescritti da medici, non da psicologi. Così ciascuno di noi fa la sua parte per convincerlo dell’utilità di un ciclo di colloqui con uno psicologo.
Ne cambia più di uno; sono quasi tutte donne. Naturalmente rimangono colpiti dalla sua storia. In qualche modo riescono ad affrontarlo. Ho la sensazione, dai suoi racconti, che non tutti quelli con cui ha parlato avessero gli strumenti per affrontare la sua personalità e i mille risvolti della sua vita.
Pochi mesi dopo la prima operazione il male si ripresenta e si può soltanto agire operando di nuovo. Ed ecco la seconda operazione; nuovamente gli aprono la testa; nuovamente supera l’operazione nel modo migliore e si riprende; poi si ricomincia con la chemio che fa per un anno intero. Sono più di tre anni da quando ha scoperto la malattia; finisce il ciclo di chemio e in qualche modo si vede. Si sente meglio anche se debolezza perdite di equilibrio e anche svenimenti sono sempre in agguato.
Passa ancora del tempo e arriva il momento che abbiamo tutti sempre temuto; il male si è rifatto vivo ed è in una posizione che non è operabile. A questo punto c’è poco da fare.
“Dov’è l’Hospice di Terni?” domando ad un giovane collega che me lo speiga rapidamente. “Dovrei andarci. Devo andare a trovare una persona” “Se vuoi ti presto la mia macchina” “No grazie andrò in bici”. Una Mecedes nuova fiammante, non me la sono sentita. Meglio in bici. E poi in bici si ha il tempo di riflettere e di digerire questi momenti.
Così mi viene in mente di quando i primi tempi che stava qui, Franco mi chiamò. Si doveva occiupare di un problema che si presentava in modo ripetitivo durante il colaggio di acciai magnetici, una produzione che ora non si fa più. Incidenti roivinosi che non si sarebbero dovuti verificare su una macchina così lenta.
Sebbene io mi occupassi già di altro andai subito a vedere il pezzo che avevano tirato fuori dalla macchina, insieme a lui, così come avevamo fatto tante volte a Taranto. “Franco guarda, questa polvere è nera, l’hanno aggiunta dopo l’incidente…” Eh, si perché per fare le cose bene, bisogna rispettare alcune regole. Così come in tutti i campi. Un errore umano, anzi, una negligenza. E un tentativo maldestro di mascherarlo. Ecco spiegato l’arcano. Sono poche le cose assolutamente da non fare. E questi ne avevano fatta una. E le conseguenze sono state disastrose.
Arrivo all’Hospice, in cima ad una salita che si chiama, chissà perché poi, la via dell’amore. Le indicazioni sono state preziose. L’ambiente è molto curato, il personale è gentile. Franco dorme. Una giovane infermiera viene e molto delicatamente lo sveglia. Si parla un po’. Lui fa fatica e si esprime in modo molto difficoltoso. Ma si fa capire. Mi dice che è stato poco prima lì l’ex capo del personale ora in pensione. Si parla poco. Gli racconto qualcosa degli sviluppi delle vicissitudini aziendali. Ma tutto ora ha molto poco senso e lui non sembra nemmeno stare a sentire, e io ho molta difficoltà a fare come se non stesse in questa situazione, a cercare di essere indifferente.
Ci sono tornato molte volte lì. Il più delle volte lo trovavo in uno stato di semi incoscienza, sedato da antidoilorifici e morfina, Ma quando apre gli occhi mi vede e se anche non dice nulla, o prova a dirmi qualcosa, ci capiamo.
Ormai quando lo vado a trovare gli prendo la mano e qualche volta apre gli occhi. Non riesce a dire quasi nulla. Una volta mi sussurra che ha freddo, tanto freddo. Mi spavento. Ma poi cerco una coperta e gliela metto sopra. Una volta uscito chiamo Lia e mi assicuro che stia venendo.
Alla fine lo riportano a casa. Passo a trovarlo per l’ultima volta. Sapevo che non lo avrei più visto. In casa fa un freddo tremendo. Parlo un po’ con Lia. Poi andiamo nella stanza dove sta lui. Lo saluto, lo carezzo, e credo che mi abbia visto e riconosciuto, nei suoi occhi ormai vuoti vedo un lampo, una reazione.
Me ne vado.
Torno a Marmore tre giorni dopo, per il suo funerale; c’è molta gente. Colleghi ed ex colleghi che non vedevo da anni. Il prete almeno evita di parlare di lui. Confessa di essere arivato da poco e di non conoscerlo.
Gli sono grato per questo. Non si è lanciato in quei falsi e ipocriti discorsi che spesso si fanno in queste occasioni, discorsi che avrebbero offeso la memoria di Franco e la sua franchezza.
Nel ritrovare tante persone che con cui ho lavorato riaffiorano ricordi di ogni genere. Si mescola la tristezza profonda del momento con il piacere di rivedere persone con cui si sono divisi momenti importanti della propria vita. Un po’ come un incontro fra reduci. E si affacciano alla mente mille episodi, mentre torno a Roma in macchina.
E mi ripassa avanti la storia di questa conoscenza straordinaria, diventata amicizia e fratellanza durata 26 o 27 anni. Iniziata a Taranto quando ce lo siamo trovati davanti io e Pietro. “Da oggi lavorerà con voi” disse il capo. I primi contatti, le prime uscite in un ambiente in cui lui la faceva da padrone, conoscendo e salutando tutti, dal più umile operaio al capo servizio e ai più alti dirigenti. Domenico, che subito lo prese in simpatia, un altro collega che invece ne cominciò a sparlare, che imbecille!, salvo poi cambiare registro
forse per aver approfondito la sua conoscenza, forse per timore delle conoscenze che Franco aveva. E poi in mille sopralluoghi in accaieria, sulle colate continue. Quella volta che alle 11 di mattina ci offrirono un bicchiere colmo di primitivo quando capitammo nell’orario di mensa del primo turno. Un vino che colorava i bicchieri. “Ingegnere, beva un po’ di vino alla nostra salute!” Una prova di forza. Siamo usciti un po’ brilli, cercando di non darlo a vedere, ma da quel giorno ci hanno guardato con più rispetto. E così fino a quando sono andato via da Taranto. Poi quando ci siamo ritrovati a Terni, e all’inizio non ci vedevamo spesso. E ancora di nuovo alle prese con la materia fusa, il colaggio dei lingotti. Il periodo in cui siamo stati in giro per le acciaierie del nord insieme. Fino al momento della sua pensione. Poi la malattia e il lungo calvario fatto di soffrenze tremende e di speranze. E inframmezzato con il lavoro questo intreccio di situazioni familiari, un passato che tornava sempre presente, un accavallarsi di problemi e di esiti mai del tutto definitivi e risolutori. E poi le sue ultime immagini. Fra queste una in particolare.
Arrivo lì, all’Hospice, e dorme. C’è Lia e parliamo un po’. Poi quando stavo per andare via si sveglia. O, forse è Lia che lo sveglia. “Saluta Emilio che sta tornando al lavoro”. Mi guarda e dopo un attimo mormora: “Fanculo”.
Si, il vaffanculo più importante della mia vita. Una parola in cui c’è tutto. Si, una parola che ricorderò sempre, forse l’ultima che è riuscito a dirmi chiaramente.
Lo guardo “Come?”
“Fanculo”
Grazie, infinitamente grazie.
Postfazione
C’è stato un momento della mia vita in cui ho iniziato a percepire le persone non solo come dei semplici esseri viventi, ma come dei portatori di storie. Un giorno ho capito che ognuno di noi ha una sua storia. Per carità, non che prima lo ignorassi, semplicemente non davo peso a questa cosa, non la consideravo importante. Poi mi sono ritrovato intorno ad un tavolo con venticinque sconosciuti e nel giro di poche ore ho conosciuto le loro storie, o meglio quella parte inconfessabile delle loro storie, quei segreti che si tengono stretti, che non si raccontano proprio per la paura di raccontarli, di scoprirsi troppo e rendersi troppo vulnerabili; oppure non si raccontano per la vergogna. E lì ho capito quanto fossero preziosi e quanto importante sia quando qualcuno te li dona. E sono queste parti oscure che fanno la storia delle persone, che le plasmano e le forgiano.
Ogni essere umano ha una storia di questo genere alle sue spalle, e questa storia ne influenza i
comportamenti, le azioni, il modo di rapportarsi verso gli altri. E questo poi si complica ancora. Gli altri non sono un tutt’uno e i nostri comportamenti variano a seconda di chi abbiamo intorno. E variano di molto. Non sto parlando di atteggiamenti controllabili e gestibili; ad esempio molte persone cambiano atteggiamento se hanno davanti una persona che riveste qualche interesse per loro. No, non sto parlando di questo. Sto parlando di quello che succede in modo incontrollabile e che sembra diretto da qualcuno o qualcosa di esterno.
Molte volte ci si domanda “ma perché ho fatto questo?”, “perché di fronte a quella persona mi sono comportato così?”. E normalmente non si trovano spiegazioni a comportamenti che qualcuno direbbe pilotati dal subconscio.
Mettersi in ascolto delle storie altrui, cercare di comprenderle, è un ottimo modo di interagire con gli altri. Si scoprono dettagli sorprendenti, non sempre in modo positivo, a volte molto scabrosi. Si riesce poi ad inquadrare veramente una persona solo quando si conoscono tutti questi dettagli e solo allora si può dire di conoscerla a fondo.
Ascoltando le persone in questo modo, un modo che non prevede giudizi, un modo che è fatto di tante orecchie e poca bocca, si fa un qualcosa di molto positivo nei confronti degli altri ma anche di se stessi. Si cresce sui racconti altrui, si cresce a patto di non cadere nella trappola del giudizio. Si fa del bene agli altri ma lo si fa prima a sé stessi.
Questo passaggio fondamentale della mia vita è avvenuto a partire da una dozzina di anni fa. Ed è un passaggio di crescita. Uno dei fautori di questa mia crescita è il protagonista di questo racconto, un racconto che narra una serie di episodi avvenuti in 26 anni di conoscenza. Un racconto che parte proprio dall’ascolto della storia tremenda e quasi incredibile di quest’uomo. Una storia che sembra un cammino disseminato di ostacoli che vengono affrontati sempre a testa alta dal protagonista. Una storia in cui il destino sembra accanirsi con questa persona, e non si capisce quanto noi possiamo essere arbitri di questo destino, quanto invece il nostro passato possa influenzare l’andamento delle cose che subiamo e quanto ancora è deciso dal caso.
Sono domande senza risposta, ovviamente. Non esistono mai le controprove. Non si può mai sapere come sarebbe andata se si fosse agito in modo diverso oppure se una certa cosa non fosse capitata. È quindi inutile recriminare. Ciò non vuol dire certo subire passivamente ogni cosa. No, non va bene nemmeno questo. Queste domande però accompagnano la nostra esistenza, la tormentano a volte, e dovremmo essere in grado di smettere di assediare la nostra mente con questi interrogativi.
In questa storia ci sono un po’ tutte queste cose. Si assommano situazioni inevitabili a scelte più o meno condizionate dal passato, un passato sempre presente e sempre ricorrente. Un passato che non si può cancellare ma si può soltanto superare, e lasciare, per quanto si può, andare.
Il protagonista di questa storia è una di quelle persone che non lasciano spazio a mezzi termini. Non li ha mai usati lui, non li ha mai usati nei suoi confronti chi gli stava intorno. Mi spiego meglio: è una persona che si può soltanto amare o odiare, o se non odiare, tenere a distanza con una punta di fastidio. E allora se si rientra nella prima categoria gli si perdona tutto o quasi. Gli si perdonano quegli atteggiamenti di vera e propria invasione delle vite private altrui. Gli si perdonano quei suoi modi spesso esagerati e a volte anche provocatori. Gli si perdona quel suo egoismo nei confronti della famiglia, un egoismo però derivante da un
passato malato. Un egoismo che sarebbe più corretto definire egocentrismo, che si capisce, approfondendo la storia, essere originato da una enorme privazione subita nell’infanzia; la privazione dell’affetto genitoriale. Un egoismo che contrasta in modo stridente con la sua generosità, anche essa, a volte, eccessiva. Una generosità che è spesso animata dalla sua voglia di intervenire, di fare, di modificare le situazioni della vita dei propri familiari e delle persone a lui vicine.
Se invece si propende per la seconda opzione allora diventa una persona poco affidabile, in qualche modo detestabile perché troppo invadente e dai modi sopra le righe. Una persona che con il suo modo di fare, “Franco di nome e di fatto”, non si è guadagnata troppe simpatie soprattutto da parte di chi è abituato a parlar male degli altri, a denigrarli per paura di essere dagli altri superato.
D’altronde si parla di una persona fortemente provata dalla vita, una persona che ha sofferto molto e in modo anche drammatico. E questo fin dalla tenera età; e sappiamo molto bene che quello che succede nell’infanzia condiziona la nostra vita in un modo che poi è quasi impossibile correggere. E allora ad uno squilibrio iniziale se ne aggiungono altri e per quanto ci si possa lavorare sopra ci saranno sempre cose lasciate indietro. E questo si traduce in contraddizioni, comportamenti non sempre comprensibili e non sempre equi ed equilibrati; soprattutto con i propri familiari. E questo è proprio quello che è accaduto al
protagonista di questa storia.
Un altro elemento fondamentale della storia è la Fraternità di Romena. Luogo che ho conosciuto grazie a lui e per questo gli sarò sempre grato. Un posto in cui si dimostra in modo quasi banale quello che sembra un miracolo; cioè il riuscire a intessere rapporti anche molto profondi, a parlare di cose estremamente intime come i propri segreti più oscuri, con persone del tutto sconosciute. Insomma si dimostra nei fatti come l’abbandonare ogni forma di diffidenza verso il prossimo sia il segeto per entrare in contatto con il mondo circostante e rapportarcisi nel modo migliore. E questo non perché ci sia una selezione; no, a Romena capitano le stesse persone che troviamo nel resto del mondo, quello che odiamo perché ci ha tagliato la strada in macchina, quell’altra che ci passa avanti nella fila alla cassa del supermercato e via dicendo. E allora la differenza la fa proprio la rottura di questa barriera difensiva che in qualche modo isola la nostra parte più preziosa dal contatto con l’esterno. Si frequenta Romena, e veramente bastano poche ore per rendersene conto, e questa barriera crolla.
Un’altra caratteristica di questo posto è l’accoglienza. Si, ci si sente invariabilmente a casa propria. Questo a volte viene un po’ travisato da qualche persona che dimentica il fatto che tutti provano questa sensazione per cui la casa di tutti è in realtà la casa dove nessuno è padrone. Ma è inevitabile anche questo. Fa parte della natura umana. L’accoglienza si sposa benissimo con la fiducia verso gli altri di cui parlavo prima. Il sentirsi a casa propria è infatti condizione fondamentale per affidarsi. In fondo nella propria casa ci si sente protetti più che da ogni altra parte. E così viene facile aprirsi ed entrare in contatto con chiunque si abbia a tiro, senza forzature, senza diffidenza. In un mondo basato sulla paura, un mondo in cui siamo bersagliati da immagini truculente, da immagini di guerra e di violenza inaudita, trovare un posto dove potersi fidare e affidare è già, di per sé, un miracolo.
Parte integrante della Fraternità di Romena e importantissima anche per la storia è la tappa del Primo Corso. Questo momento di confronto e di scambio intensissimo che io ho fatto dopo e su diretto consiglio e invito del protagonista della storia è stato anche il momento di raccordo e di cementazione dell’amicizia fra me e il protagonista. Anche questo è un motivo di gratitudine nei suoi confronti.
L’ultimo elemento che accompagna la storia, è il nostro lavoro. Io e il protagonista ci conosciamo sul posto di lavoro. E non è un lavoro comune. Si fa ricerca industriale, ma l’ambiente è di frontiera. Nelle fabbriche che sono il teatro della nostra conoscenza spesso c’è il cappellano, una figura familiare in ambienti militari o ospedalieri. E questo a testimonianza della pericolosità delle situazioni che si possono creare e della pericolosità dell’ambiente di lavoro. Fortunatamente nel corso degli anni sono stati fatti passi da gigante su questo.
L’ambiente è comunque difficile da immaginare per chi non lo ha mai visto. La materia stessa, l’acciaio, che allo stato fuso, fluisce come l’acqua. Queste cascate incandescenti oppure i turbinii di scintille accompagnate da grandi fumate e degni di una piccola eruzione vulcanica sono veramente impressionanti, così come lo sono gli odori, i rumori e gli ambienti costruiti su una scala maggiore di quella cui siamo abituati; e lo stesso si può dire per le attrezzature e gli stessi mezzi di trasporto. Tutto è sovradimensionato, tutto è gigantesco.
Allo stesso modo ci accompagna nel racconto la materia, l’acciaio, che nel corso del suo lungo e complesso ciclo di fabbricazione, può subire danni irreparabili. L’acciaio, materiale duro, resistente e resiliente per antonomasia, è in realtà molto delicato nelle fasi di lavorazione. Bisogna porre moltra attenzione a non fare errori, anche e soprattutto nelle prime fasi di vita, anche quando è liquido. L’acciaio ricorda . E certi errori sono irreparabili. Non si possono correggere.