Il fantasma di Giuda

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di Gaia Giovagnoli

Il libro di esordio di Graziano Gala, Sangue di Giuda (minimum fax, 2021), è stato osannato per molti aspetti. Primo tra tutti, la lingua. È, non a caso, una commistione di accenti del sud – salentino, siciliano, napoletano, romano. Una lingua, si è detto altrove, che è quella di chi è escluso. Quella di chi non solo parla diversamente, ma vive oltre il muro: la lingua che c’è dopo Eboli. La lingua dei matti. Ma è davvero solo questo?

Giuda vive con il fantasma di suo padre. L’uomo sta nascosto dentro alla dispensa, in cucina, e fa scricchiolare armadi, apre sportelli, tira oggetti. Odia il figlio in morte proprio come ha fatto in vita. Questo dettaglio di trama non è dato a caso, solo per colorare il personaggio.

Al contrario: è il motore narrativo di tutta la vicenda. Giuda sta chiuso con il suo trauma nell’appartamento. La morte del padre violento gli ha dissestato la vita talmente tanto che ne ha fatto il perno principale – e narrare la storia di Giuda è, a ben guardare, seguire un uomo che non fa altro che fuggire dal silenzio. Il suo peggior nemico. Per scappare dalle spire del suo morto più temuto ha bisogno di una televisione sempre accesa e, quando il suo storico Mivar si rompe, ha paura per la sua stessa vita. È lì che comincia la sua storia.

La casa, le dicevo, s’è bagnata tutta, che il silenzio, Commissà, è il gioco preferito di papà.

La violenza è un tema portante in Sangue di Giuda. Elaine Scarry, in The Body in Pain. Making and the Unmaking of the World parla di quello che succede a una persona nei momenti di forte dolore e trauma: una “dissoluzione del linguaggio e del mondo” . Chi subisce violenza è come bloccato nella sofferenza: non si sente più parte della stessa realtà di chi lo circonda, non rintraccia la sua vita di prima. Ciò che prova è, soprattutto, l’impossibilità di esprimere ciò che ha vissuto. Non sa farsi comprendere. Per Giuda il senso di lontananza dal mondo è così forte che lui ha addirittura perso sé stesso – non ha più nemmeno un nome vero. L’ha smarrito nel trauma; non se lo ricorda.

Mi porto addosso il nome ca m’ha ’mpresso mio padre ’na sira, e me l’ha ’mpresso co ’o sanghe, così tanto, ca m’ha llevato quello di battesimo e m’ha marcato ’nfronte ’st’infamia che m’accompagna sempre come ’na vacca al macello.

La ferita di Giuda è anche altro: il padre è morto. Il lutto si aggiunge a questo senso di perdita generale. Il mondo post lutto è, di per sé, un’apocalisse: appare sempre strano e con un peso diverso; assume un profilo molto meno oggettivo; obbliga a un’acuta consapevolezza della “convenzionalità” degli oggetti e dei movimenti che si fanno per attraversarlo. Dopo una perdita è necessario per questo un “serio lavoro, un triste lavoro” (Good, 1994): un processo difficile di ricostruzione del mondo convenzionale, che deve ridare solidità all’ordine sociale dei vivi.

Se Giuda fosse un uomo comune metterebbe in atto questa lotta per la significazione, nel modo in cui i più lo fanno: attraverso le parole. Non solo: attraverso parole che altri comprendono, così che la società possa riconoscere il suo trauma, ritualizzarlo, riaccogliere Giuda nel mondo a braccia aperte. Finalmente. Renderlo di nuovo un individuo come noi.

Ma Giuda non è come tutti. Soprattutto, Giuda non è come chi lo legge. Cosa succede se chi ha vissuto il trauma non ha più rapporti veri? Se ha perso l’identità? E soprattutto: cosa succede quando non solo non si hanno le parole, ma nemmeno una lingua vera?

Giuda non ha mezzi per parlare ad altri del suo dolore: la sua posizione sociale non gli permette di chiedere aiuto e, come se non bastasse, la sua lingua non è compresa– a ben vedere non esiste proprio. Gala ha scelto di mettere in scena chi è davvero chiuso oltre a un muro. Il suo Giuda è come sarebbe una persona completamente fuori dalla società; fuori dal tempo, sospeso in un trauma che non gli dà coordinate; tagliato fuori dalle relazioni. Gala gli ha tolto tutto: anche le parole per dire il suo male.

Giuda non ha famiglia, ma non solo: non ha una vera dimensione sociale. Alfred Schutz chiama “realtà del senso comune” quella che ha tra le sue maggiori l’essere fondata sulla “socialità”: vivere cioè concretamente nello stesso mondo di chi ci circonda e contare sugli stessi valori. La realtà di Giuda è però tutt’altro. Con il trauma e a causa della posizione sociale inesistente, la sua esperienza personale sembra impossibile da sondare con il lessico condiviso. Quel mondo comunitario si sfalda. Si offusca anche la “prospettiva spazio-temporale comune”, e risulta più fragile l’idea di un nesso indiscusso tra lui e tutti gli altri. Questo disastro crea un senso profondo – irrimediabile – di solitudine e isolamento.

«Abbiamo cercato di contattare sua figlia, ma ci ha detto di non voler avere alcun rapporto con lei». La ciliegina, ’o Commissario, la piazza accussì, non richiesta e compresa nel prezzo: ’na spruzzata ’e panna su ’na bella torta ’e mmerda.

Nonostante questo, la storia di Giuda è anche quella di un uomo che reagisce al disfacimento (di senso, di sé, delle relazioni) che il trauma implica. Ha una forte urgenza di fare capo al disastro e cerca di rimettere ordine come può: caoticamente. Questa è una vera e propria necessità di “emplotting”, un tentativo di chiudere la morte e la violenza all’interno di una trama. Anche Giuda, ultimo degli ultimi, è umano e, per questo, cerca un senso. Si illumina – e si spegne – quando il Commissario gli chiede delle notti. Quando gli chiede di papà.

Quando racconto delle notti, quando racconto delle corse ’e pazzi a mmenz’alla via la voce nu poco mi trema e me vene a chiagnere, però ingoio e butto tuttudintra ca amm’ vomitato abbastanza veleno in settimana.

Se Giuda fosse una persona comune proverebbe a creare un significato a ciò che ha vissuto e che sta vivendo: oggettiverebbe il male, ne cercherebbe le cause, l’inizio, i tratti precisi, ipotizzerebbe gli esiti e cercherebbe per lui un nome, in una sorta di battesimo del mostro. Si renderebbe conto che, con uno sforzo estremo del linguaggio, potrebbe davvero riuscire a parlare di suo padre. Ma Giuda no: lui non può. L’“emplotting” gli è negato in partenza. La narrazione classica, la parola comune, non è uno strumento possibile: Giuda, è evidente, una lingua vera non ce l’ha e non ha qualcuno a cui dire davvero di sé, soprattutto. Quindi che fa? La narrazione del trauma per lui prende altre forme. Usa più mezzi: uno di questi è la parola orale, un altro è la performatività quotidiana. Fa dei gesti apotropaici per tenere a bada il fantasma: Giuda accende la televisione, con Pippo Baudo che è il suo antidoto attivo al fantasma – perché parla per lui non del mostro, ma sopra il mostro.

Pippo Baudo quann’ parla lo puoi solo ammirare, Commissà, senza disturbarlo. È comm’a nu prete, non lo si può interrompere mentre face ’a predica.

La morte e la violenza, i fatti chiave all’origine di Giuda, non sono realtà date e oggettive, riconosciute da ognuno allo stesso modo. È proprio qui che risiede la loro più alta carica rovinosa: sono qualcosa di difficile da tracciare, sfuggono alle definizioni. Il trauma, per essere circoscritto, deve essere trattato come un vero e proprio “oggetto estetico”: per essere davvero affrontato deve essere costruito dalla persona che ne è affetta e, anche, da un racconto plurale, fatto dalla rete sociale. Servono amici, una famiglia. Un’alleanza che chiuda a forza la dispensa.

Giuda, però, su questo non può contare. Non del tutto: per lui c’è solo qualche contatto incompleto. La sua squadra è fatta di persone che o non lo ascoltano o non parlano davvero con lui (si pensi all’americano vicino di casa, Ferlinghetti, al fedele gatto Ammonio e al cane Digiuni).L’unica che l’ha amato è la sua ‘Ngiulì, la moglie adorata. Le lascia delle lettere in buchetta ma lei non risponde, non la vede da anni, è la più muta tra quelli della famiglia. Angiolina è la sua unica possibilità di salvezza perché potrebbe, ascoltando, riconoscere Giuda e la sua paura. Potrebbe non lasciarlo più solo.

Gala ha creato un personaggio profondamente commovente, tragicomico, che non assolve il lettore. Nemmeno quando Giuda riotterrà quel lasciapassare identitario comune, quel documento accettato dalla società – il suo nome – possiamo dire che si sia davvero salvato.

Se pure siamo state colombe, simm’ precipitate, mammà, e pesantemente.
E mo n’hannu ’ngabbiate senza pietà.
Che dici mammà, in confidenza, amm’sbagliatu quacche ccosa?

Giuda è fermo nel suo male. Pare che, se si smette di guardarlo anche solo un secondo, possa sparire, da quanto è solo. Giuda che è abbandonato a un fantasma. Giuda che, a ben guardare, è il vero fantasma.

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Gaia Giovagnoli (Rimini, 1992) è laureata in Lettere Moderne e Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Suoi testi poetici, racconti e interventi sono apparsi su siti e riviste. Nel 2018 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, Teratophobia (‘Round Midnight edizioni). Il suo romanzo di esordio è in via di pubblicazione presso la casa editrice Nottetempo.

 

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