Casa sua. Madame a Sanremo
di Daniele Manusia
Non voglio dire che il pubblico di Sanremo sia già tutto morto. Ci mancherebbe che nel 2021, dopo un anno come quello che abbiamo passato, qualcuno parlasse della morte. Però ecco, il fatto che non sia presente se non sotto forma di applauso registrato, un campionamento omogeneo e piatto laddove le persone in carne e ossa erano solite esprimere dissenso e apprezzamento, rende il festival della musica italiana uno spettacolo live istantaneamente passato. Al tempo stesso, c’è un cambiamento in atto e l’assenza del pubblico conta. Il silenzio dei conservatori si sente e dà maggiore risalto all’eccentricità dei costumi dei cantanti, che non è solo ricercatezza, l’eleganza da alta moda di Achille Lauro, né il solito modo che ha la televisione italiana di consumare tutto ciò che è veramente anticonvenzionale.
È un’impressione mia (che lo sto guardando quasi solo su YouTube, oppure mediatizzato in articoli e nello stream in diretta sui social) o il contesto-gabbia di Sanremo stavolta non ha calcolato bene i pesi e i contrappesi? Sbaglio o stavolta Sanremo non riesce nel suo scopo principale: normalizzare, alleggerire, limare gli estremi? Stavolta sembra che l’unica cosa autentica del festival siano le (comunque rare) incursioni degli estremi, per quanto organizzati, messinscena. I peli delle ascelle rosa della cantante dei La Rappresentante di Lista, il modo sincero e goffo con cui ricevono insieme i fiori che erano destinati solo a lei. Il delirio di onnipotenza di un ex-coatto come Achille che ormai può fare tutto ciò che vuole, ma non dimenticatevi mai che è un coatto, un selvaggio. La forma più convenzionale di eleganza è quella assunta da Elodie, ma la sua è una bellezza meticcia, il suo sguardo è sempre coatto, quello di un’artista che da piccola non sapeva come spiegare ai propri compagni di classe perché il padre suonava per strada.
Stavolta quello fuori luogo è Amadeus con la sua rigidità peciona, gli occhi strabuzzati quando un co-presentatorə è leggermente in ritardo, o in anticipo, rispetto al momento in cui deve parlare. Si capisce troppo bene che ha in mente uno spettacolo di burattinə, tuttalpiù un matrimonio. Fiorello non salva la ridicolaggine del carrello dei fiori anti-covid, del metto la maschera/tolgo la maschera. Per chi sono eseguiti questi riti, le entrate e le uscite, le mani davanti a sé, le buste, la sfilata sui gradini, il gioco di luci? Senza pubblico mi è più chiaro che mai: non per me.
Per me è entrata in scena una ragazzina di diciannove anni, con i capelli né lunghi né corti e una corazza di squame argentata. Sì, cioè, con un completo “da uomo”. Un guantino solo, magari per citare MJ, uno dei re del trasformismo, che lo usava per nascondere la vitiligine (la sua macchia). A piedi scalzi. Ha cantato con le spalle leggermente piegate in avanti come se il soffitto sopra di lei fosse troppo piccolo. Come se la grandeur vuota dell’Ariston fosse opprimente. Ha cantato senza farsi capire, con un leggero auto-tune, quasi indistinguibile dalla sua “vera” intonazione. Ha cantato, in alcuni momenti, guardando per terra. Cantando, forse, per i suoi stessi piedi, per farli risaltare ulteriormente. Ma la cosa che spicca di più erano le pieghe sulla sua fronte, come quelle di un tessuto, scure ed espressive come quelle sul volto sbiancato del vagabondo di Chaplin.
Ovviamente il giorno dopo è stata usata da Mattia Feltri per il solito editoriale che ho l’impressione di aver letto mille volte, la trasgressione è la nuova normalità e bla bla. Poco importa se non è mai stato chiaro cosa fosse davvero nuovo come lo è stato in quest’ultima edizione di Sanremo. Cosa sta cambiando, su cosa non si può tornare indietro. E certo contano di più i diritti, le proposte di legge, le battaglie politiche. Ma che bello è stato il silenzio del pubblico, quegli applausi obbligati. Basta immaginare che ci fossero anche le mani di Feltri, e quellə come lui, per dare un senso diverso al circo di Sanremo. Perché una cosa forse non è stata recepita: una persona scalza non è solo simbolo di umiltà, o povertà, ma ti sta anche dicendo: questa è casa mia.