C’è un caso italiano su Paul Celan

di Andrea Cirolla

Breve premessa a sfondo autobiografico per una vicenda intellettualmente triste: ho letto, anzi ascoltato le prime traduzioni di Borso dal corpus celaniano ai tempi dell’Università Statale di Milano. Quindici e forse più anni fa. Aula laboratori all’ultimo piano del dipartimento di Filosofia. Io, che venivo da un Istituto Tecnico Industriale di Stato (perito elettronico) della provincia bergamasca, e forse già mi si profilava all’orizzonte il mestiere del fornaio (aprirò a giorni un piccolo panificio a Galatina, sotto Lecce), in quel limbo beato mi abbeveravo agli scorci di poesia come a una sacra fonte. Nell’ufficietto al piano di sotto si proseguiva, dopo il laboratorio, previa autoscrematura, affondando ad esempio sui testi di Trakl, ragionando sulle versioni scintillanti di Giaime Pintor nel famoso volumetto Einaudi, illuminandosi poi sulla via del ritorno a casa, in treno, con il Requiem per un’amica di Rilke, tradotto magicamente da Borso (la magia era ed è l’effetto, non la causa della versione) in un librino uscito per i tipi de “Il ragazzo innocuo” a Milano nel 2007, edizione stampata a mano in tiratura limitata con una litografia di Luciano Ragozzino.

Ma tornando a Celan… Il meridiano a cura Bevilacqua era il testo obbligato da cui partire. Nel senso che vi ci obbligava Borso. Influenzati da nient’altro che da evidenze, orecchio e ragionamento, comparando, dalle pagine del meridiano andavamo noi a quelle dei nostri appunti, ai versi tradotti da Borso, quindi a un thread fiume sotto a un post di “Nazione Indiana”, firmato da Helena Janeczek, dedicato a una tripla traduzione di Psalm di Celan, dove Borso qua e là buttava qualche sua traduzione.

Ci veniva una sola domanda: professore, perché non esce lei con una traduzione organica di Celan? Borso non era e non è il tipo che risponde a domande del genere, e spesso alle domande tout court; predilige l’enigma e kierkegaardianemente la comunicazione indiretta. Insomma, passano gli anni. Quando nel 2010 cominciano a comparire le prime risposte a quella domanda (Microliti, per Zandonai, ora ripubblicati nello Specchio Mondadori; Oscurato, Einaudi), si riaccende l’entusiasmo. E alla notizia che nel centenario della nascita del Poeta sarebbe uscita, risuscitata e tradotta da Borso, l’Antologia italiana di Celan (è uscita, grazie all’interessamento dell’editore Nottetempo), rincorsa negli anni Sessanta da Vittorio Sereni per la Mondadori, solo un povero di spirito non poteva a maggior ragione entusiasmarsi. E ad accompagnare l’Antologia, pure un saggio sulla ricezione italiana di Celan (per Prospero editore: D. Borso, Celan in Italia, Storia e critica di una ricezione, 2020) – un saggio che si legge come un romanzo. Cosa volere di più? Ma, forse perché non meritiamo tanta grazia, ecco arrivare una stroncatura, che più che una vera stroncatura sembra però una gragnola di manganellate al buio (della ragione).

Vi proponiamo l’affare partendo da un commento che gli ha dedicato sulla propria bacheca di Facebook Roberta De Monticelli, filosofa e docente di filosofia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. A seguire, la stroncatura di cui sopra e la replica di Borso, rifiutata dalla sede propria, quella da cui tutto nasce, cioè il Domenicale del Sole24Ore, così come da Germanistica.net, che in un primo momento l’aveva accolta, e da altre testate, cartacee, webbiche e radiofoniche. Pezzo e contropezzo erano stati pubblicati finora solo dal provvido Marco Dotti su Tysm.org.

 

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di Roberta De Monticelli

«Vorrei commentare questa risposta di Dario Borso a un suo critico particolarmente malevolo, a nome Luigi Reitani. In primo luogo non sono d’accordo con il dogma che alle recensioni non si risponde, in base al quale molti giornali hanno rifiutato di pubblicare la lettera di Borso: nel campo della ricerca (e negli studi umanistici tradurre poesia, commentarla, introdurla sono per eccellenza atti di ricerca) – dove non c’è discussione non c’è vita. Ringrazio quindi chi ha pubblicato la lettera e ringrazio il suo autore di averla fatta circolare in modo che giungesse anche a me. Non sono una ricercatrice in campo germanistico ma sono una ricercatrice di cose vere, e anche d’aria buona e di un po’ di luce e di un po’ di intelligenza. Amo Celan per quel po’ che ne conosco. Ma bastava anche meno, anche niente, per restare stupiti – leggendo tanto la recensione che la risposta – dell’apparente inconsistenza – quando va bene – e dell’arbitrarietà intollerabile – quando va peggio – della sfilza di veri e propri sprezzanti attacchi che questo prof. Reitani infligge al suo collega, pur pensionato, Dario Borso. Fate, come ho fatto io, un esperimento psicologico. Restate qualche minuto senza leggere la risposta, dopo aver letto la stroncatura. Che succede se questa resta senza le precisazioni accurate che Borso ha portato in risposta alle accuse, caso per caso? Lo capirete solo dopo averle lette. Stava per succedere, poteva succedere: di credere al critico e di voltare pagina. Ora che avete letto le risposte, capite quanto sia facile, ancorché straordinariamente meschino e volgare, distruggere in pochi minuti di malestro, in pochi tratti di bile ben mascherata da scientifico distacco, il risultato pubblico di anni magari di appassionato e minuzioso lavoro: e il dono, con semplicità offerto, che ne viene ai lettori. Poi vai a vedere chi sia, uno che non teme di usare la sua bile al posto dell’inchiostro, e vedi appunto che è un germanista, traduttore di poesia. Ti cascano le braccia. Ma che cosa dobbiamo pensare di tutti i redattori che hanno ricevuto una lettera come quella di Borso che leggete qui, e hanno deciso di non pubblicarla, e di non offrire al suo autore nessuna occasione alternativa di difendere il suo lavoro? O forse anche loro misurano il peso delle parole a gradi di vicinanza alle consorterie (accademiche, editoriali, di bottega – fate voi). Questa cosa mi ha colpito, perché mio padre era un critico, un critico militante, e non credo dei minori. E di stroncature credo abbia dovuto farne parecchie. Ma ci si sentiva tutta la delicatezza, a volte il dolore, sempre il ragionamento, sempre l’amore di evidenza. Poche volte una franca alzata di spalle: quando proprio la cosa non era solo esteticamente insopportabile, ma anche tronfia e narcisa, e usurpata la fama. Non dico altri tempi, perché se no capite che sono vecchia. E non dico neppure altri uomini, perché ce ne sono ancora. Solo che ce li lasciano leggere sempre meno.»

 

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[da tysm]

Colpisce che sugli inserti culturali dei quotidiani italiani, da qualche tempo, sia tornato in voga un genere fin troppo desueto: la stroncatura. Colpisce, ma non stupisce. «Il faut cultiver notre jardin», dice il Candide di Voltaire. La sensazione che si ha leggendo il duro affondo di Luigi Reitani, pubblicato l’8 novembre scorso sul domenicale del Sole 24 Ore è tutta qui: guai a chi entra nel giardino. Vietato calpestare le aiuole. Una stroncatura è un monologo, una critica è dialogo. Franco, persino duro. Ma necessario, quando l’innesco è acceso.  Ecco perché, accanto alla stroncatura di Reitani che lo riguarda, volentieri pubblichiamo la risposta critica di Dario Borso. Una risposta che non ha trovato spazio su Il Sole 24 ore.  

Leggi la lettera inviata da Dario Borso

Luigi Reitani, Paul Celan, poesia in fuga dalla Shoah

“Il Sole 24 Ore”, 8.11.2020

«In Italia la lirica di Celan è conosciuta soprattutto attraverso la resa che ne ha dato Giuseppe Bevilacqua, germanista e scrittore di ampia cultura scomparso lo scorso anno, amico di Andrea Zanzotto. In un eccellente Meridiano Mondadori, che comprende tutte le raccolte «autorizzate» dal poeta, con un magistrale saggio introduttivo, Bevilacqua ha reso fruibile nel 1998 un’opera di estrema complessità, optando per soluzioni che inserivano Celan nel solco della più alta tradizione italiana. A ragione, tuttavia, si è obiettato che tali scelte rischiavano di contraffare aspetti costitutivi del linguaggio del poeta, il cui lessico non è mai aulico e le cui immagini – come egli non si stancava di ripetere – non sono metaforiche, ma designano piuttosto qualcosa di oscuro e inaudito. Puntuali, nel centenario della nascita, arrivano ora due nuove traduzioni, che segnano una svolta importante nella ricezione italiana di Celan.

Dario Borso, studioso che da anni non si stanca di proporre un «suo» Celan, pubblica una raccolta di testi che lo stesso autore nel 1964 aveva incluso in un’antologia voluta da Vittorio Sereni per Mondadori, mai venuta alla luce (una storia documentata nel carteggio tra i due poeti curato qualche anno fa da Giovanna Cordibella in un bel volume per l’Obliquo di Brescia, che purtroppo Borso omette di citare). Si tratta di poesie tratte dalle prime quattro raccolte di Celan, che a buon diritto costituiscono un canone essenziale per conoscere l’autore. Borso opta in generale per un registro lessicale medio e per una maggiore precisione semantica rispetto a Bevilacqua, ma non appare sempre coerente e convincente. Sorprende infatti trovare soluzioni lessicali antiquate come «gioca coi serpi» (pag. 45), «donde» (pagg. 67 e 77) e persino «pagano il fio» (pag. 85); un passato remoto come «stemmo» (pag. 115); costruzioni grevi come «ci investe l’esalato» (pag. 55); troncamenti e sequenze metriche da libretto d’opera come «al volar della civetta» (pag.137); zeppe arbitrarie assenti nell’originale («ascolta bene», pag. 75); enfasi roboanti come «oh nullo» (pag. 141); improvvisi scarti di registro stilistico come «prossimità e distanza» (per «vicino e lontano», pag. 83); discontinuità nel tradurre le stesse espressioni (pagg. 47,55,105); strategie discordanti nella resa delle parole composte, che sono uno dei maggiori contrassegni della lirica celaniana. Borso non riconosce una palese citazione di uno dei più celebri Lieder del romanticismo e traduce Tor (la porta di una città) con «portone» (pag. 51). La sua introduzione appare incongruente e poco aiuta il lettore. Molto utili sono invece le note, che però Borso ricava per buona parte dal commento di Barbara Wiedemann all’edizione tedesca di tutte le poesie di Celan pubblicate in Germania da Suhrkamp, tralasciando – ed è grave – di menzionare la sua fonte».

 

DARIO BORSO, REPLICA A REITANI DEL 19.11.2020

Reitani coglie perfettamente il senso dell’operazione compiuta da Bevilacqua dicendola tesa a inserire “Celan nel solco della più alta tradizione italiana”: era quello che Celan espressamente non voleva, come risulta da più raccomandazioni sue impartite agli interlocutori italiani.

Celan aveva studiato  italiano e francese come pensum già al liceo, poi aveva scelto e studiato romanistica all’Università di Czernowitz prima di venire nel 1942 deportato dai nazisti in un campo di lavoro, nel dopoguerra a Bucarest prese lezioni d’italiano da un’amica ebrea neolaureata in italianistica (Bertrand Badiou, che sta ultimando una ponderosa Photobiographie di Celan, mi ha sguinzagliato sulle sue tracce e proprio la settimana scorsa grazie alla professoressa emerita d’italianistica Doina Derer ho recuperato una foto dell’amica da giovane).

Lo stesso Reitani sottolinea l’effetto negativo dell’operazione di Bevilacqua: la contraffazione frequente di “aspetti costitutivi del linguaggio del poeta, il cui lessico non è mai aulico”.

La mia traduzione dell’Antologia italiana segnerebbe secondo lui “una svolta importante nella ricezione italiana di Celan”. Tale giudizio coincide anche lessicalmente con quello espresso nel 2014 sin nel titolo da un intervento di Camilla Miglio su tre mie traduzioni: “MicrolitiOscuratoPoesie sparse: la svolta di Dario Borso” (http://www.editricesapienza.it/sites/default/files/5286_Paul_Celan_in_Italia.pdf 353-359), solo che qui la svolta è assai più prosaica, tanto che Reitani se la cava con una riga, elogiandola “per un registro lessicale medio e per una maggiore precisione semantica rispetto a Bevilacqua”. Il secondo elemento è sicuramente segno di fedeltà al dettato celaniano, che ha pagine decisive sulla Präzision, ma assestarsi su un registro lessicale medio sarebbe un dietrofront più che una svolta, dacché la mia fedeltà, pur non garantendo la bontà dell’esito, è sempre consistita nell’attenzione a cogliere i cambi di registro nelle poesie di Celan.

Inoltre la stessa frase continua con un’avversativa che riduce ancor più la svolta, fino a trasformarla in un testacoda, in quanto apre consecutivamente a dodici obiezioni lessicali che, essendo a loro volta introdotte da un “come” che equivale a un “per esempio”, moltiplica tremendamente i presunti errori lasciandomi la magra consolazione che gli altri analoghi saranno lievemente meno gravi (altrimenti avrebbe pescato da lì l’esempio più significativo i. e. peggiore).

Il catalogo è questo: soluzioni lessicali antiquate come

1- “gioca coi serpi”: la Treccani dà il maschile come letterario, e io l’ho adottato, oltre che per ragioni metriche, giusto perché l’autore in una nota lettera  a Walter Jens del 19 maggio 1961 dà dei serpenti un’interpretazione mitologica, ed anzi archetipica. (L’unico ad aver tradotto serpe al maschile è stato a mia conoscenza Ferruccio Masini.)

2- “donde”: la Treccani dà per antiquato “d’onde” e per normalissimo donde, che anche qui ho adottato per ragioni metriche.

3- persino (avverbio aggravante) “pagano il fio”: Schuld è notoriamente sia colpa sia debito,  e abtragen significa estinguere, pagare un debito, ma così sfumerebbe l’altro significato qui importante in riferimento a un popolo come l’ebraico colpevole di chissà cosa. “Fio” (v. l’ottima voce Treccani) è l’unico termine italiano che assommi in sé i due significati, e qui penso che la mia soluzione andrebbe piuttosto elogiata.

4- “stemmo”: normalissimo passato remoto di stare.

5- Costruzioni grevi come “ci investe l’esalato”: non capisco.

6- “Al volar della civetta” (a sinistramente rimar con operetta): non certo un complimento a Celan, che ricavò il composto  Eulen[civetta]flucht[volo] dal Dizionario del Grimm, i quali lo svolgono in tempus quo evolant noctuae phalaenaeque. (Una nota a p. 210 dell’Antologia italiana comunque suona: “v. 134 Al volar della civetta. Espressione antiquata per ‘al crepuscolo’”.)

7- “Ascolta bene”, imperativo con zeppa (dove la zeppa è “bene”): qui basta il Langescheidt: lauschen (a differenza di zu– o anhören/ascoltare) = stare con l’orecchio teso, origliare.

8- Enfasi roboanti come “oh nullo”: per una volta che ho dato ragione a Bevilacqua (cfr. Meridiano Mondadori p. 351)!

9- Scarti di registro come “prossimità e distanza”  (per “vicino e lontano”): nell’originale sono due neutri sostantivati, non due aggettivi o avverbi.

10- Discontinuità nel tradurre le stesse espressioni: non pervenute.

11- Resa incostante delle parole composte: mancando qui almeno un esempio, non posso pronunciarmi.

12 – L’ultimo rilievo lessicale riguarda il misconoscimento di un celeberrimo Lied con conseguente errata traduzione di Tor (che comunque, v. ancora Langescheidt, può significare tanto porta della città quanto portone). Siccome Reitani non dice il Lied e nessun critico a mia conoscenza ne ha finora accennato (per la palese palesità?), suppongo alluda al celeberrimo Der Lindenbaum musicato da Schubert, dove c’è un Wanderer, c’è il Tor della città, ma al posto dell’amata c’è un tiglio, e la differenza non mi pare secondaria.

Kristall di Celan recita:

 

Non cercare sulle mie labbra la tua bocca,

non davanti al portone il forestiero,

non nell’occhio la lacrima.

Sette notti piú in alto va il rosso verso il rosso,

sette cuori piú in basso bussa la mano al portone,

sette rose piú tardi mormora la fontana.

 

Una situazione perfettamente analoga sarebbe nel quindicesimo Lied del ciclo schubertiano della Bella mugnaia, dove l’innamorato  cantore è geloso di lei che occhieggia estasiata un fascinoso cacciatore di passo, ma è impossibile che Reitani alluda a questo Lied, perché la mugnaia vi è ritratta occhieggiante al Tor del mulino (segnalerò l’analogia ai curatori ufficiali del corpus celaniano Badiou e Wiedemann, a costo di farmi deridere per l’ovvietà).

Fin qui la critica al testo dell’Antologia italiana, cui Reitani aggiunge due appunti al paratesto. Innanzitutto la mia introduzione sarebbe “incongruente”, ma non specifica rispetto a cosa: io posso solo dire l’obiettivo che ho perseguito in essa rispetto al lettore, che poco aiuterei.

In Germania, Celan vivente, circolarono due antologie, una del 1959 dove la scelta fu dovuta a Klaus Wagenbach con l’aiuto dell’autore, e una del 1969, dove la scelta fu dell’autore con l’aiuto di Beda Allemann. L’italiana dunque è l’unico frutto di una scelta completamente autonoma di Celan. Che non fosse una scelta dettata dal motivo estrinseco della destinazione a un pubblico particolare, lo testimonia il fatto che non vi compaiono sue poesie “italiane” (quelle che rievocano una gita a Cerveteri, quelle che citano il Petrarca ecc.), nemmeno l’italianissima Assisi, dove centrale è la figura del santo patrono.

L’aspetto rilevante della scelta è invece a parte subiecti, ossia nell’angolo d’inclinazione da cui Celan l’ha compiuta. Il momento cronologico, di per sé estrinseco, segnala che essa avvenne giusto a metà produzione della quinta raccolta Svolta di respiro, ossia all’apice del suo itinerario poetico, secondo lui almeno (ne scrive come di “una svolta” appunto).

L’altro aspetto solo apparentemente estrinseco è lo stato psichico di Celan, che andò deteriorandosi a partire dal 1960, portandolo a un primo ricovero nel gennaio 1963 e un secondo nel maggio 1965.

Qui la mia ricostruzione incrocia quella proposta da Bevilacqua nell’ampia introduzione al Meridiano Mondadori dal titolo Eros, Nostos, Thanatos, dove l’itinerario è nettamente tripartito secondo la dicitura del titolo, e la terza fase è fatta risalire all’inizio del 1964, quando secondo lui Celan cominciò a premeditare e programmare il suicidio. Avvalendomi della corrispondenza con la moglie curata d Badiou, dei documenti sull’affaire Goll curati da Wiedemann e delle lettere all’amante svedese edite sempre da Wiedemann in  “etwas ganz und gar persoenliches” meno di un anno fa (esattamente il 14 dicembre 2019, mentre in nota scrivo sbadatamente 2020 avendolo ricevuto ancora caldo poco dopo l’Epifania), io invece (di)mostro che ciò non corrisponde al vero: per tutto il 1964 l’eros avvampò, il nostos s’incarnò in un rapporto di fiducia con Gisèle-Penelope, Celan era in netta ripresa, e ciò rinforza la mia idea che la scelta antologica del giugno 1964 sia importantissima ed esemplare: questo ho inteso comunicare nella dozzina esatta di pagine introduttive, che l’editore mi aveva concesso.

Nella storia dell’Antologia hanno un loro posto anche lo scambio di lettere tra Sereni e Celan e quello tra Sereni e Zanzotto. Sono 10 lettere in tutto che occupano 14 pagine, 5 delle quali di testo a fronte (corrispondendo Sereni e Celan in francese),  del volumetto di Cordibella, che non documenta la storia come affermato da Reitani, bensì riporta due tasselli di essa (tra decine di altri). Lo scambio tra Sereni e Zanzotto risale al biennio 1962-63 e concerne, più che Celan, le prove di traduzione di Bevilacqua da Celan poi bocciate; l’altro, tra Sereni e Celan, si distende dal 1963 al 1967 e comprende in allegato l’elenco delle poesie scelte da Celan, che Cordibella riporta omettendone una, Il banchetto; in compenso la sua traduzione dal francese lascia a desiderare (instar omnium a p. 26, personne reso con persona invece che con nessuno). Queste carenze, aggiunte al fatto fondamentale che l’obiettivo della mia introduzione era altro, mi hanno spinto a soprassedere, tanto più che dei due scambi tratto analiticamente nel mio Celan in Italia. Storia e critica di una ricezione, uscito in contemporanea con l’Antologia per Prospero Editore..

L’altro rilievo critico paratestuale riguarda le note a fondo testo che io avrei ricavato da Wiedemann senza citarla, un fatto giustamente definito da Reitani grave, quanto l’affermazione sua se non corrisponde al vero.

“Per buona parte” è dato nei dizionari come sinonimo di “per gran parte”, ma intuitivamente io direi che il secondo corrisponde a una percentuale di poco superiore alla metà, il primo di poco inferiore.

Di fronte al pesante rilievo ho dovuto quindi pazientemente conteggiare.

Il 46% delle note (17 pp. su 37) consiste di date e luoghi di stesura, sedi di pubblicazione e soprattutto varianti ricavate dalla Bonner Ausgabe, edizione critica in 16 voll. conclusa il 16 novembre 2017, che cito bene in testa nella premessa alle note.

Altre fonti primarie (3,5 pp., il 9%), provengono complessivamente da: Microliti (da me parzialmente tradotti, Mondadori 20202) a cura di Badiou e Wiedemann, Bibliothèque philosophique a cura di Badiou e altri due ricercatori, Correspondence Celan-Lestrange a cura di Badiou, e per metà leggermente abbondante (2 pp., il 5%, riguardanti per lo più sottolineature e note di lettura a manuali scientifici)  dal commento di Wiedemann. Di questo blocco di fonti eterogenee non cito la provenienza perché, pubblicate tutte quasi 20 anni fa, sono ormai di dominio comune tra gli studiosi (c’è sempre infatti un momento cronologico in cui la scoperta di una fonte diventa risaputa al punto che non si cita più lo scopritore; ad es. Reitani afferma nelle note a Tutte le liriche di Hölderlin che una fonte delle sue primissime poesie è l’Ardinghello di Heinse, ma non l’ha scoperto lui né dice chi, ed io stesso, che qui non menziono il commento di Wiedemann, lo menzionai un lustro fa a inizio note de La sabbia delle urne, p. 153, riguardo alle stesse poesie comprese  ora nell’Antologia). Il 46% restante delle note è mio, ossia ricavato dappertutto (a partire dalla Bibbia).

Subito dopo questo rilievo, preceduta ancora da un’avversativa, nella recensione giunge una controsvolta finale rispetto alla mia labilissima svolta, o meglio l’unica svolta reale nella storia delle traduzioni italiane,  rappresentata dal Celan di Elisa Biagini: “non c’è dubbio che questo lavoro vada nella direzione auspicabile di un ripensamento delle strategie traduttive da applicare a un’opera fondamentale della lirica europea, liberandola dall’ipoteca di un linguaggio aulico, ma conservando unità e coerenza nel registro stilistico”. Dovrei credere a Reitani sulla parola, in quanto non motiva e Non separare il no dal sì non è ancora uscito; al momento so che consta di 112 pagine complessive con testo a fronte e costa 12 euro come L’antologia italiana (che ne ha più del doppio), ma ignoro quali poesie contiene e se sia provvisto o meno di introduzione e/o di note, per cui preferisco attenermi a una sana epochè, oltreché alla vecchia, iperbolica massima de omnibus dubitandum est.

 

 

Commenti
Un commento a “C’è un caso italiano su Paul Celan”
  1. Dario Borso ha detto:

    https://leorugens.wordpress.com/2020/12/13/cera-un-caso-italiano-su-celan-e-leo-rugens-lha-quasi-risolto/

    non penso sia questo il movente principale, ma secondario probabilmente sì.

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