I bambini perduti di Space Oddity

(fonte immagine)

di Leonardo Merlini

Arrivare a Bowie così clamorosamente fuori tempo massimo potrebbe essere un modo per fare credere a qualcuno di essere stati per anni su un altro pianeta, oppure di avere vissuto nella Caverna di Platone, incatenato alle ombre di un mondo diverso. Magari di avere fluttuato nello spazio, nerissimo e silenzioso, prima, incredibilmente, di tornare a cadere sulla terra. Come ve la posso spiegare? Delle mille motivazioni sociologiche che avrei pronte nessuna uscirebbe dal cono d’ombra della noia, quindi tanto vale limitarsi ai fatti: non era mai successo prima, è successo negli ultimi mesi. Che il buon David mi perdoni.

Tutto è accaduto apparentemente grazie a Starman, con la scena di me che canto a squarciagola il ritornello mentre percorro i viali alberati via Massimo D’Azeglio a Torino in un mezzogiorno d’autunno, lasciando uno dei miei luoghi preferiti, l’hotel DuParc, nel primo giorno delle nuove zone rosse di fine 2020. In realtà, a un livello più profondo (dove qualcosa di Bowie sotto traccia c’era già, ne sono certo, perché è stato su quella base che il resto ha risuonato, oltre che intorno a Generosity del mio amico Gianluigi) il processo era iniziato prima, con l’ultimo, straziante, meraviglioso, insostenibile, pazzesco capitolo dell’Archivio dei bambini perduti di Valeria Luiselli, che ogni volta che lo rileggo mi getta in un mare di lacrime e mi strappa il cuore: la lettera, in realtà un audio, del figlio maschio alla sorella femmina, Memphis (lui non ha nome), sorella acquisita, la notte prima che i due bambini, seguendo i rispettivi genitori, si separino, forse per sempre.

“Qui torre di controllo a Maggiore Tom”: comincia così. E prima delle cateratte di lacrime si apre lo spazio stranito di Space Oddity. La cosa succede qui, e prende forma a poco a poco nei mesi successivi, fino a portarmi a cantarla tutta, mentre oggi pomeriggio guidando piango come uno scemo (che strano, vero?) sull’autostrada A1 tra Parma e la Lombardia, sulla via dell’ennesimo dislocamento spaziale ed emotivo di queste settimane perdute, come i bambini, come ogni cosa. Ma anche assurdamente felici in certi momenti, come se tutto avesse un senso, come se tutto fosse così, gusto così. Space Oddity.

Ground Control to Major Tom

“Questo è l’ultimo pezzo di nastro che registro per te, Memphis, perché è qui che la storia finisce. Vuoi sapere sempre come finiscono le storie. Oggi è il giorno in cui questa finisce, almeno per ora, almeno per un bel po’”. Copio le parole della lettera e (guardando mio figlio che dorme qui accanto, mentre io armeggio con il Mac sulle gambe alle 3.02 del mattino… cosa penseranno un giorno di noi i nostri figli) sento risalire il groppo enorme e devastante, come ogni volta. L’Archivio è un romanzo straordinario, totale, che dovrò ancora decifrare sul serio, nel futuro (sto rileggendo Underworld di Don DeLillo dopo 22 anni dalla prima volta ed è un’altra avventura, nuova, che mi tiene vivo, anche se pensare a questi 22 anni passati nel frattempo mi toglie il fiato): l’ultimo capitolo arriva come una mazza da baseball in faccia, non la prima, ma certamente la più forte. E’ la forza del romanzo, è ovvio, questa capacità di ribaltare tutto ogni volta; la grandezza di Valeria Luiselli sta proprio in questo sovrumano sforzo di mettere il suo talento come sale sulle ferite del racconto, senza concedere nulla alla bellezza del resto, ma coltivando una bellezza ulteriore, durissima, letteraria fino in fondo, esasperata dalle polaroid che, come in Sebald, sono prove reali e fittizie allo stesso tempo. Ma la lettera del bambino, così impossibile e perfetta, quella è vera e basta (dove l’aggettivo “vera”, è usato parlando di letteratura, quindi alla fine vuole dire vera nella fiction, che per me vale di più, ma forse per qualcuno di meno, lo posso capire). E rimette insieme, nel momento in cui li dissolve, i pezzi della famiglia che il romanzo ha provato a raccontare: l’invenzione di una famiglia, mi viene da scrivere pensando a Paul Auster o a Morel. Usando Space Oddity, che i quattro cantavano nella macchina mentre percorrevano i deserti americani, come una vera famiglia (come faceva la mia di famiglia con Obladi Oblada, come fa Nanni Moretti ne La stanza del figlio con Insieme a te non ci sto più), come una chiave di interpretazione dell’unico modo in cui si attraversa la vita, questa cosa gigantesca e impossibile che succede, contro ogni previsione, tutti i dannati giorni. Il Maggiore Tom è Memphis, certo, ma siamo anche noi. Lo so che è banale e forse vi sembrerà retorica sdrucita, ma pazienza, questa è la mia di missione spaziale e, almeno qui, sono io che la racconto.

This is Major Tom to Ground Control
I’m stepping through the door
And I’m floating in a most peculiar way
And the stars look very different today

C’è stato un tempo, e lo ricordo come un tempo buono anche se oggi mi sembra lontanissimo, anni luce, nel quale con i miei cugini (i ragazzi con cui sono cresciuto, con cui ho fatto esperienza di molte cose, in un cono d’ombra che mi sembrava bellissimo e che per molto tempo è stato quasi tutto) ci ritrovavamo sul fare della sera, in estate, quando la luce faceva fatica ad andarsene, nel salottino della loro mansarda (un posto che non c’è più, come quasi tutto di quei tempi, ma che dentro di me è ancora chiarissimo… più si invecchia, diceva Battiato, e più affiorano ricordi lontanissimi, come se fosse ieri) e il più grande di noi prendeva un 33 giri (mi ricordo le copertine di quei dischi, erano e sono ancora per me oggetti sciamanici) e diceva: “Adesso mettiamo una canzone che fa paura” e a me passava un brivido nella schiena e mi preparavo a sentire qualcosa che, lo sapevo, mi avrebbe accompagnato per sempre. Allora partiva Help me dei Dik Dik, con quel suo inizio con suoni spaziali che mi facevano venire la pelle d’oca e quella storia dell’astronauta McKenzie, “primo uomo che arriva su Giove” che però a un certo punto si perde nello spazio. Dal “guasto banale” a “di McKenzie non resta più niente” passava tutta la gamma delle emozioni di un ragazzino nato nell’anno in cui l’uomo era andato sulla Luna per l’ultima volta e figlio della generazione che della conquista dello spazio aveva fatto la propria più grande avventura collettiva. Alla fine la voce del nastro che ripeteva “Help me” distorta dagli strumenti elettronici è stata un altro dei miei fondamentali tasselli di educazione sentimentale. In quelle quasi sere d’estate in una mansarda figlia del benessere della provincia lombarda negli anni Settanta che continua a esistere in un’altra dimensione, questa del racconto (e io sento ancora quanto fossero ruvidi i cuscini azzurri del divano a elle che proteggeva lo stereo, quante ore ci avrò passato).

Help me, mi dice adesso Google, era “chiaramente ispirata” a Space Oddity (il brano di Bowie, per le cronache, è del 1969, quello dei Dik Dik del 1974). La cosa non mi stupisce più di tanto, non nei contenuti, ma nel senso che mi dà una sorta di conferma di qualcosa che avevo capito già: era un pezzo del mio immaginario collettivo e, inconsciamente, lo sapevo. Lo sapevo non sapendolo, ma era troppo strano il ruolo che quella canzone minore dei Dik Dik aveva avuto nella mia vita, doveva per forza nascondere qualcosa. Ecco, adesso mi rendo conto, con un sorriso notturno, che quella cosa era David Bowie, uno dei grandi artisti del Novecento. Non so se sarà una giustificazione valida davanti al Tribunale Finale della mia vita culturale, ma di certo lo produrrò come una prova quando mi chiederanno conto delle mie ignoranze musicali, magari mi concederanno le attenuanti generiche.

“Può darsi che un giorno tu ti senta perduta, ma devi ricordarti che non lo sei, perché io e te ci ritroveremo ancora”. La lettera del maschio finisce così, con un briciolo di speranza, forse di facciata, forse reale. Non lo sapremo. È inutile arrovellarci.

Planet Earth is blue
And there’s nothing I can do

Lo dice anche il Maggiore Tom alla fine. Non c’è niente che possiamo fare, sia per la fine del romanzo della Luiselli, sia per quella della canzone di David Bowie, sia per il tempo che è passato così in fretta da sembrare impossibile. Letteralmente impossibile. Dove sono finiti tutti è la domanda che mi faccio di continuo e di continuo mi dico che non ha senso. Sono qui, sotto queste stelle strane, in tanti modi. Abbraccio i miei figli, cerco di trattenerli sapendo che la cosa migliore che posso fare è quella di lasciarli andare, liberi, con la possibilità di costruirsi le loro felicità e infelicità. Questo fa l’Archivio con me lettore, questo fa la canzone con me ascoltatore. E’ dolorosissimo, ovviamente, ma funziona così, quando funziona.

(Nel porticato delle suore a due passi dalla chiesa di Santa Maria della Salute a Venezia si sente una musica di pianoforte in questi giorni. Non si capisce da dove arrivi. Poi, se vi spingete fino alla mostra di Bruce Nauman a Punta della Dogana scoprite che è un pezzo sonoro dell’artista americano, un’anticipazione segreta dell’esposizione. Non so perché, ma anche questa cosa ha in un certo senso a che fare con il racconto di stanotte. E’ come un messaggio lanciato nello spazio).

Can you hear me Major Tom?
Can you hear me Major Tom?

In qualche modo devo finire e allora scelgo un film, First Man, dedicato a Neil Armstrong e all’epopea dell’allunaggio. La faccio breve: nella pellicola si racconta della morte della bimba dell’astronauta, diversi anni prima della missione Apollo 11. Karen, di cui vediamo fondamentalmente in tutto il film solo ciò che suo padre tiene segretamente sempre con sé, un braccialetto. Già questa parte è abbastanza insostenibile, ma poi, dopo tanti silenzi e tanta apparente rimozione del lutto, Armstrong arriva sulla Luna davvero e, in mezzo al momento più alto dell’avventura colossale della corsa allo spazio, a un certo punto della sua passeggiata Armstrong volta le spalle alle telecamere globali e alla storia ufficiale e fa qualcosa per alcuni secondi. Noi, grazie all’onniscienza del narratore visivo, vediamo il guanto spaziale aprirsi e vediamo apparire il braccialetto di Karen. E il papà lo lascia andare, nel posto più lontano in cui qualcuno sia mai arrivato. (Questo è il punto cardine di tutto il film, di tutta l’avventura dell’uomo nello spazio). Mettete voi insieme i pezzi, se volete. A me pare che qui dentro ci sia ogni altra storia, dell’Archivio, di Space Oddity, di tutto il resto, compreso il mio essere figlio e padre e vattelappesca cos’altro.

(Alla Casa dei Tre Oci a Venezia ho visto una foto di Armstrong in una mostra su Mario De Biasi. A pranzo con Aldrin nella mensa degli astronauti. Guardate gli occhi di Neil: vedrete che la storia di Karen, quella storia del film, non può che essere vera esattamente così).

(This is Ground Control to Major Tom)

(Sono le 4.17 del mattino e ora spengo di nuovo la luce sul comodino, per tornare a fluttuare da qualche altra parte).

 

Commenti
4 Commenti a “I bambini perduti di Space Oddity”
  1. Luisa ha detto:

    Bell’articolo! 🙂 Grazie!

  2. Alberto ha detto:

    Grazie Leonardo, mi è venuta voglia di leggere l’Archivio dei bambini perduti. Ma anche racconti come il tuo fanno salire il groppo…. chi piange sulla A1… chi sulla A4 e sulla A13….

  3. Marisa ha detto:

    Bellissima recensione per un libro straordinario. Da quando l’ho letto non posso ascoltare Space Oddity senza commuovermi

  4. Corrado ha detto:

    Questi tuoi articoli, sono veri e propri percorsi! Alla prossima!

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