Canto di un pastore errante sul tratturo

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di Ulderico Iorillo

Un cippo funerario lo ricorda, recita semplicemente: qui cadde e morì Cesidio Gentile “Jurico” poeta pastore di Pescasseroli (26.10.1914). L’hanno posto lì tra le montagne nel 2014, a cent’anni dalla morte, basandosi sulla memoria dell’ultimo pastore transumante di Pescasseroli che giura di averlo visto cadere da cavallo proprio in quel punto: in Molise, vicino Giulianova del Sannio. Stava andando ancora per il tratturo, un viaggio ancora, il viaggio di un vecchio che aveva “fatto il volto bianco/il capo senza un vello”.

Oggi il tratturo scompare e riappare, tra i monti e le colline, come un disegno che si va cancellando. I treni e i camion verso la metà del secolo scorso sono diventati mezzi più rapidi ed economici, ma fino ad allora era l’unica via per condurre le greggi a svernare. E prima delle strade romane, quando gli uomini seguivano le stelle, i fiumi, gli orizzonti lontani, il tratturo già esisteva.

Il termine transumare deriva da trans (attraverso) e humus (terra), e attraverso le terre d’Abruzzo e del Molise per arrivare al mare, alla Puglia, viaggiavano, assieme, uomini e armenti, già in epoca protostorica. Oggi la transumanza è patrimonio immateriale dell’umanità, ma è una pratica quasi scomparsa, se si esclude qualche iniziativa privata di interesse semi-turistico.

In un tempo non molto lontano, però, tratturi, tratturelli e bracci, piste di terre, di pietra, e d’erba che si accasciava ogni anno per accogliere il passaggio delle bestie e dei pastori, costituivano una rete viaria di oltre tremila chilometri (nella sua massima espansione).Il fiume verde univa impervi paesi di montagna all’ampia distesa del Tavoliere delle Puglie, al mare e a un inverno più mite. Lungo i tracciati sorgevano cappelle e chiese, taverne, fontane e masserie, ma anche importanti centri abitati; c’erano poi i riposi, dove i pastori passavano le notti all’interno di recinti improvvisati in attesa della conta alla Regia Dogana delle pecore, istituita già da Alfonso d’Aragona nel 1447. Non si trattava solo di un’infrastruttura, ma di un pellegrinaggio stagionale, un rito di passaggio, necessario e sufficiente, al quale prendeva parte un vero e proprio esercito fatto di pastori e pastoricchi, massari, casari, tosatori, lupari, butteri, e bambini. Un popolo intero si metteva in viaggio con migliaia di animali e nascevano leggende ad ogni viaggio che venivano poi narrate negli stazzi, al ritorno in montagna. Negli ultimi decenni d’intenso utilizzo del tratturo, quando il mondo si avviava verso la modernità, i pastori scendevano dai monti al piano e nulla sembrava cambiato dai millenni precedenti.

Jurico, cioè cerusico, lo chiamavano così perché come il nonno, pastore pure lui, ne sapeva di unguenti e cure per uomini e animali, ma la sua grande passione fu la scrittura. Ebbe il merito di raccontare in versi quel mondo che si sarebbe dissolto nella modernità nel giro di pochi anni. Scrisse di se stesso e del suo paese, dei riti religiosi e delle tradizioni popolari, e compose un poema epico in versi sulla storia del popolo dei Marsi.

Nacqui a Pescasseroli il 28 giugno 1847. Crebbi colmo di miseria e nell’ignoranza, a motivo che a quei tempi scole elementari non esistevano e, nella scuola privata, mio padre non ebbe il potere di mandarmi. Era un misero pastore […] Di otto ani mi portai al bosco Pirinella a pasturare le pecore, unito a lui.

A otto anni Cesidio Gentile venne accompagnato al limitare del bosco dalla madre che, come lui stesso racconta, “piangendo mi baciò/restando ferma”.  E di quel primo viaggio verso le Puglie da massaro di pecore, il poeta-pastore di cui parlò anche il suo illustre conterraneo Benedetto Croce, racconta in alcuni suoi scritti.

Nella capanna dei pastori mi imparai a conoscere le lettere dell’alfabeto e, per istinto di natura ebbi un bel gusto di ascoltare le storielle. Popolari scritte in ottave: i racconti Cavallereschi della Tavola Rotonda mi davano molto da penzare. E così, nella mia idea, a pena cominciai a scrivere, scriveva versi ispirati dalla mia fantasia.

Pare avesse un’intelligenza viva e una memoria prodigiosa che lo aiutò a memorizzare decine di componimenti classici. Di sicuro lesse Omero, Dante, Tasso e Ariosto, ma anche Manzoni, D’Azeglio, Flaubert e Dumas, oltre ad avere nozioni di storia romana e francese, e di questa cultura faceva sfoggio nei suoi versi. Come fa nel tratteggiare alcuni passaggi di storia romana per contestualizzare la sua storia dei Marsi.

Il mondo ne sarà tutto ammirato / l’Aquila corre in tutte le regioni / Poi nasce un uomo, Cesare chiamato, / diventa audace e passa il Rubicone / Arriva a Roma ed abbatte il Senato /, di tutta Roma diverrà padrone: / gli uomini tutti ammirano il valore, / e lo diranno tutti Imperatore.

Ebbe sicuramente molta cura di quei suoi pochi libri che riuscì ad acquistare o a farsi regalare. Uno dei suoi figli, Elia appare in una foto degli anni Venti, grossi baffoni e paglietta di tre quarti, con un libro sottobraccio, come a indicare un’appartenenza, uno status. Aveva ereditato i libri del padre, conservati come reliquie, e su ognuno aveva scritto parole come: “Io Elia Gentile io sono il vero patrono di questo libro lasciato a me dal mio caro Patre Cesidio Gentile Poveta Pastore Pescasseroli”.

Delle migliaia di versi composti da Jurico molti andarono persi, e di questa cosa è lui stesso a lamentarsene con la musa Urania, sua interlocutrice ogni volta che parla delle sue aspirazioni poetiche: “Tu sola al mio cantare fosti contraria/i miei semplici versi tutti in aria/in preda al vento me l’abbandonasti/Oh! Dico che gran dolore è il ricordare/Ebi a comporre centomila versi/A tuo volere tutti andarono spersi.”

Ma molti componimenti di cui parla il poeta pastore sono stati conservati dai familiari e da gente del paese, lo stesso Croce utilizzò dei versi di Jurico reperiti qua e là tra i suoi conoscenti per tratteggiare la storia di Pescasseroli; versi scritti su fogli logori che i pastori portavano con loro per leggerli la sera davanti al fuoco negli stazzi.

Jurico, dice Croce, parla “di storie e leggende dei briganti”, della “vita pastorale descritta in tutti gli aspetti, quella che realmente i pastori vivono tra le montagne di Abruzzo e nelle pianure della Puglia; e in mezzo agli incidenti di bufere di geli e di disastri e d’incontri con lupi e orsi, si narrano apparizioni di animali mostruosi e demoniaci, che sbucano dalle selve, tra la nebbia, e minacciano e predicono malasorte”.

Alla dura vita del pastore Cesidio Gentile si sentì condannato tutta la vita e spesso di questo suo destino incolpò suo padre ricordando più volte il suo traumatico primo viaggio quando cadde in un burrone e si ruppe la testa.

Il giorno appresso il padre / mi disse: – O mio figliolo, a me molto mi dole/ il vostro male. / Dobbiamo andare in Puglia / a guadagnarci il pane: / con l’uncinetto in mano / hai da guidare / le pecorelle, dritto / la via dello tratturo…

Sperava di potersi emancipare con la scrittura, ma i suoi lavori non furono apprezzati da altri che dai suoi concittadini. Anche il poema epico sui Marsila cosiddetta “Leggenda marsicana” (Sarzana, 1904), la sua opera più ambiziosa, fu pubblicata come opuscolo grazie all’interessamento di una persona della famiglia presso la quale Jurico e il padre facevano i massari di pecore (cioè si occupavano del bestiame per conto del padrone). L’opera fu anche portata in America dai molti emigranti che annualmente lasciavano il paese, così Ada Walker Camehl, una giornalista e studiosa di Buffalo, ne scrisse riportando la leggenda inventata da Cesidio sulla nascita di Pescasseroli, ma definendola un“old italian poem”.

Il racconto dei due amanti: la saracena Pescha e il giovane eroe Serolo, in effetti non è senza fascino. Ambientata in Terrasanta, elaborata sulla falsariga della Gerusalemme liberata è una vera e propria tragedia amorosa che si conclude con la morte dei due amanti, ma sancisce la nascita del paese. Le numerose versioni della leggenda marsicana, come nei poemi omerici, come accadeva nella tradizione epica, subivano variazioni nelle narrazioni orali dei pastori e non esiste una vera e propria versione definitiva.

Quella che ha avuto maggiore fortuna vuole che Serole, nell’andare in Italia precedendo il suo amato, incontri una gitana che le predice il futuro, un futuro infausto, naturalmente.

Lungi da Isernia circa trenta miglia / Il vostro bel Castello si ritrova:/ dove con pena sta la tua famiglia / Senza sapere di te nessuna nova. / Prima di te là giungerò la figlia / Del Re di Persia, e dimostra la prova / Dell’amor che ti porta, Ahi sventurata / Del troppo amore tuo viene ammazzata

La giovane, infatti, dopo aver subito le insistenti avances del conte del castello (il padre di Serolo), piuttosto che cedere alle voglie del conte si uccide. Serole assiste alla scena e si uccide a sua volta nelle braccia di Pescha. A quel punto il conte, preso dal rimorso, fa costruire il villaggio che prende il nome dei due sfortunati amanti. Nasce così il paese di Pescasseroli.

Ma nonostante l’ars epica espressa nella Leggenda (che doveva avere anche un seguito andato perduto) fosse notevole e gli espedienti classici ben articolati, la vera forza degli scritti di Jurico resta quella dei motti, delle descrizioni delle sue sventure, o dei racconti del paese, quindi dei pastori e delle asprezze della loro vita che ben conosceva. Raccontando di sé descrive un mondo rustico non con la distanza del letterato verista o dell’antropologo, ma narrando senza filtri, se non quello del verso, utilizzando l’ironia e l’estro di un formidabile motteggiatore.

Come nei versi della poesia Il pastore di Scanno dove il povero pastore supplicala moglie perché gli resti fedele durante i mesi in cui è sul tratturo.

Fa’ che nessun con te si dorma accanto; / ed io, pascolando il bianco armento / sempre all’amore tuo vado pensando / Cara consorte, mettici il talento, cerca d’avere d’onestate il vanto; / rinnova la fedel moglie d’Ulisse, / come il poeta a noi cela descrisse!

O ancora quando racconta delle sue pecore perdute per il freddo e per l’epidemia, dopo aver tentato di prendere in fitto un pascolo per proprio conto, nel tentativo d’affrancarsi dal mestiere di massaro e diventare proprietario di un gregge a sua volta:

Allora io mi misi a gridar forte / e biastemai Alfonso, il re cristiano, che della Puglia a noi ci apri le porte.

Le poesie di Jurico sono passate di mano in mano, trascritte da improvvisati amanuensi, recitate a memoria davanti al fuoco nelle capanne, raccontate sottovoce per spaventare i bambini. Di Jurico non è rimasta nessuna fotografia, la sua figura è sparita nelle nebbie di un tempo vicino e lontano, tramandata prima da quelli che l’hanno conosciuto, poi da quelli che ne hanno sentito parlare. Un poeta sventurato, un pastore per destino e non per vocazione, un affabulatore e un cantore di storie semplici e rituali. Tra le pieghe della sventurata vita di Cesidio Gentile appare il mondo rurale di un pezzo d’Appennino scomparso, collegato ai grandi eventi del passato, alla mitologia e al sentimento religioso. Jurico ha messo in versi arcaici e rurali, incolti e sghembi “il legame tra la letteratura colta e i sentimenti popolari”.

 

Commenti
Un commento a “Canto di un pastore errante sul tratturo”
  1. Adriana Nicastro ha detto:

    Ho letto la sua biografia commuovente soprattutto per chi ha avuto, come me ad esempio, la possibilità di andare a scuola, all’università, di imparare il greco ed il latino . Conosco Pescasseroli dove ho casa da 44 anni, ci ho vissuto mesi e mesi con i miei figli e i miei nipoti : amo questo paese e questa gente è agli amici non dico mai vado a casa in montagna dico vado a Pescasseroli. Grazie di avermi fatto scoprire una perla rara. Adriana Nicastro

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