Fotografia di strada
di Alfredo Giacobbe
Ho svolto il mio lavoro con diligenza, con la testa che già vagava altrove. Avevo deciso che, appena finito, sarei andato a passeggiare per le vie del centro storico di Napoli. Non ho più passeggiato in centro dalla metà di novembre, da poco più di due mesi. L’istituzione della zona rossa regionale me lo ha impedito per alcune settimane, gli impegni lavorativi e diverse giornate di maltempo hanno prolungato l’attesa. Quando dico passeggiare, in realtà intendo fotografare. Da circa due anni porto con me una macchina fotografica, sono un fotografo di strada a tempo perso. Nel bellissimo racconto intitolato “Le bave del diavolo”, Julio Cortazar scriveva: «Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie.»
Era da poco passata l’una quando sono arrivato in centro. Ho lasciato l’auto nei pressi di piazza dei Martiri e ora risalgo a piedi via Chiaia. È una giornata fredda e tersa, il vento nella notte ha spazzato via le nubi. La mia Fuji è accesa, stretta nella mia mano destra.
La salita di Chiaia è ripida, le persone rotolano giù tra le vetrine eleganti che pretendono per sé la loro attenzione. I negozianti osservano la corrente umana, qualcuno tra uno sbuffo e altro di una sigaretta elettronica. Stanno come armigeri annoiati, montano la guardia a braccia conserte, ingombrano l’ingresso. Nessuno di loro si aspetta che qualcuno entri nei loro negozi per davvero. Lo stare in strada dei passanti non ha più scopo, e la maggior parte della gente sfila indifferente davanti alle belle vetrine.
Dalla cima della salita vedo una donna sulla cinquantina, ha un cappello incastrato in testa e una larga mascherina chirurgica tirata su fino all’attaccatura del naso, ha la faccia completamente coperta. Si guarda intorno, strabuzza gli occhi in un’espressione di spavento. Regolo l’esposizione e porto la macchina davanti al viso, dopo aver preso il centro della strada. Sto per scattare, ma all’ultimo devo spostare l’inquadratura da un lato, un uomo ha deciso che sarebbe passato tra me e lei. Scatto lo stesso. Non è una brutta foto, ma non è la foto che volevo. Una foto si forma e si disfa in pochi istanti. Bisogna essere pronti, ma in strada si impara anche ad accontentarsi, quasi mai si è nelle condizioni di ottenere uno scatto perfetto. Alle volte il sole dipinge con le ombre e copre un dettaglio interessante; oppure il cielo si oscura e il paesaggio si liquefa in un solo tono di grigio. In casi come questi non c’è niente che si possa fare, se non tornare in un’altra ora o in un altro giorno.
In piazza Carolina i tassisti mi fissano allineati controsole davanti ai cofani delle auto ferme da tutta la mattina. Se c’è contatto tra gli occhi, non scattare mai. Non so se è una regola generale della fotografia di strada, è una mia regola. La mia presenza dev’essere discreta, nell’ambiente incorrotto voglio che le persone facciano come se io non fossi mai stato lì. Mi attengo a questa disciplina con convinzione, ma la verità è un’altra, ho paura delle persone e delle loro reazioni. Chiunque in strada può essere affabile o aggressivo, accogliente o sospettoso. Fotografare in strada è anche spingersi fuori dalla propria zona di comfort, è andare a cozzare contro il mondo.
La visuale verso piazza del Plebiscito è ostruita dai pannelli che delimitano il cantiere della nuova metropolitana. È una ferita per lo sguardo. Passo davanti all’ingresso del cantiere, chiuso da una catena pesante, stretta a metà dalla mano di un uomo nel suo giubbetto arancione. Mi guarda come se fossi appena arrivato da Marte, ho una macchina fotografica ma non sembro un turista. Di turisti non se ne vedono in giro da due mesi.
Superati i pannelli mi fermo a guardare dal marciapiede, cerco soggetti per i miei scatti. Due ragazze sono sedute fianco a fianco su un blocco di cemento. Non sento le loro voci, non vedo neanche le bocche. Scatto una foto alle loro schiene, si confidano i loro segreti o tacciono davanti alla piazza che si stende semivuota davanti a loro. Da quando non ci sono più i turisti, i napoletani hanno guadagnato spazio ed è forse la cosa che di più li ha resi attoniti. Dalle strade è sparito quel senso di prossimità, il fluido viscoso dei corpi che dovevi attraversare per spostarti da un punto all’altro della città. La resistenza dell’altro in qualche modo ti dava coscienza dello spazio che occupavi nel mondo.
Imbocco via Toledo, una delle più grandi arterie del centro storico, per metà pedonalizzata. Le ombre dei palazzi di sinistra si sono abbattute su quelli di destra, d’inverno a via Toledo fa buio molto prima che il sole cali sul quartiere Montecalvario. Di tanto in tanto, da uno dei vicoli che salgono paralleli verso i Quartieri Spagnoli e che più in alto si ricongiungono con Corso Vittorio Emanuele, un lampo giallo piomba in strada. In quei canyon di luce io mi aggiro, in agguato.
Via Toledo era la parte della città che non dormiva mai, di giorno conquistata dagli artisti di strada, di sera presa d’assalto dai frequentatori dei ristoranti e dei teatri. Ora i commessi delle rosticcerie si nascondono dietro fortificazioni di cibo, spuntano occhi tra le alte mura intatte di pizzette, di frittate di pasta, di supplì, di patatine fritte, barriere sistemate al mattino con precisione millimetrica, disfatte alla sera, erette ancora il giorno successivo. Un atto di fede o un rito propiziatorio in forma culinaria, come se la città vuota potesse ripopolarsi da un momento all’altro. In strada si sentono poche voci che si alzano da piccoli gruppi. Da un lato, davanti a uno dei pochi bar aperti, tre ragazzi si stringono intorno a un tavolino. Ridendo abbassano la voce, c’è un pudore nella loro allegria che mette tenerezza. In questo pezzo di strada c’è l’intimità familiare delle veglie funebri che si tenevano al chiuso delle case, gli anziani si preservano dal dolore altrui rintanandosi dietro una maschera austera, i giovani in combutta prendono accordi per il dopo.
Nel tratto di via Toledo che da piazza Carità risale fino a piazza Dante, il circondario cambia. Qualche serranda è rimasta giù, alle vetrine hanno applicato pannelli di legno che le intemperie hanno già reso sudici. Qui le ombre sembrano più nette, la luce più violenta, le separazioni si inaspriscono. Si vedono volti tirati, nei capannelli più radi la gente è più animosa. La rabbia affiora sui volti e le persone si spalleggiano per governarla.
Ripenso alle foto che ho fatto in due anni, da che mi sono messo in cammino. Gli sfondi urbani nelle foto finiscono per assomigliarsi tutti. Persino Napoli, che appare indifferente e sfocata nel ritaglio effettuato dal mio obiettivo, sembra una città come le altre. Mi chiedo se sono in grado di interpretare Napoli, di spiegarla a chi non la conosce.
Napoli è un bagno caldo in cui le persone, immerse fino alla gola, annaspano e aspettano ‘a ciorta, la Fortuna con la maiuscola, il deus ex machina invocato da tutti, più o meno consapevolmente. Una passività estenuante che avvicino solo adesso, dopo che ciascuno di noi negli ultimi mesi è stato buttato su una zattera tra i marosi. E che non può far altro che aspettare che la corrente lo conduca al porto, senza nessuna direzione verso la quale nuotare.
Svolto in via Maddaloni, nel tratto di strada che va da via Toledo a piazza del Gesù Nuovo non scatto mai una singola foto. Il tunnel creato tra i palazzi accostati è troppo buio, dovrei spingere sull’esposizione, finirei per perdere contrasto, otterrei una foto scialba. Ne approfitto per guardarmi in giro. Un anziano libraio si intrattiene con un passante sulla soglia della sua bottega, ha la pelle segnata come la carta ingiallita dei libri usati che espone in strada, nelle ceste. Alle mie orecchie arrivano solo piccoli frammenti dei loro discorsi, parole impolverate come i basoli curvi e lisci su cui si cammina in equilibrio precario in questa strada. È solo in questi frangenti, quando mi protendo a forza verso il mondo esterno, che mi accorgo di una voce che è più forte di ogni altra, è la mia voce interna. Per tutto il tempo intercorre un dialogo continuo tra le diverse parti di me, l’inconscio è una caldera che inghiotte, fonde e risputa fuori ogni pezzo del mondo esterno, dopo averlo lavorato fino a renderlo meno spaventoso. Henri Cartier-Bresson, uno dei più grandi fotografi di strada del XX secolo, ha detto: «Più di tutto, io cerco un silenzio interiore.» Finché non ci sarà silenzio in me, credo che non troverò il modo di decrittare il mondo esterno e il suo linguaggio.
Il centro storico ha tanti cuori pulsanti, per questo sopravvive, uno di questi è piazza San Domenico. Qui resistono l’edicola con i souvenir in bella mostra e i tavolini di ferro battuto sotto agli ombrelloni delle caffetterie. Dalla piazza potrei salire verso il Conservatorio di San Pietro a Maiella e piazza Bellini. Oppure proseguire verso il Duomo e il quartiere Forcella. Ma ho meno tempo del solito, per cui decido di scendere via Mezzocannone, non ho voglia di tornare indietro per la stessa strada, attraverserò a ritroso la zona universitaria.
Non c’è un solo ragazzo in strada, mi chiedo se sono riprese le lezioni in presenza, ma non so rispondermi, ho perso il conto dei rinvii tra le varie disposizioni. Con me c’è solo una nonnina che fissa le copertine di prova delle tesi di laurea nella vetrina di una copisteria. Arrivo allo spiazzo davanti alla Basilica di San Giovanni Maggiore, che i frequentatori chiamano semplicemente “la Piazzetta”. Anche qui di studenti non se ne vede l’ombra, sono quasi le tre del pomeriggio, a quest’ora i bar sono chiusi. Per la piazza vaga un odore di birra e di ammoniaca rovesciate a terra dalle bottiglie e dalle vesciche la notte prima, il fantasma dei bagordi passati. I graffiti imbrattano i muri fin sopra all’altezza dei primi piani; nei portoni, oltre i cancelli arrugginiti, carcasse di auto abbandonate. Incontro qualche serranda alzata, nei locali bui regna disordine e sporcizia, al punto che mi è difficile stabilire se sono cantine o veri e propri laboratori artigiani. Gli uomini che lavorano all’interno alzano la testa dalle loro mani abili, giusto il tempo di mettermi a fuoco. Io invece non riesco a mettere a fuoco loro. Mi sentirei sporco ad approfittare della debolezza dell’altro, anche se temporanea, non potrei impossessarmi del sudore di chi lavora, della sofferenza portata in giro dagli anziani in difficoltà o dai mendicanti mentre fanno la questua. Non c’è una voce che chiama dai balconi, non un apparecchio acceso dietro a una delle finestre nei bassi, si è persa quella che dei napoletani Anna Maria Ortese chiamava «l’avidità del rumore». Non c’è niente da fotografare, ho sulla macchina un obiettivo con una focale troppo lunga per il budello di vicoli in cui mi trovo.
Sbuco su via Monteoliveto, davanti alla scalinata che porta in piazza Matteotti. In cima ai gradini vedo la fila ordinata delle persone, distanziate tra loro fuori dall’ufficio delle Poste. Un riflesso verdognolo rimbalza dalle vetrate alte e incombe sulla gente, è un’immagine che mi angoscia, mi riporta con la mente alle file all’esterno dei supermercati nel mese di marzo. Fuori dalla coda c’è un solo uomo a cui scatto una foto, affacciato alla balaustra che circonda il ballatoio antistante l’ingresso, sotto all’iscrizione di epoca fascista che campeggia sulla facciata dell’edificio. Deve avermi visto, va a rimettersi in fila.
Dall’altra parte della strada, via Guantai Nuovi e via Cervantes sono due strade pedonali in zona uffici. Gli assembramenti di impiegati che cercano di accaparrarsi un pasto in fretta per poter tornare al loro lavoro mi colgono di sorpresa. I gazebo sono affollati e sui marciapiedi si formano i crocchi dei fumatori. È l’unica zona della città in cui sembra vigere una parvenza di normalità, la vecchia normalità di un giorno feriale, eppure è qui che i miei incubi prendono corpo. Per diverse notti ho sognato luoghi affollati, la curva di uno stadio colma di tifosi, aule magne zeppe di studenti. A un segnale convenuto a me invisibile, le persone iniziavano a stringersi intorno a me, che non avevo più alcuna via di fuga. Accelero il passo per uscire in piazza Municipio, provo a concentrarmi sui giochi di luci tra gli alberi. Punto la camera verso una donna, il corpo in ombra, i lunghi capelli rossi colpiti da un bagliore di sole. Poco più in là, inquadro un uomo che tiene a fatica, premuto contro il corpo afflosciato, un pesante faldone di un giallo acceso. Due uomini in una volante della polizia mi scrutano mentre parlottano alla radio. Non faccio niente di male, la voce del mio soliloquio interno si alza ancora una volta.
Mi accorgo che sto camminando stancamente in direzione della mia auto. Ho fatto neanche la metà dei chilometri che sono solito fare, ma dopo due mesi di inattività mi dico che va bene. Accosto l’ingresso laterale della Galleria Umberto I che da sul Teatro San Carlo. Due uomini sono in piedi, l’uno guarda l’altro, l’altro fissa le profondità della galleria. A poca distanza, le loro cose ammucchiate in un cantuccio. Gli uomini sembrano statue di sale pietrificate dalla luce rosso-arancio del giorno che muore. L’ultima foto della giornata la scatto a una ragazza persa nel proprio telefonino, non si accorge che mi paro davanti a due braccia di distanza da lei. Una signora emerge dallo sfocato della foto, mi guarda prima con sospetto, poi supera l’angolo e nota la ragazza. Si volta e ricambia un sorriso. La verità, come la bellezza, è negli occhi di chi la guarda.