Esquilino: il Cristo morto tra i rifiuti

Questo lungo reportage fu scritto, e poi pubblicato, nel 2016. Adesso credo sia il momento di condividerlo anche on line.

di Nicola Lagioia

A pochi passi da dove abito, nel quartiere Esquilino, a Roma, il giorno dopo il solstizio d’estate, alle tre del pomeriggio, tornando a casa trovo un vecchio signore gettato per terra, mezzo sepolto dalle buste d’immondizia, tra rifiuti alimentari ed escrementi. Schiena sull’asfalto, pancia all’aria, è possibile che sia appena morto.

Guardo meglio. Mi rendo conto che respira.

Nonostante il caldo sia quasi nauseante, l’uomo è vestito con un maglione che gli scopre il torso per metà. Deve esserselo sfilato via in un impeto di rabbia o di fastidio (o era disagio? o vergogna?) mentre crollava a terra. Colpo di sonno. Infarto. Stato d’ubriachezza. Accoltellamento. (Sulla gamba destra dei pantaloni si allarga una grande macchia rossa che potrebbe essere sangue). È una visione disturbante e al tempo stesso possiede qualcosa di ambiguamente mistico. Il Cristo morto tra i rifiuti. Se fossi andato più di fretta non lo avrei notato. Invece eccolo. Qual è il mio compito davanti a lui?

Da qualche tempo Roma è una discarica a cielo aperto. Piccole ziggurat di immondizia dominano la città a macchia di leopardo. Non siamo nell’estrema periferia. Direi anzi che siamo in centro. A meno di cinque minuti di motorino c’è Colle Oppio, il Colosseo, via dei Fori Imperiali. Da queste parti gli autocompattatori passano con un ritardo sempre maggiore rispetto a una cronologia ideale che non si capisce più bene quale sia. È un ritardo “naturale”. Sarebbe stato un ritardo “sempre più allarmante” secondo i canoni del vecchio paradigma. “Allarmante”, per dire la verità, lo definiscono ancora i mezzi d’informazione. “Allarmante degrado nella capitale”. Ma è come se parlassero da un’epoca che in certi contesti non esiste più. Il loro lessico – cioè il nostro – è ancorato al fuso orario di un continente in via di sparizione.

Non potrebbe essere altrimenti: gli abitatori delle terre emerse (i nuovi poveri, gli indigenti, i senza tetto, chi ha perso il lavoro negli ultimi anni, gli sfruttati per pochi euro al giorno che non sanno più dove sbattere la testa) reputano inutili i mezzi d’informazione. Non si prendono più neanche la pena di disprezzarli. L’inganno ai loro occhi è lampante. I mezzi di informazione – noi che ci lavoriamo, esattamente come gli uomini politici, o i dirigenti delle grandi aziende, ognuno nel proprio ambito – dichiarano di parlare in nome del bene comune, e in casi neanche troppo rari lo fanno in buona fede. Sulla base di questa presunzione ragionano, si indignano, polemizzano, propongono soluzioni per i grandi problemi del nostro tempo, sviluppano retoriche più o meno raffinate.

Ma quelli che lottano davvero per sopravvivere, cioè i poveri, sull’argomento hanno sviluppato una speciale sensibilità. Di conseguenza intuiscono che altrove, a molti gradini di distanza nella scala sociale, si sta svolgendo un’altra battaglia per non estinguersi. È quella che vede coinvolti editori e direttori di rete, caporedattori ed editorialisti, pubblicisti, presentatori televisivi, intellettuali, scrittori, così come (su un altro piano ancora) assessori, sindaci, parlamentari, leader politici. In questo caso è in gioco la sopravvivenza di status, perché solo per i poveri il pericolo di disintegrazione arriva ad affacciarsi sulla soglia decisiva: il corpo fisico.

Così, pur di sopravvivere in questi tempi difficili, i professionisti del discorso pubblico (compresi gli artisti quando, anziché quella dell’arte, si ritrovano a imbracciare la lingua dell’informazione) sono costretti a mentire anche più che in passato.

La menzogna non consiste tanto nel fabbricare o diffondere notizie false. La menzogna consiste nel simulare un sentimento che non c’è.

Non è un problema di scarso valore interiore dei singoli, è un problema di dispositivo linguistico da cui ci si lascia catturare.

Immaginate di voler scrivere una lettera di amore disinteressato, ma di avere a disposizione una tastiera stregata. Ogni volta che picchiate sui tasti per divulgare il vostro sentimento, la tastiera cambia le carte in tavola e comunica qualcosa di diverso. Quella tastiera è il discorso pubblico.

Il discorso pubblico è concepito per tutelare i suoi fruitori. Non è al servizio di un’idea che lo trascenda, pur dovendo richiamarsi continuamente a ideali superiori per darsi fondamento. Tutela i ricchi, i privilegiati, i proprietari di casa, i lavoratori ancora in grado di pagarsi un affitto, i detentori di un reddito buono o discreto o basso, i pensionati, i cassintegrati, i consumatori con un minimo potere d’acquisto. Non i poveri assoluti, non gli esclusi totali.

Al discorso pubblico, chi è fuori dal sistema non interessa affatto. Questo non toglie che il discorso pubblico (i media, gli uomini politici, gli economisti, le grandi aziende) auspichi che il numero dei poveri diminuisca. L’auspicio nasce tuttavia dall’esigenza di ampliare il proprio bacino di utenza, le proprie chance di sopravvivere, subito dopo il proprio potere. È questo che cambia tutto.

Fino a quando il povero resta tale – cioè fuori mercato – per noi è peggio che se fosse morto. È come se non fosse mai nato. Comincia a esistere solo dal momento in cui possiede una capacità di spesa, o (il caso della politica) la lotta per la sopravvivenza non è per lui così selvaggia da impedirgli di votare, o almeno (un corpo piacevole e relativamente sano) è ancora appetibile sul piano sessuale, fosse anche solo a livello contemplativo. Da questo punto in poi lo consideriamo un interlocutore. Prima di attraversare questa soglia, non riusciamo a riconoscere l’escluso come qualcosa di reale.

Una donna grassa, anziana, malata, senza soldi né casa né capacità giuridica. Per noi non è nemmeno un corpo. È come se fosse intrappolata nel limbo nero delle vite potenziali.

Così, le volte in cui mi scaldo e scrivo un bell’articolo (o persino un semplice post) a difesa degli ultimi, non è detto che il mio sentimento sia davvero rivolto a loro. Più verosimilmente, riesca io o meno a rendermene conto, è rivolto ai miei simili. Voglio essere apprezzato dagli integrati, perché sono loro (il direttore del giornale per cui scrivo, il direttore del giornale concorrente che potrebbe un giorno chiamarmi a collaborare pagandomi di più, i colleghi, il lettore che compra il giornale, nonché il lettore non pagante che legge on line e mette like a un post) che possono determinare chi più chi meno la mia fortuna, il mio prestigio, o anche solo la mia sopravvivenza di status. È la paura per me stesso che muove i polpastrelli sulla tastiera, non l’altruismo e nemmeno l’amore per un’idea.

Ciò nonostante, auspico davvero tra me e me che la povertà sia debellata, che la giustizia sociale trionfi. In apparenza, punto allo stesso traguardo degli spiriti elevati. Le premesse tuttavia sono diverse, e questo basta a rovesciare il significato di ogni mio respiro. Ecco allora la più nobile delle mie aspirazioni: contribuire a far sì che l’astrazione di cui mi occupo (i poveri, a cui in fondo non sto riconoscendo nemmeno il fatto di esistere) partorisca qualcosa di reale (un non-povero strappato alla povertà, un escluso che riesca a salire sulla barca degli inclusi: finalmente qualcuno che abbia la capacità di finire nel mio target).

Questo approccio così inumano non dipende solo dal mio egoismo. Questo approccio così inumano dipende dal fatto che il mio egoismo parla la lingua standard del discorso pubblico, che è diventata negli anni una lingua intrinsecamente ipocrita e mostruosa. Non è per fortuna l’unica lingua praticabile, ma è la più parlata. È la lingua da cui siamo colonizzati e per mezzo della quale colonizziamo a nostra volta. È molto difficile stradicare se stessi da questo ceppo. Ma quando ci riusciamo, accade l’impensabile. Quando ci riusciamo, magicamente, evadiamo dalla bolla di infelicità e imbelle narcisismo a cui quella stessa lingua ci costringeva. È ovvio. Una lingua che reputa astratto qualcosa di reale (il corpo fisico dei poveri) e reale qualcosa di totalmente astratto (esseri umani considerati tali solo in quanto target) non può che generare infelicità. La crisi che le sinistre soffrono in tutto il mondo è dovuta in gran parte al fatto di essere passate dalla padella (lottare contro l’ingiustizia usando il martello di un’ortodossia sempre più grigia e ottusa) a questo tipo di brace.

Come dicevo, tuttavia, le alternative a questa che in definitiva è la lingua del potere esistono. La lingua dell’arte è una delle possibili via di fuga. Naturalmente non è la sola, ma è a nostra continua disposizione.

La meravigliosa dedica con cui si apre La storia di Elsa Morante – “Por el analfabeto a quien escribo” “All’alfabeta a cui scrivo” – è emblematica in tal senso. Il problelma non è la comprensibilità. La lingua letteraria di Elsa Morante è inaccessibile all’analfabeta della dedica (e oggi lo sarebbe anche a molti alfabetizzati), ma ciò che conta è l’approccio. L’approccio della lingua che usa uno scrittore non dovrebbe avere nulla di utilitaristico. Non dovrebbe porsi il problema di un target né della propria sopravvivenza. È una lingua tutta all’insegna dell’apertura: da essere umano a essere umano. Allo stesso modo, è una lingua all’insegna dell’apertura quella dei grandi poeti. Non importa che a volte sia di difficile accesso o sembri oscura o incomprensibile. La sua bellezza sta nel fatto che non semina, non miete e non raccoglie nei granai. Proprio per questo, si rivolge a ogni vivente in modo gratuito e disarmato. Aperto.

In questo senso Georg Trakl è aperto. Emily Dickinson è aperta. Amelia Rosselli è aperta. Rispetto a loro, i più che decifrabili David Letterman e Oprah Winfrey sono chiusi. Non importa quanto possa essere stata (sempre che lo sia stato) egoista Elsa Morante nel privato delle piccole beghe quotidiane; nel suo romanzo lo è infinitamente meno di chi si batte per i poveri usando la lingua della comunicazione, perché la lingua che lei usa è davvero umana. Nel paesaggio linguistico e simbolico de La storia, Elsa Morante e l’Analfabeta finalmente si incontrano, si parlano, hanno pari dignità, e pur l’uno non capendo un accidente di ciò che dice l’altra (e magari viceversa) instaurano un rapporto reale, profondo, rigenerante, esattamente come potrebbero fare due sordomuti sprovvisti persino della lingua dei segni, ognuno dei quali riconosca però nell’altro (e dunque in se stesso) la cosa che più conta, cioè una piena umanità. Quel luogo di comunicazione interrotta è allora anche il luogo della massima comprensione, e rappresenta, finalmente, il continente in cui vale la pena vivere. È quella la nostra Atlantide.

Un intellettuale deve metterci ogni volta talento, coraggio e forza di volontà per scardinare le intrinseche menzogne del discorso pubblico, poiché è la stessa lingua che lui parla quando non riesce a evaderne. Un intellettuale è costretto a analizzare le acque del fiume in cui nuota molte ore al giorno per giungere alla conclusione che la sorgente è marcia o avvelenata. Un povero, per fare la stessa cosa, ci mette meno di un secondo. Poiché non abita lo stesso continente linguistico, un povero non ha bisogno di decostruire o analizzare alcunché con raffinati strumenti retorici da scasso. Il povero si limita a sentire la puzza di merda e scappa via.

Ma torniamo al Cristo morto tra i rifiuti. E prima ancora torniamo alla puzza di immonzidizia. Torniamo agli autocompattatori dell’Esquilino che non passano mai (quelli che un tempo chiamavamo più semplicemente “camion dell’immondizia”). Per i poveri che popolano sempre più numerosi il quartiere, il ritardo di questi mezzi non è, come dicevo, “allarmante”. È un ritardo normale. Le montagne d’immondizia sono normali così come è normale l’indigenza, i vestiti sporchi, il cibo scaduto, la malattia non assistita, il dormire per strada, e (non ultima) l’esigenza di non entrare in contatto più del necessario con chi vive al di sopra della linea di galleggiamento, cioè col mondo dei dominatori.

In poche ore i cassonetti si riempiono fino all’orlo. I residenti della zona (i non poveri, i non ancora poveri) si dannano per scaraventare le loro buste negli ultimi spazi disponibili. A un certo punto non c’è più un solo buco libero e si è costretti a abbandonare l’immondizia dove capita, cioè per terra. In poche ore le buste diventano una collinetta.

Il giorno dopo la collinetta è cresciuta. L’effetto è interessante rispetto ai tre contenitori per la raccolta differenziata, i quali diventano inaccessibili a causa del muro di rifiuti organici che sbarra il passaggio. È una buona metafora di ciò che è andato storto. Il mondo ideale (quello in cui si sarebbe dovuta riciclare con diligenza la plastica, il vetro, la carta, a beneficio della vita prospera, solidale, fraterna e sostenibile che non ha mai visto la luce) viene sbaragliato brutalmente dalla realtà.

Disordine chiama disordine. Noi residenti, visto che nessuno passa a raccogliere l’immondizia, dopo qualche giorno cominciamo ad avvertire il vuoto d’autorità come un’occasione. Qualcosa all’improvviso scatta in noi. A un certo punto c’è proprio una strana euforia nell’aria. La montagna di rifiuti ci chiama. Tutti, a turno, scendiamo in strada e cominciamo a scaricare ai piedi della piramide di immondizia quello che non ci serve più. Non solo l’immondizia del giorno precedente. Scaraventiamo tra le montagne di rifiuti diversi oggetti che tenevamo in casa senza motivo da tanto tempo: vecchie lampade, attaccapanni, biciclette rotte, batterie da cucina. C’è chi abbandona un forno a microonde che non ha mai funzionato, chi una pila di libri, chi una stampante rotta, chi un armadio, chi un materasso, chi addirittura scaraventa tra le buste d’immondizia uno scooter semicarbonizzato a cui ha strappato via la targa.

C’è un clima di qualunquismo selvaggio e devastata esaltazione tutt’intorno. Ci sarebbe da temere che la situazione sfugga di mano e qualcuno nel delirio mistico scaraventi nell’immondizia il proprio coniuge.

Mentre ci rendiamo protagonisti di questo assurdo spettacolo, i sentimenti che proviamo sono abbastanza eclettici: rabbia, rassegnazione, schifo – siamo pur sempre circondati da muri di immondizia che sprigionano un odore nauseabondo –, addirittura un folle senso di rivincita, nonché un brivido da passaggio di status. Nei minuti in cui annaspiamo tra i rifiuti, non è più perfettamente chiaro cosa siamo. Siamo ancora classe media? Siamo antropologicamente scesi per qualche istante sotto la soglia della povertà? Siamo dei cafoni irredimibili? Dei disperati? Dei barbari? Dei mutanti?

(Qualche sera fa, io e mia moglie siamo usciti per andare a farci una pizza. Prima di raggiungere lo scooter abbiamo buttato l’immondizia. A un certo punto ho visto mia moglie in gonna corta, tacchi alti e camicetta di seta che emergeva tra tra grandi colonne di rifiuti con le sue lunghe gambe scoperte, il suo incedere imbronciato tra cartoni marci e reti ortopediche, una scena da Mad Max che ai miei occhi aveva persino un che di interessante).

Siamo ancora dei borghesi?

Me lo sono chiesto con insistenza guardandomi io stesso in azione non molto tempo fa. Nel quartiere, i ladri di scooter abbondano. Roma è una città la cui estensione supera Parigi ma possiede giusto due linee della metropolitana che si incontrano in unico punto, più una terza che ne incontra solo un’altra. Possedere uno scooter per quelli come me (in certi giorni devo essere in quattro posti della città molto distanti tra loro) è una condizione per lavorare. All’Esquilino i ladri di motorini hanno vita abbastanza facile. Già un paio di volte l’anno scorso mi avevano rubato lo scooter. Come se non bastasse, tempo fa è entrato poi in azione anche il “piromane dei motorini”. Un tizio o una tizia che periodicamente dava fuoco a un paio di veicoli a due ruote. Il fenomeno è durato qualche mese, ed è finito come era cominciato: nel mistero.

Durante “i mesi del piromane”, preso dall’esasperazione, per evitare che il mio prezioso mezzo di locomozione venisse dato alle fiamme, mi è venuta un’idea. Parcheggiare lo scooter strategicamente vicino ai bidoni dell’immonzia. Lasciare che venisse travolto dai rifiuti non raccolti. A chi verrebbe in mente di dare alle fiamme uno scooter sepolto dall’immondizia? Il trucco ha funzionato. Il motorino di qualche conoscente ha fatto una brutta fine. Il mio è stato risparmiato. Ogni mattina, alle sei meno dieci, prima di andare al lavoro, mi ritrovavo così a liberare lo scooter dalle buste d’immondizia da cui era stato nel frattempo sommerso, un’operazione con cui non avrei immaginato di dover cominciare la giornata quando meditavo di fare lo scrittore. Ogni tanto, dedicandomi a questa operazione antelucana, mi dicevo ridacchiando che il passaggio dall’allegoria di Finale di partita al dato reale era completo. Chi diavolo sono?, mi chiedevo anche, liberando lo scooter dell’ultima busta d’immondizia. A quale classe sociale appartiene la mia vita quotidiana?

(Ovviamente solo la lingua dell’informazione potrebbe partorire domande così idiote. Ma, come vedremo tra poche pagine, solo l’apparizione del Cristo morto tra i rifiuti renderà tutto questo lampante).

L’Esquilino è uno dei fallimenti più interessanti nel fallimento generalizzato di Roma. Alla fine degli anni Novanta (quando ancora ci si illudeva che l’Europa avrebbe preso un’altra direzione) si scommetteva sul fatto che quest’area abbastanza centrale che va da viale Castrense a piazza dei Cinquecento sarebbe presto stato il più moderno quartiere multietnico della penisola. Italiani, cinesi, indiani, pakistani, bengalesi avrebbero intrecciato le loro vite diventando l’avanguardia di una rivoluzione culturale in salsa mediterranea che avrebbe portato non solo integrazione, ma anche ricchezza esistenziale e benessere economico. Questo era il tipo di gergo che si usava allora, specie in ambienti progressisti.

Il quaritere negli anni non è esploso e non si è gentrificato. Il quartiere è crollato su se stesso sotto il peso di vecchie e nuove povertà. Questo non ha tuttavia trasformato l’Esquilino in una zona pericolosa, e in fin dei conti nemmeno in un umbratile quartiere in preda alla disperazione com’è accaduto per certi spazi dell’estrema periferia. L’Esquilino è diventato una sorta di vivace zona franca in cui si affonda tutti insieme. Poca violenza. Pochissimo razzismo. Niente integrazione come la si era immaginata. Poca bellezza ma anche poca solitudine. Nel quartiere ci sono ferrovieri, medici di base, artigiani, baby sitter, meccanici, sarte, artisti di vario tipo, giornalisti, massaggiatrici, commercianti e camerieri e lavapiatti di tutte le etnie, vecchie prostitute, ladri, baristi, extracomunitari con e senza lavoro, ricettatori, vagabondi, piccoli spacciatori, nonché un gruppo crescente di indigenti, barboni e alcolizzati che sono diventate le vere sentinelle della zona.

Come scrivevo, qui l’integrazione si è realizzata in modo molto diverso da come ci si aspettava.

Le anime belle, negli anni Novanta, sognavano da queste parti la nascita di tutta una serie di aziende del terziario avanzato. Si sarebbe dovuto trattare di imprese multietniche, moderne, sostenibili, competitive. Case discografiche? Case editrici? Giornali? Catene di negozi alimentari? Marchi di abbigliamento? Software-houses? Non è mai stato davvero chiaro. Si immaginava a ogni modo che in queste imprese del futuro gli indiani ci avrebbero messo l’intelligenza, i cinesi la costanza, i nord-africani la salutare discontinuità del ritmo e gli italiani la fantasia. Equipaggiati in questo modo, avremmo fatto concorrenza a Zara e magari persino a Google.

Cos’è successo invece negli ultimi vent’anni?

Esempio numero uno di integrazione.

Un ultrasettantenne male in arnese, magrissimo, senza quasi più denti in bocca. Italiano. Si chiama Renato. Non ha lavoro, non ha risparmi, non ha una casa di proprietà e nemmeno parenti a cui affidarsi. Sarebbe destinato alla strada se l’indiano titolare di un piccolo negozio di alimentari qui vicino non avesse deciso di impiegarlo. Il vecchietto spazza per terra, rimette ordine tra gli scaffali e ha anche il tempo per oziare. E cosa fa durante le ore libere? Legge Tex. Nello splendido isolamento che riesce a creare intorno a sé (seduto per terra, in un angolo buio dell’alimentari) segue concentratissimo le avventure del ranger creato da Gian Luigi Bonelli. Legge Tex continuamente, compulsivamente, serissimamente. E dire che lui stesso (il vecchio Renato) sembra l’incrocio tra un cheyenne sopravvissuto al massacro di Sand Creek e il classico vecchietto dei western. Non l’ho mai visto ridere. Alle sei del mattino, quando l’alimentari non è ancora aperto, lui è già lì. Lo vedevo quando estraevo lo scooter dall’immondizia e lo vedo tutt’ora quando vado a lavorare. Renato seduto sul marciapiede che mastica le proprie stesse gengive in attesa che l’esercizio commerciale apra. Molte ore dopo, durante la pausa pranzo, circondato dai datori di lavoro indiani, si dedica alla sua passione. Tex Willer. Il risultato di tanta dedizone è interessante. Non è Tex a trasformare il vecchio Renato in un’icona pop come avrebbero preteso i professori di sociologia di vent’anni fa. È il vecchio Renato ad attirare nell’irresistibile gorgo della nuova indigenza questo fumetto, cambiandone la destinazione d’uso, da intrattenimento della modernità alfabetizzata (i baby boomer, una certa classe media, il pubblico intellettuale, Sergio Cofferati) a divertimento popolare della dopomodernità priva di risorse. In questo, il vecchio Renato è molto più vicino ai proletari della vecchia Inghilterra che si scambiavano l’un l’altro i fascicoli del Circolo Pickwick quando usciva ogni nuova puntata.

Esempio numero due di integrazione.

Un bengalese di trentacinque anni titolare di un dozzinale negozio di profumi, e un romano di quarant’anni titolare del negozietto di articoli sportivi che gli sta accanto. I due non hanno frequentato l’università, né tantomeno un liceo, e forse neanche una scuola media inferiore. Leggono a stento l’italiano. Hanno fraternizzato tra di loro. Da bravi vicini, quando c’è bisogno, uno chiede aiuto all’altro. Ognuno, a parole, fa molto pesare l’aiuto che offre, ma non si tira quasi mai indietro. Quando uno dei due si nega, lo fa di solito perché “nun me va”, difficilmente perché potrebbe riceverne uno svantaggio. Ogni mattina i due vanno al bar a fare colazione insieme. Per rinnovare il loro vincolo d’amicizia, si chiamano tra loro in maniera affettuosa.

“A bangladesharo demmerda!”, fa l’italiano.

“Romano di merda!”, risponde il bengalese.

Oppure “negro di merda!” urla l’italiano, e “italiano di merda!” risponde il bengalese.

E ancora, il romano chiama il bengalese “rumeno demmerda!” e il bengalese chiama il romano “napoletano di merda!”

Non è lo scarso livello d’istruzione che impedisce a entrambi di fraternizzare con un gergo lontano dalla parodia di quello che userebbero i razzisti. È esattamente l’opposto. Il problema è che i due, proprio perché (almeno tra di loro) non sono razzisti, riconoscono istintivamente nella lingua ufficiale dell’integrazione (la retorica progressista della multietnicità felice, appena meno ampollosa di quella dell’Europa felicemente unita) un che di falso e di ipocrita. Anche qui, da buoni semianalfabeti, non hanno difficoltà a riconoscere le insidie di una lingua che non gli appartiene né procura loro dei vantaggi. Anzi. Quella lingua in fondo in fondo li discrimina. I due sanno, senza nemmeno doverci troppo ragionare su, che la maggior parte dei progessisti di buon lignaggio guardano quelli come loro dall’alto in basso. I nostri due amici sentono puzza di classismo mascherato, nonché del conseguente senso di colpa da complesso di superiorità. (Non è ancora la puzza di merda di cui parlavo prima, ma segue la scia). Così, per stringere amicizia tra di loro, per tenere il loro privato al riparo dai colonizzatori dell’immaginario, a una falsa lingua della tolleranza preferiscono una parodia del peggiore razzismo.

A ogni modo, né l’indiano dell’alimentari né il vecchietto che legge i fumetti di Tex né il bengalese né il titolare del negozietto di profumi versano in una condizione di povertà estrema. Sono poveri secondo i criteri dell’Istat, non per la legge della strada, e neanche per quella di certe aziende. Sono ancora un target. I copywriter, quelli come loro, li contemplano ancora nelle campagne pubblicitarie dei prodotti economici. I politici ne tengono conto. Noi (seppure con un po’ di superiorità, e annesso ipocrita senso di colpa) li consideriamo ancora degli interlocutori. Crediamo alla loro esistenza fisica. Quelli come loro potrebbero diventare nostri amici quotidiani, certe volte diventano persino nostri amanti.

I veri poveri del quartiere stanno da un’altra parte. Sono i vagabondi, i senzatetto, i malati di mente abbandonati a se stessi, gli alcolizzati, i nullatenenti. Ce n’è una buona quantità, tanto che alcuni sono ormai dei punti di riferimento. È ad esempio molto nota, all’Esquilino, l’alcolizzata che fa riecheggiare le proprie pernacchie sotto i portici. Si tratta di una donna molto alta, fisico duro. Dorme per strada. Ha il viso segnato dal vino di pessima qualità che consuma e non di rado è in preda alle visioni da delirium tremens. Deve vedere qualcosa di mostruoso, perché le sue urla sono piene di rabbia e di paura. A un certo punto non sono più neanche vere e proprie urla. Sono una sorta di stranissima pernacchia ripetuta in modo sempre uguale, un’esplosione gutturale che la vibrazione delle labbra distorce oltremodo.

Quand’è domenica, e il traffico per strada è meno intenso del normale, la sento dal terzo piano. Allora mi affaccio. La vedo camminare nel nulla. Segue la linea del tram, diretta al Pigneto o a Centocelle. Di solito comunque se ne sta seduta sotto i portici di piazza Vittorio. Sembra ridotta sempre peggio. Eppure è sempre lì. Devastata dall’alcol, dalle intemperie, dalla sporcizia, dalla fame ma viva, testimonianza che certe volte il corpo umano possiede una stupefacente capacità di resistenza.

Un nuovo arrivo è un transessuale che, da almeno un anno, se ne sta tutta sorridente sotto l’entrata di uno dei supermercati del quartiere. Non so come faccia, ma è quasi sempre lì. Sotto la pioggia e sotto il sole. Sorride e guarda la gente che entra a fare la spesa.

Potrei continuare con l’elenco ma basta così. La cosa importante è essere arrivati a loro.

Come dicevo, uno di questi senzatetto me lo ritrovo un giorno tra i cumuli di immondizia dove, in un passato recente, nascondevo il mio scooter per paura che venisse dato alle fiamme.

Sto tornando da una sfiancante mattinata lavorativa. Sono le tre del pomeriggio. Fa caldissimo e io, pur essendo in giro dalle sei del mattino, devo lavorare ancora molte ore prima di considerare la mia giornata terminata. Un tempo, con due articoli ben piazzati su un quotidiano nazionale, ci si campava senza pretese un paio di settimane. Ora, per ottenere lo stesso risultato, bisogna lavorare molto di più. In Italia e buona parte d’Europa è così per quasi tutti i mestieri. Non lo dico per lamentarmi. Lo dico per spiegare su che parametri è ancorato il mio ritmo interiore (massimizzare il tempo a disposizione, distrarsi il meno possibile, sprecare molte meno ore minuti secondi rispetto a ciò che succedeva nel mondo di prima) mentre, un attimo dopo averlo intercettato con la coda dell’occhio, non posso fare a meno di riconoscere che sì, c’è proprio un vecchio nella spazzatura.

Il primo sentimento che provo, un decimo di secondo dopo averlo intercettato, è: biasimo per l’abilità del mio colpo d’occhio. Vorrei non averlo visto. Devo correre verso le tante cose da fare e adesso invece sono costretto a occuparmi di un uomo che forse è morto, forse è ferito in modo grave, forse è solo un altro alcolizzato crollato giù per terra. Non sto ancora ragionando su quel che c’è da fare. Però il biasimo non viene neanche dalla parte più profonda di me. Navigo in questa istintuale via di mezzo che ha molto a che fare con il ritmo a cui vengono ancorate le mie giornate lavorative, il quale a propria volta deve tutto o quasi all’idea di esistenza riconosciuta in questa parte di mondo.

Devo aiutare il vecchio. Ho l’obbligo di fermarmi e di soccorrerlo. È il senso civico che me lo impone, sono i doveri della solidarietà sociale. Addirittura la legge (voglio rischiare una denuncia per omissione di soccorso?) Non però qualcosa di anteriore. Ed è qui, ancora una volta, che si presenta il problema. Ricordate le insidie del discorso pubblico? la tastiera stregata che cambia le carte in tavola trasformando ogni nostro miglior proponimento in qualcosa di diverso? È esattamente quella tastiera che governa i miei sentimenti nelle frazioni di secondo che sto provando a raccontare.

Lo guardo meglio. È certamente un povero. Forse un barbone. Più probabilmente un alcolizzato. Ha questo maglione (di lana) che gli scopre l’addome e una parte del torace. L’addome e il torace sono sporchi. Gli riconosco addosso graffi, croste, raggruppamenti di pustole che gli devastano la carne scoperta. Una grande macchia rossa gli si apre sui pantaloni. Noto che al polso sinistro indossa due orologi. È in questo istante che – più veloce di qualunque riorganizzazione mentale – partorisco un pensiero di cui avrò modo di vergognarmi. La visione dei due orologi mi fa sospettare che l’uomo sia un ladro. Il problema è che mi trovo a sperare che sia un ladro, e ancora meglio un rapinatore. (Infatti con lo sguardo cerco senza successo di ritrovargli addosso un terzo, un quarto, e magari un quinto orologio).

Perché spero sia un fuorilegge? Perché se è un ladro, o un rapinatore, la sua condotta criminale giustifica ai miei occhi (per meglio dire ai nostri pregiudizi) il fatto che ora si trovi per terra, privo di conoscenza, forse ferito. Violare la legge espone a molti pericoli. E persino sul piano etico, giustificherebbe forse questo tipo di retribuzione (giacere sconfitto tra i rifiuti).

In realtà non è assolutamente questo il punto, almeno per me. Ho sempre empatizzato con i piccoli criminali quando mi sono trovato a frequantarli. Il problema è che per il senso comune (che io sto incarnando in questi disgraziati istanti) la condotta criminale giustifica il fatto di poter finire svenuti per strada, mentre non c’è niente che giustifichi la povertà. Così – pur di non guardare in faccia questo scandalo, pur di non riconoscerci in esso – ci auguriamo che il povero sia colpevole di qualcosa. Speriamo ad esempio che sia un fuorilegge, o lo portiamo a infrangere la legge (tra rubare e morire di fame la scelta non si pone) pur di non attraversare noi questa porta così stretta.

Il vecchio signore svenuto tra i rifiuti che mi è toccato in sorte, non è però evidentemente un ladro. Basterebbe guardarli meglio, quei due orologi al polso sinistro. Non sono dei Rolex. Sono due dozzinali orologetti di gomma. A rivenderli non varrebbero niente. Bisognerebbe magari pagare per darli via, tanto sono brutti e fuori moda. Così il fatto che l’uomo indossi due orologi può essere una bizzarria, o una minuscola manifestazione di vanità, circostanza che ci risulterebbe ancora più indigesta perché farebbe entrare il povero nell’orizzonte delle nostre abitudini quotidiane (la vanità, una piccola vacanza dai bisogni primari), lo renderebbe troppo simile a noi. È questo che ci risulta intollerabile. In barba alle migliori conquiste della modernità laica, nonché del più profondo pensiero religioso, continuiamo a considerare la povertà un’astrazione, e i veri poveri (gli ultimi, gli emarginati, gli stranieri) qualcosa che non esiste per davvero.

Mentre in realtà esistono. Uno di loro è qui, proprio di fronte a me.

Ha una faccia ossuta e rovinata. La bocca spalancata. E gli occhi. O meglio, le ciglia. Le ciglia sembrano due cerniere nere: si incastrano tra loro dando vita a due minuscoli asterischi che credo di non aver visto così su nessun altro. Il viso di questo povero vecchio acquista un che di maschera cinquecentesca, una sorta di Pierrot mattutino, qualcosa di totalmente diverso dalle altre facce prive di coscienza con cui ho avuto a che fare nella vita (le facce addormentate che pure ho contemplato, le facce degli eroinomani dopo una pera, dei fattoni di md che crollavano dopo aver ballato ore, le facce di chi era appena svenuto – un’amica crollata dopo una crisi isterica – su cui mi sono soffermato un istante prima di prestare soccorso). Mi appare così strana, diversa, la faccia di questo vecchio, che per un altro sciagurato istante mi domando se questa diversità non sia il sintomo del fatto che sta morendo.

A ogni modo, sono passati non più di venti secondi da quando mi sono accorto di lui. Sono le tre del pomeriggio. Per strada non passa quasi nessuno. Raccolgo dalla tasca il telefonino e chiamo il 118. Mentre il telefono squilla, mi guardo intorno con malcelata impazienza. Sto cercando a mia volta un aiuto, un complice, qualcuno che condivida con me questo momento, che non mi lasci solo.

Nella mia vita mi sono ritrovato almeno una volta da solo con rapinatori, spacciatori, rapinaori, ladruncoli, e ora temo di rimanere solo con un povero vecchio che guardo dall’alto in basso mentre giace svenuto per terra. Qualche passante osserva la scena, allunga il passo. Fugge dal vecchio, e ancor di più dal mio sguardo (se lo incrociasse non sarebbe più da solo con le proprie azioni, la sua fuga verrebbe timbrata da un biasimo sociale che gli risulterebbe troppo fastidioso).

Poi però – sono sempre in attesa al telefono – una passante, dopo aver notato il vecchio, incrocia volontariamente anche il mio sguardo perché evidentemente la sua coscienza è troppo raffinata per pensare di farla franca con certi trucchetti.

Si ferma. Chiede: “cosa succede?”

Io dico: “sta male”.

Lei: “stai telefonando al pronto soccorso?”

“Il 118”, faccio io.

Mentre parliamo, due indiani che avevano osservato la scena troppo a lungo tirano un sospiro di sollievo e vanno via. La presenza della passante (e forse il fatto siamo entrambi italiani) li solleva dall’obbligo di intervenire.

La mia improvvisa compagna d’avventura dice: “ma è ferito?”

La guardo meglio. È una ragazza sui trenta. Molto magra, niente seno, capelli raccolti a coda di cavallo. Naso all’insù. Porta gli occhiali. Il volto pallido, ma senza tracce d’aristocrazia. Piuttosto è l’incarnato di chi ha passato molto tempo a leggere sotto la luce artificiale. È vestita in modo semplice: pantaloni della tuta, scarpe da ginnastica, t-shirt bianca. Ha una faccia intelligente, dalla quale non trapela nessuna abitudine seduttiva. Mi verrebbe da pensare che è il prototipo della prima della classe dal cuore d’oro, la ragazza pronta a passare senza rimpianti il compito di matematica in un’aula di soli maschi nessuno dei quali la inviterà ad uscire.

Non ho tempo per ulteriori divagazioni, il 118 risponde. La voce di un ragazzo.

“Pronto?”

“Pronto, buongiorno”, faccio, “mi trovo in via di Porta Maggiore. Ho trovato un signore per terra. Forse è svenuto. O ferito, non so…”

“Mi dice il suo nome?”

Glielo dico.

“La metto in attesa. La collego con chi si occupa di smistare le ambulanze”.

Parte la musichetta. Guardo la ragazza. La ragazza guarda il vecchio per terra. Lui è sempre immobile.

“Pronto, mi dica”.

Adesso al telefono c’è una voce femminile. La voce di una donna. Non vorrei sbagliare, ma il tono mi sembra meno accogliente rispetto a quello di chi l’ha preceduta.

“Buongiorno”, faccio, “c’è un vecchio che…”

“Dove si trova?”

“Ah, sì, l’avevo detto al suo collega. In via…”

“Dove, scusi?”

“Sì, guardi, siamo in via di Porta Maggiore. C’è questo vecchio disteso per terra. Sotto il sole. Magari è lì da ore. C’è una macchia rossa sui pantaloni”.

“È morto?”

“No, respira”.

“Bene. Allora mi dica: è ferito o ha solo perso conoscenza?”

La conversazione sta prendendo una strana piega da quiz macabro.

“Vuole sapere se è ferito o ha perso conoscenza”, sussurro alla ragazza.

Al che la ragazza si mette proprio in corrispondenza del vecchio e dice: “signore? Ehi, signore!”

Il vecchio non si muove.

“Allora?”, dice intanto la voce telefonica caricandosi di impazienza, “è ferito o solo in stato di incoscienza?”

A questo punto soffoco un orribile gesto automatico. Un gesto che per fortuna non ho compiuto, ma che stavo per compiere. Pressato dalla voce telefonica, stavo per tastare il vecchio con la punta della scarpa allo scopo di svegliarlo, come fosse un pericoloso animale addormentato o un focolaio epidemico. Non voglio istintivamente toccare il vecchio. Non voglio toccare il povero. Ecco la verità. Non voglio essere contaminato dalla sua indigenza, dalla sua sporcizia, dalla sua sconfitta. Mentre è chiaro, maledizione, che invece non correrei alcun pericolo a toccarlo. Non correrei pericoli a carezzarlo, ad abbracciarlo, a cercare di rimetterlo in piedi. (Di recente non mi sono fatto alcuno scrupolo a pulire a colpi di straccio bagnato la macchina di un amico che lui aveva sciaguratamente parcheggiato in piazza della Repubblica. La ritrovammo interamente ricoperta di guano, e Dio sa di quale salute godono gli storni che volano nel cielo di Roma). Nessun pericolo con questo vecchio. Eppure mi limito a gridare: “ehi! Signore! Signore!

“Svenuto o ferito? Svenuto o ferito?“, continua a ripetere la voce telefonica.

Al che, per fortuna, tocca alla ragazza entrare in azione.

La ragazza si piega sul vecchio, cioè si avvicina alla sua faccia nonché alle buste d’immondizia che lo circondano. Sussurra: “ehi, signore…” Il vecchio non risponde. Dai suoi lineamenti non arriva alcun segno di vita. La ragazza allora estrae dalla borsa una bottiglietta di plastica mezza piena d’acqua. Svita il tappo. Allunga la bottiglia verso la bocca del vecchio. E anche lei, la mia ragazza dal cuore d’oro, sta attenta a non toccarlo! O forse accade solo casualmente che non lo tocchi (posso testimoniare per i miei sentimenti, non per i suoi). Non appena tuttavia l’imboccatura della bottiglia tocca il bordo delle labbra del vecchio, succede qualcosa. Gli asterischi neri vibrano. La bocca del vecchio si allarga. L’uomo esce dello stato di incoscienza. Spalanca gli occhi. Fa roteare lentamente la mandibola. E poi: ci guarda. Ancora steso nell’immondizia, ci guarda spaventato. Ci guarda come se fino ad pochi istanti fa fosse stato in un luogo disagevole ma tutto sommato ancora umano, e ora si fosse invece appena risvegliato in un incubo. Quell’incubo siamo noi. Sono io, la ragazza che mi sta accanto, la strada, Roma, il mondo.

“Svenuto o ferito? Svenuto o ferito? Allora!“, mi incalza la voce telefonica.

“Senta… il signore ha ripreso conoscenza”, faccio.

Il vecchio afferra la bottiglietta. Dà un lungo sorso d’acqua. Poi inizia a grattarsi le pustole sull’addome. Mugugna frasi che non riusciamo a comprendere. Cerca di mettersi in piedi. Si dà troppo slancio, come chi, preso in trappola, tenta di scappare dimenticandosi delle forze a disposizione. Infati barcolla. La ragazza non fa in tempo a raccoglierlo al volo. Il vecchio crolla di nuovo tra le buste d’immondizia. Non è svenuto un’altra volta. Ma è esausto, confuso. Si guarda intorno. Ho l’impressione che quello che vede lo sconcerti sempre più.

“Ha ripreso conoscenza?”, chiede la voce del 118.

“Sì”, faccio io, “ma non sta bene. È caduto di nuovo per terra”.

“Signore, senta! Le condizioni di quest’uomo sono gravi? O sono gravissime? Gravi o gravissime?”

“Guardi, non mi pare proprio che stia be…”

“No, senta!”, la signora del 118 si scalda sempre più, “lei mi deve dire con precisione se il signore rischia di stare peggio. Mi deve dire se ha bisogno dell’ambulanza che io nel caso le sto per mandare. Dunque ora risponda: ha bisogno dell’autombulanza, o non ha bisogno dell’autombulanza?”

“Guardi io non è che…”

Lo chieda a lui!

“Ma non mi sembra proprio che il signore sia in grado di rispondere a questa domanda!”

“Allora me lo dica lei!”

“Glielo dico io che cosa?”

“Se il signore ha bisogno o meno dell’autombulanza. Me lo dica lei! È lei che ha chiamato ed è sua la responsabilità”.

“Secondo me sì, avrebbe bisogno di un’ambulanza”.

“Non mi deve dire ‘secondo me’. Mi deve dare la certezza”.

“Scusi, ma è il colmo!”

Sto iniziando a scaldarmi pure io.

“Il colmo cosa, mi scusi?”, fa la signora.

“È il colmo che io debba darle una certezza sulle condizioni di salute di quest’uomo”, dico, “posso descriverle il suo stato. Quali segni ha sul corpo. Come lo vedo io. Posso farle una descrizione anche molto dettagliata. Ma poi è lei… anzi… siete voi che dovete dedurne immagino le condizioni di salute. Perché insomma… io ho chiamato il 118… e il 118 mi ha passato lei… e che diamine… gli esperti di queste cose siete voi“.

La signora del 118 esplode.

“Signore! Signore!“, ora sta proprio urlando, “ma cosa dice! Gli esperti saremmo noi? Lei ha chiamato e gli esperti saremmo noi? Ma si ascolta quando parla? Sappia che questa telefonata è registrata! Lei corre un rischio! Ha chiamato lei, non io!”

“Mi sta dicendo che avrei dovuto non chiamare?”, dico sbigottito.

“Guardi che l’ho capita a lei! Non mi metta in bocca cose che non ho detto! Lei ha chiamato e lei deve comunicarmi lo stato di salute di quest’uomo. Lei mi deve dire adesso! Subito!”, prende un respiro, “lei mi deve dire se quest’uomo ha o non ha bisogno di un’ambulanza! E lo deve fare sotto la sua diretta responsabilità, non la mia!”

È chiaro cosa sta succedendo mentre io boccheggio al telefono, la ragazza mi guarda sbalordita e il vecchio rimane steso a terra tra le buste. Sta succedendo che io e la signora del 118, da punti di vista molto diversi, stiamo maneggiando in modo molto stupido lo stesso problema. Che cosa stiamo facendo, in fondo, se non scaricarci addosso l’un l’altra ciò che avvertiamo come un gigantesco ingiusto insostenibile vuoto d’autorità?

Io, a tu per tu con il vecchio non saprei cosa fare, e allora ho bisogno di un’autorità che se ne occupi per me (come se il ritrovamento di un vecchio in un deposito spontaneo d’immondizia attivi innanzitutto una pratica burocratica – tutto, tutto pur di non riconoscere ciò che sta prima di qualunque burocrazia o di qualunque autorità, tutto pur di non arrendersi allo scabroso nudo dato di realtà: l’uomo che mi sta di fronte, l’evidenza della sua fisicità di corpo umano!)

La signora del 118, a propria volta, si trova quasi sicuramente a dover svolgere il proprio lavoro quotidiano tra mille disagi, mille ritardi, mille problemi, mille malfunzionamenti, mille stipendi arretrati, e dunque, esasperata, forse sull’orlo di una continua crisi isterica, vorrebbe che almeno una parte del peso di questa responsabilità ricada su qualcuno che non sia lei.

In tempi di crisi l’autorità scricchiola, così noi (quando non possiamo approfittare della situazione) la invochiamo come ossessi, e così dimentichiamo che quella stessa autorità, per essere legittima, non può fondarsi su se stessa, ma su principi anteriori che evidentemente non siamo in grado di ritrovare al primo vuoto d’aria.

“Sì, sì, certo che ha bisogno di un’ambulanza. Ce la mandi! Mi prendo io tutta la responsabilità!”, dico alla fine.

“Benissimo. Gliela mando. Male che va, comunque, gli misureranno la pressione”, la signora ritrova inaspettatamente un po’ di calma. Quindi riattacca.

Mi rimetto in tasca il cellulare. Fine dello psicodramma. Guardo la ragazza. E, finalmente, mi ritrovo dall’altra parte. Succede all’improvviso. Guardo il vecchio: è così chiaro che esiste! Mi piego su di lui. Anche la ragazza si accovaccia. Lo osservo ancora meglio: solo adesso mi riconosco come una vaga ombra nei suoi occhi. Fino a qualche istante fa le sue pupille avrebbero restituito plausibilmente il nulla, come gli specchi coi vampiri. Faccio per toccarlo, ma a questo punto è lui che si ritrae. Arretra trascinandosi sul sedere, lasciandosi travolgere ancora più rovinosamente dalle buste d’immondizia.

“Come sta?”, gli chiedo gentilmente. Quindi lo seguo, mi inoltro anche io tra le buste d’immonzizia. Il fetore è insopportabile.

“Vuole che le vada a prendere qualcosa da mangiare? Da bere?”, dico.

“Noooohhh… ‘atemi ‘in pascheee…”, biascica lui grattandosi le costole.

“Sta per arrivare l’ambulanza. Ora l’aiutano”, dice la ragazza in tono rassicurante.

“Nohh… nohh”, fa il vecchio con una voce straziata. Prova a mettersi in piedi. Un paio di buste rotolano via dal mucchio. Un materasso annerito crolla tra me e la ragazza.

Mi avvicino ancora di più: “guardi, le diamo una mano. La prego, si faccia aiutare”.

Il vecchio riesce a darsi lo scatto decisivo. Si mette definitivamente in piedi. Poi si guarda intorno. Osserva le buste. Tra le tante riconosce le sue: un piccolo contenitore di plastica dentro cui intravedo un sapone e dei rasoi, un borsone di tela con dentro dei vestiti.

Raccoglie i suoi averi. Si guarda intorno, cerca una via di fuga.

“Senta”, dice la ragazza, “sta per arrivare l’ambulanza. Non vuole proprio aspettarla?”

Il vecchio scuote la testa. È chiaro che non vuole l’ambulanza, non vuole noi tra i piedi, desidera solo andare via. Ci guarda. Scuote la testa.

Mi avvicino ancora. Adesso sarei pronto a toccarlo, carezzarlo, abbracciarlo, aiutarlo senza bisogno di interpellare nessuna autorità.

“Senta”, dico, “senta, la prego, si lasci aiutare”.

Ma lui fa una faccia orripilata. Probabilmente ha intuito (questa cosa passa tra me e lui, lo fa senza alcun dubbio, come i sentimenti più insondabili e importanti passano tra esseri umani, e forse tra i viventi in generale, senza bisogno di parole o gesti particolari) che pur essendo io ora disposto a riconoscerlo, lo sto facendo a patto che lui compia lo stesso sforzo con me. Perché ho bisogno che lui riconosca me? Perché si è uomini solo se la piena umanità la si ritrova nell’altro. È questo rispecchiamento che attiva tutto. Nel momento in cui la neghi all’altro, l’hai appena distrutta in te stesso. Nell’aver prima ridotto lui a un discorso, a un’idea astratta, a una pratica, ho ridotto me a nulla.

Mi avvicino ancora.

Il vecchio dice: “no”.

Ha un’espressione dura in volto. Non ha bisogno di analizzare chissà quale linguaggio, di decostruire chissà quale sistema di pensiero. Io e la ragazza, nel quarto d’ora in cui ci siamo occupati di lui, non lo abbiamo in cuor nostro riconosciuto. Tanto basta perché lui abbia sentito la puzza di merda.

Il vecchio raccoglie le forze rimaste. Ci volta le spalle. Attraversa a fatica la montagna d’immondizia. Passa tra i cassonetti. Supera il marciapiede e si ritrova per strada. Barcolla ancora un po’. Comincia a camminare, a fatica, poi sempre più sicuro. Il sole gli cade a picco sulla testa. Lo vediamo allontanarsi verso la linea del tram.

Il problema del pensiero laico e progressista non constiste nell’aver interrotto ogni dialogo con quello religioso (per non parlare di quanto le istituzioni religiose tradiscono se stesse alla radice), ma nell’aver abbandonato qualunque idea di trascendenza. Se il pensiero laico è un fine e non un mezzo, siamo nei guai. Perché ogni vita umana è sacra? E poi, è proprio così? Dobbiamo amare il prossimo per il semplice fatto che esiste? Perché mai la ragione del più forte non dovrebbe invece prevalere? Il nostro compito nei secoli è la prosecuzione della specie, costi quel che costi? È la felicità individuale? È la ricchezza materiale? La pace universale? Se in tempo di guerra l’armistizio costasse la vita di mille bambini, dovremmo firmarlo? E se costasse la vita di un unico bambino appena nato? Il rapporto costi benefici si estende solo a ciò che è quantificabile? O esistono conseguenze invisibili, o perlomeno non visibili a noi? Abbiamo il compito di trascenderci così come un tempo sarebbe risultato trascendente il superamento della legge del taglione? Essere capaci di riconoscere l’altro, e amarlo, è l’idea più evoluta di cui l’essere umano è stato mai capace? La nostra missione di specie consiste nel graduale emanciparsi da una sorta di violenza originaria?

A tutte queste domande, il pensiero laico, compreso quello progressista, ridotto com’è oggi a linguaggio della comunicazione, non sta rispondendo. E non sta rispondendo perché non è compito della comunicazione farlo. È quello che ho chiamato prima discorso pubblico. Il suo compito è scorrere su se stesso come un idiota nastro di Moebius.

La mia colpa con il vecchio, con il mio personale Cristo tra i rifiuti, è stato scegliere di sentire, pensare e parlare a nome del discorso pubblico, è stato pretendere di scrivere una lettera d’amore usando una tastiera truccata. Il discorso pubblico è truccato. Il discorso pubblico finge di parlare a nome di tutti, ma poiché non parla programmaticamente, ontologicamente a nome degli ultimi, degli sconfitti, degli esclusi, questo peccato originale risale come un veleno dal basso verso l’alto. In un battito di ciglia, l’inganno ha colmato tutti i gradini della scala sociale. Il discorso pubblico non ama nessuno fuor di se stesso. In questo modo, il discorso pubblico, la laicità priva di una missione capace di trascenderla, è puro ritorno al passato: una versione raffinata della garanzia più primitiva e odiosa dell’istinto di conservazione: l’istinto di prevaricazione.

Il vecchio svenuto nell’immondizia era Cristo in persona. Era Cristo indipendentemente dal fatto che Dio esista, che Cristo sia mai comparso sulla terra, che la Chiesa abbia svolto nei secoli un ruolo benefico o sia composta da una manica di pedofili assassini, che la religione si occupi di verità rivelate o sia soltanto uno schema linguistico per indagare l’imponderabile mistero dai cui siamo sovrastati o peggio una parata senza senso.

Cristo, o un altro dispositivo capace di far scattare la sospensione d’incredulità rispetto: all’esistenza di un altro essere umano; all’amore che proviamo nei suoi confronti.

Qualche giorno dopo aver incontrato il vecchio tra i rifiuti, mi imbatto nella notizia di un esperimento sociale appena realizzato dall’Unicef a Tiblisi, in Georgia. È stato chiesto a Anano, una piccola attrice di sei anni, di interpretare un doppio ruolo: quello della bambina benestante, e quello della bambina povera, sporca e mal vestita. Sia in un caso che nell’altro, la piccola attrice passeggia da sola per le strade della città. Quando la piccola è ben vestita, gli adulti le si avvicinano immediatamente, si attivano per darle soccorso, le chiedono dove sono i suoi genitori, telefonano alla polizia o semplicmente hanno gesti d’affetto nei suoi confronti, la prendono per mano, le sorridono.

La versione “povera” della stessa bambina, scatena reazioni completamente diverse. Davanti alla “povera” Anano (capelli in disordine, viso sporco, abiti dimessi) gli adulti fingono indifferenza o fuggono via. Quando entra in un bar, un cliente chiede addirittura al cameriere di cacciare la piccola perché la vista della bambina lo infastidisce. L’esperimento si interrompe prima del previsto, quando Anano, nella sua versione “povera” (per quanto attrice, pur sempre una bambina di sei anni), all’ennesima manifestazione di indifferenza scoppia in lacrime.

Una settimana dopo aver incontrato il Cristo morto tra i rifiuti, sto lavorando negli studi di Radio3. A Prima Pagina, il giornalista dell’«Espresso» Gigi Riva commenta una delle notizie del giorno. Sono i giorni della Brexit, e proprio ieri La Marina militare italiana ha recuperato dal fondo del Mediterraneo i corpi dei migranti morti durante il più grave naufragio di sempre tra queste acque: quello della Ivory, inabissatasi il 18 aprile del 2015 con circa 700 passeggeri a bordo.

Mentre Riva commenta la notizia, iniziano ad arrivare decine, poi centinaia di messaggi di ascoltatori furibondi. Protestano. Protestano perché il recupero di questi corpi sarebbe uno spreco inutile di soldi, dicono, specie in tempo di crisi. “Ci sono gli italiani che muoiono di fame e voi pensate ai clandestini morti!” Riva prova a ragionare in diretta, parla del diritto a una degna sepoltura per chiunque, tira in ballo Antigone e il corpo morto di Ettore. Tutto inutile. “Basta con questi lacrminevoli sentimentalismi da politicamente corretto. Lasciateli in mare!”, recita uno dei messaggi più gentili. “Per identificare le salme senza documenti prenderemo il dna a tutta l’Africa?” “Lasciateli lì, il mare è una sepoltura sufficiente. Con tutti i problemi che abbiamo!” “Lasciateli in mare: è noto che in molte zone dell’Africa il culto dei morti non esiste”.

“Come dice il Vangelo”, scrive un altro ascoltatore, “che i morti seppelliscano i morti”.

Dieci giorni dopo aver incontrato il mio vecchio Cristo tra i rifiuti, incontro un giovane Cristo su una sedia di paglia. O forse è Buddha, lo spettro di Nerone, il Fantasma del Futuro, chi può dirlo. Il fatto è che andarsene in giro per Roma durante l’estate è un’esperienza incredibile. Nel corso dell’inverno Roma finge di essere una città leggibile coi parametri del discorso pubblico sulll’Europa occidentale. Di conseguenza è una città male in arnese, una città che soffre, che non sta al passo coi tempi, una città che perde terreno e competitività. È una città destinata a invidiare Parigi, New York, Berlino, Milano, Barcellona.

D’estate a Roma questi problemi cessano. Gli schemi saltano. D’estate qui può succedere di tutto in qualunque istante, ed è per questo che a me piace camminarci. È mezzogiorno. Fa addirittura più caldo di qualche giorno fa. I piccioni, sull’asfalto, hanno forse raggiunto il punto di fusione. Gli spazzini svengono per strada. Io sto camminando nel sottopassaggio Pettinelli, che unisce via Marsala all’Esquilino. Il budello di cemento è come sempre oscuro e saturo di gas di scarico. Lo so che è assurdo camminarci. Ma non sarebbe ancora più assurdo viverci?

Così, a un certo punto, tra le colonne che dividono i sensi di marcia di questa angusta struttura urbana, noto una tenda da capeggio. Accanto alla tenda c’è un cumulo di buste di immondizia piene di generi alimentari. Pacchi di pasta, barattoli di pelati. Al lato delle buste c’è lui. Il ragazzo sulla sedia. Avete presente le vecchie sedie di paglia intrecciata? Sopra c’è lui, questo ragazzo sui trent’anni. È sporco, nonché completamente nudo. Probabilmente è un vagabondo. In buona forma fisica. Accavalla le gambe, guarda fisso avanti a sé. Gli vedo le piante dei piedi completamente nere, le cosce muscolose, gli addominali ben in vista, i peli folti tra le ascelle e il ciuffo del pube. Il Cristo tra i rifiuti di alcuni giorni fa sembrava definitivamente sconfitto. Questo giovane Cristo nudo non solo è vivo, ma anche un po’ arrabbiato.

“Salve”, dico in tono rispettoso, passandogli davanti.

Lui non si compone. Neanche mi guarda. A un certo punto sembra quasi che accenni a una smorfia, uno strano sorriso minaccioso il cui senso suona nella mia testa più o meno così: “tenetevi pronti”.

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2 Commenti a “Esquilino: il Cristo morto tra i rifiuti”
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  1. […] Fonte: minima & moralia […]