Il grande albero
di Alice Sagrati
Il tronco dell’albero è incredibilmente ingombrante, le poche volte che Viola aveva provato ad abbracciarlo, distendendo le braccia minute lungo la circonferenza, non riusciva a fare toccare i polpastrelli tra di loro. Arrivava si e no a metà. Cercava di fare uno sforzo, pensando che, se si concentrava abbastanza, le sue ossa si sarebbero tese e allungate come il cordino di uno yo-yo. A volte si concentrava così tanto che diventava tutta rossa in viso e dei rivoli di sudore iniziavano a rigargli le guance infantili, ancora gonfie come due ciliegie mature. Viola poi si stufava, ogni volta andava così: lo sforzo enorme durava cinque minuti e poi passava alla cosa successiva, tirare calci a un pallone, fare m’ama o non m’ama con una margherita, fare delle ruote avanti e indietro.
Quel giorno l’orologio della cucina puntava la lancetta sul numero tre, orario di silenzi porosi, un lasso di tempo noioso ed elettrizzante in cui la casa andava a dormire e Viola poteva mettersi su la tuta dell’esploratrice (un costume di un arancione sgargiante nato dall’unione di una vecchia felpa di suo padre e una tenda in seta che sua nonna teneva nei cassetti della sala da pranzo per eventuali rattoppi). Quando il cambio di vestito era stato messo in atto, le sembrava che la casa cambiasse colore della carta da parati, il rosa antico sbiadito diventava rosso, le macchie di caffè diventavano mappe dettagliate di luoghi da esplorare che Viola attraversava con il suo dito e qualche volta, con una matita leggera, segnava i nomi di quei luoghi: laguna del surpillo, via dei cinque castelli in aria, giardino delle stelle che non cadono mai. Viola aveva capito che dalle tre alle quattro del pomeriggio il mondo prendeva una piega diversa, il sole entrava docile nelle persiane arrugginite e illuminava le mattonelle rendendole come scacchiere pronte per essere utilizzate per giocare.
Viola con un piccolo zainetto sulle spalle esce di casa, cercando di fare poco rumore, e si chiude la porta dietro di sé. Il giardino è verdissimo, sembra dipinto con i pennarelli giotto, spuntano solo dei soffioni immobili, come se fossero in attesa di qualcosa. Viola cautamente si dirige verso il grande albero che svetta al centro del giardino come se lo proteggesse, in alto con le sue foglie accoglienti, e in basso con le sue radici gentili. Viola con la mano destra lo tocca piano, lo sta salutando. Poi con l’altra si aggrappa a un ramo giovane e fa un poco di pressione, il piede destro poi si aggrappa a un altro ramo e con una spinta si tira su. Prima si aggiusta le gambe sul ramo, le distende, si guarda intorno. La casa sembra più piccola, s’immagina sua nonna nella stanza da letto umida a fare sogni semplici, una lista della spesa di cose esistenti. Isotta, sua nonna, è gracile, ha due braccia fine fine, un paio di occhiali spessi perché non vede quasi niente, quando è buio e se li toglie le dice sempre che ogni cosa prende una forma indefinita e aperta, non riesce a vedere i confini delle cose, dove inizia l’armadio e dove finisce il suo letto? forse quella è la cosa più simile a un sogno che riesce a concepire.
Viola tira indietro le sue gambe e, facendo un po’ di pressione, sale in piedi sul tronco, per poi cercare con il piede destro un ramo più in alto. Ancora una spinta e riesce a salire sopra, tira un sospiro di sollievo. Ora le gira leggermente la testa, da qualche tempo soffre di vertigini, ha la perenne sensazione di poter cadere, anche quando è già caduta. Viola, allora, decide di riposarsi qualche secondo, riesce a distendere nuovamente le gambe lungo il ramo.
Ormai è all’altezza del secondo e ultimo piano della casa. Da lì vede nitidamente la sua stanza, un piccolo antro in cui prima di lei ha dormito sua madre da giovane, quando le pesche e le api ancora non le davano noia e probabilmente scappava come lei in quelle ore lunghissime dopo aver mangiato lasagne a quattro strati e una fetta di anguria. Sua madre, Giovanna, non porta gli occhiali e forse questa è la cosa che non le fa andare d’accordo. Viola non riesce a fidarsi di chi vede bene, di chi non sfuoca la realtà per riscrivere dei contorni un po’ fasulli. Viola, in fondo in fondo, crede che si possa scegliere se vedere bene oppure no, e in base a quello, cambia tutto. Lei, per esempio, vede abbastanza bene, non è come sua nonna che non riesce proprio a distinguere le cose, ma non è neanche come sua mamma che vede limpidamente ogni cosa. Probabilmente sua mamma non sopportava il fatto che Isotta non vedesse niente e sbattesse tra i mobili prima di andare a dormire e quindi, per ripicca, ha deciso di vedere proprio tutto. Un eccesso di realtà a cui Viola guarda inorridita.
Viola prende un altro respiro e cerca di tirarsi in piedi anche su questo ramo, mette i piedi uno davanti all’altro, mentre si spinge in alto, ma in una frazione di secondo perde l’equilibrio e sbatte la schiena contro il tronco. Viola nel trambusto, non sente dolore, ma come una sensazione di calore che attraversa tutta la sua spina dorsale. Il grande albero si è aperto dietro di lei come un cuscino, e lei cullata, tende la mani nel legno bitorzoluto che l’accoglie dentro di sé. La sensazione è quella di cadere, ma invece di sentire il classico sobbalzo nella pancia, sente una forte scarica elettrica nei piedi e nelle mani. Poi con un tonfo sgraziato si ritrova in uno spazio scuro, tra le radici del grande albero, che sembra respirare insieme a lei. Viola prova ad alzarsi in piedi ma non ce le fa, le gambe sono molto indolenzite e la testa le fa un po’ male. Si fa coraggio e si alza in piedi, quando vede in un angolino in basso a destra, vicino a una delle radici più piccole, una minuscola porta di un colore blu scuro.
Viola si avvicina, la apre, e con la testa prova a spingersi dentro. Senza sforzo riesce a entrare, anche se il suo corpo è letteralmente dodici volte più grande della porta. Dietro c’è la cucina di casa di sua nonna, stesse mattonelle ocra con disegni stilizzati, la macchina del gas arrugginita con le stesse tre macchie di cibo incrostato nel fornello in basso a sinistra e il lavandino con tutti i piatti già lavati che sanno di sapone al limone. Viola entra cautamente, sembra non esserci nessuno. Dalla cucina passa alla sala da pranzo attraverso un corridoio piccino, è tutto identico. Sente sua nonna russare dall’altra stanza, decide provare a vedere se è veramente lei. Piano piano si avvicina alla porta e la apre delicatamente, sua nonna è lì, con la sua struttura ossea fragile e il vestito estivo con sopra le fragole e le banane. L’unica cosa che manca sono gli occhiali, non ci sono sul comodino, non ci sono da nessuna parte.
Viola si chiede come farà sua nonna senza gli occhiali da vista? esce piano dalla stanza e va in salone, dove nota subito qualcosa: nelle solite fotografie sulle mensole sua mamma porta un paio di occhiali spessi. Com’è possibile? sua mamma ci vede benissimo, ha dodici decimi. Viola è confusa. Decide allora di salire al piano di sopra per vedere la sua stanza, è identica. Il suo letto con le lenzuola azzurre è immacolato, il suo peluche, Edoardo, a forma di coniglio è sopra il cuscino. Viola decide di tornare indietro verso la porticina e solo in quel momento toccandosi la faccia si rende conto che neanche lei ha più gli occhiali. Esce di corsa per vedere se le sono caduti tra le radici del grande albero, ma niente. Inizia a cercare nello zaino, tira tutto fuori, ma non c’è traccia dei suoi occhiali. Viola allora cerca di risalire le grandi radici e con un leggero colpo di testa riesce a uscire dal terreno come fosse una talpa. Tutta sporca esce dal suo stesso guardino e si sdraia sul prato. È esausta.
“Cosa ci fai tutta sporca per terra? ma sei impazzita?” la voce rauca di sua nonna la fa alzare di scatto e mettere seduta.
Il volto torvo di sua nonna la scruta a fondo mentre lei stupida le chiede: “nonna, dove hai lasciato gli occhiali?” e la nonna, confusa, le risponde: “quali occhiali, tesoro?”