Isole dell’Abbandono: intervista a Cal Flyn
Cal Flyn, autrice del romanzo Isole dell’abbandono, uscito per Atlantide, presenterà il libro al Salone di Torino il 22 maggio alle ore 14 presso il padiglione 2 della Sala Internazionale.
di Ilaria Oddenino
In Isole dell’Abbandono, l’autrice scozzese Cal Flyn accompagna il lettore in diversi angoli del pianeta per esplorare l’ecologia e la psicologia dei luoghi abbandonati, e racconta cosa accade quando – a seguito di disastri naturali o catastrofi causate dall’uomo – gli abitanti si dileguano e la natura torna in vari modi a reclamare lo spazio.
Ricordi la prima volta che ti sei sentita attratta da uno di questi posti?
Credo che la prima volta sia stata all’inizio del 2017, durante una giornata trascorsa su un gruppo di piccolissime isole al largo della costa occidentale della Scozia, le isole Slate. Un tempo da quelle parti si estraeva l’ardesia e, nonostante le isole in sé siano minuscole, le cave sono enormi e profondissime, per cui l’effetto è quello di camminare su delle ciambelle giganti. Oggi le cave abbandonate sono piscine naturali piene di acqua marina che si colora di tinte meravigliose grazie alle impurità e ai residui che ne rivestono le pareti. E nuotando in queste piscine vedevo tutto intorno un’infinità di fiori di campo e piccoli uccelli nascosti nella vegetazione. Sono rimasta molto colpita dalla bellezza che ho inaspettatamente trovato in questo contesto post-industriale, e da lì ho sviluppato un forte interesse per paesaggi antropogenici di quel tipo.
Si potrebbe pensare che un libro che parla di abbandono e distruzione sia inevitabilmente triste, cupo, ma le storie che scegli di raccontare sono intrise di speranza e persino di un certo ottimismo. La tua attenzione è sempre rivolta verso l’incredibile potenziale di vita che aleggia in ciascuno dei posti che hai scelto di esplorare, come dimostra l’aneddoto che hai appena raccontato.
È così, la miccia iniziale del libro è stata proprio quella scintilla di ottimismo, quel senso di redenzione. Appena ho imparato a riconoscerla ho iniziato a vedere queste storie di ripresa e ricrescita dappertutto, ed è proprio questo il fil rouge del libro. Si è trattato semplicemente di allenare lo sguardo e imparare a vedere davvero, quando lo si fa qualcosa cambia per sempre. Negli ultimi anni ho sviluppato una vera e propria fascinazione per questi posti che sono intorno a noi ogni giorno ma che spesso ignoriamo o che comunque consideriamo brutti, irrilevanti, ma quando impari a comprenderne il valore la loro presenza assume contorni completamente diversi. Questo cambio di prospettiva, questa nuova consapevolezza, è il punto di partenza del libro.
Non c’è dubbio che abbiamo causato danni indicibili al nostro pianeta, ma è altrettanto vero che noi umani possiamo avere un impatto negativo anche nel momento in cui proviamo a rimediare a quei danni. Per questo motivo nel libro scegli di spostare il tuo sguardo su storie che non parlano di restaurazione, ma di “redenzione”. La redenzione è possibile solo in assenza di intervento umano?
Non necessariamente. Ci sono situazioni in cui se agiamo tempestivamente è possibile fare qualcosa per arginare i danni, per esempio se andiamo a ripulire un posto da agenti inquinanti in maniera tempestiva, prima che prendano piede altri ecosistemi. Ma il motivo per cui ho sviluppato un interesse così grande verso i posti abbandonati è che sono esperimenti purissimi di quello che la natura è in grado di fare senza l’aiuto dell’uomo, e credo che questi posti abbiano molto da insegnare anche a chi è interessato alla restaurazione ecologica. Io, però, sono più interessata a quella sorta di anarchia che si scatena quando si permette alla natura di fare il suo corso e sono molto scettica rispetto a questo ruolo di “amministratori ecologici” del pianeta che tendiamo a sposare con così grande entusiasmo. Capisco l’origine di questa volontà di dare ordine al caos della natura, ma credo che dovremmo imparare a resistere all’impulso. E allenare lo sguardo a riconoscere la bellezza e la ricchezza, ad esempio, delle siepi spontanee e dei cigli erbosi delle nostre città, che dal punto di vista della biodiversità possono essere decisamente più vivaci e interessanti di giardini stracolmi di piante ornamentali, o di terreni coltivati.
I bing del Lothian occidentale di cui parli nel primo capitolo (enormi cumuli di detriti che risalgono ai tempi in cui la Scozia produceva petrolio trasformando in combustibile lo scisto bituminoso) sono un esempio perfetto: quelli che nella prima metà del secolo scorso sono stati abbandonati al loro destino oggi sono esempi straordinari di successione primaria in azione, una sorta di archivio di biodiversità, ma lo stesso non si può dire di quelli che negli anni ’70 sono stati oggetto di interventi di “miglioramento”.
Esatto, ci sono più specie di piante sui bing abbandonati che sul Ben Nevis! Quelli che sono stati soggetti a operazioni di “abbellimento” invece sono piatti, spogli. Dico abbellimento perché queste migliorie, qui come altrove, partono da un presupposto puramente estetico, una sorta di impulso curatoriale di cui nella cultura occidentale sembriamo non poter fare a meno. Pensa alla High Line di New York, questa ferrovia sopraelevata dismessa dove la vegetazione spontanea è stata completamente sradicata per creare un giardino più disciplinato, più curato, che ha bisogno costante di manutenzione da parte dell’uomo e che mette insieme piante che in natura non si sarebbero mai incontrate.
Nel secondo capitolo ci porti nella zona cuscinetto tra la Repubblica di Cipro e la Repubblica Turca del Nord di Cipro. Tra le altre cose racconti di Famagosta, dove convivono da un lato una città vivace e affascinante e dall’altro la sua sorella completamente abbandonata, una sorta di cimitero di cemento fatto di monoliti fatiscenti. A separarle c’è soltanto una recinzione in fil di ferro su cui in certi tratti è appeso un telo sgualcito, per cui il caos, la distruzione, l’abbandono sono costantemente visibili. Eppure, dall’altra parte la vita prosegue come se nulla fosse, come se gli abitanti o i turisti avessero imparato a “disvedere”[1] quello che hanno ogni giorno, inevitabilmente, davanti agli occhi. Che cos’è che ci permette di farlo?
Direi che c’entrano due cose. Innanzitutto la psicologia dell’attenzione, quella specie di faretto interno che in alcuni momenti fa una luce piuttosto ampia e in altri invece si restringe, facendo sì che quando passi molto tempo in un posto la tua attenzione diventi specifica: pensi semplicemente alla tua routine quotidiana, alla prossima cosa da fare, e quindi non sempre hai una percezione più ampia di quello che ti sta accadendo intorno. E poi penso che quando ci si sente impotenti di fronte a qualcosa l’alienazione possa essere una strategia di sopravvivenza; su scala molto più piccola, si potrebbe fare l’esempio di chi vive in una casa estremamente disordinata: tutto quel caos ti provoca uno stress enorme per cui dopo un po’, per sopravvivere, è come se smettessi di vederlo.
Credo che nessuno di noi sia immune da una certa spinta voyeuristica che ci attira verso posti desolati, cadenti o dismessi, quella che nel libro chiami “pornografia delle rovine”. Penso a Chernobyl, ma anche, per esempio, a Detroit, due delle “isole” di cui parli nel libro. Secondo te da dove viene questo impulso, e quand’è che la semplice curiosità diventa perversione?
È una linea quasi impossibile da definire consapevolmente, credo che ognuno di noi non possa far altro che basarsi su quello che sente. C’è una voce interiore che te lo dice, se ti stai spingendo troppo in là. Ci sono stati momenti in cui mi sono trovata a camminare praticamente dentro le case delle persone, ad esempio nel capitolo sul New Jersey, quando per esplorare cosa resta dei mulini che un tempo erano al centro dell’industria manufatturiera di Paterson camminavo di fatto tra gli accampamenti di chi oggi ci vive. In questa parte del libro volevo mostrare non solo le storie umane che hanno fatto da preludio all’abbandono, ma anche l’abbandono che ha colpito gli umani stessi, le vite di chi oggi continua ad abitare questi luoghi in rovina. È chiaro che si entra inevitabilmente in un territorio in cui è necessario tenere in considerazione non solo la privacy ma anche il buon gusto. E credo che non si possa fare altro che seguire il proprio istinto, è molto personale.
Questo è un aspetto interessante. Quando parliamo di luoghi abbandonati tendiamo a dimenticarci che raramente “abbandonato” significa anche disabitato.
Esatto, un aspetto che mi ha molto colpita nella maggior parte dei viaggi è proprio aver scoperto che nei posti cosiddetti abbandonati ci sono in realtà moltissime persone. Può essere gente che ha deciso di non andarsene nonostante il disastro o il declino, o che si è trasferita abusivamente in un secondo momento, magari in fuga da qualcosa o semplicemente bisognosa di un posto in cui vivere. Riflettere sull’abbandono, quindi, non significa soltanto osservare le impronte lasciate dall’uomo, ma anche riflettere su quali siano le forze che fanno sì che le persone da un lato se ne vadano e dall’altro scelgano invece di restare (o ne siano costrette). La seconda parte del libro è interamente dedicata all’aspetto umano dell’abbandono. Oltre agli ex mulini di Paterson a cui accennavo prima, parlo per esempio dell’accampamento anarchico nel deserto che prende il nome di Slab City, a pochi chilometri dalle rive inquinate e prosciugate del lago Salton (che negli anni ’50 era una meta turistica molto popolare), e poi parlo della Detroit post tracollo industriale e di alcuni dei suoi irriducibili abitanti, oppure delle periferie di Chernobyl dove i samoseli sono tornati illegalmente a vivere dopo la catastrofe.
Isole dell’Abbandono è un libro estremamente dettagliato e informato, ma leggendolo non si ha mai la sensazione di trovarsi di fronte a una fredda lista di fatti. La tua è una scrittura avvolgente e altamente immaginifica, c’è una grande cura nella scelta delle parole, nella restituzione di dettagli e atmosfere precise. Ed è un libro sorprendentemente pieno di poesia e capace di coinvolgere tutti i sensi. Come ha funzionato per te il processo creativo?
Molti dei passaggi descrittivi vengono da appunti presi sul momento, ho capito che scrivere mentre mi trovo sul posto mi obbliga a prestare ancora più attenzione a quello che sto vivendo. È una fase di cui riconosco l’assoluta importanza e che mi piace moltissimo, è la fase dell’immersione a livello emotivo. Qui mi accorgo che mi capita di concentrarmi su alcuni aspetti e non su altri, perché sono quelli che hanno risvegliato in me una reazione fisica, sensoriale. C’è poi un secondo momento in cui mi concentro invece sul lato concettuale dell’esperienza, e questo mi aiuta a comprendere veramente ciò che ho osservato e a costruire una sorta di strato aggiuntivo da sovrapporre alla mia percezione iniziale. Si tratta poi di capire come trovare l’incastro perfetto tra le due parti, un processo decisamente difficile che richiede moltissimo tempo e che, nel mio caso, di solito si realizza tra le dieci di sera e le quattro del mattino, tipicamente a ridosso di qualche scadenza! Devo dire che per me il coinvolgimento emotivo è una componente imprescindibile, se andando in un posto non sento quel tipo di risposta può essere un problema. A volte accade, specialmente se ti sei informato troppo. Per questo secondo me bisogna anche stare attenti a quanto si legge prima di un viaggio, perché a volte troppa conoscenza ti rende in un certo senso impermeabile e a quel punto è difficile scrivere in un modo che non risulti freddo. Per far sì che questi lunghi passaggi descrittivi reggano c’è bisogno di una controparte emotiva che lavori su un piano diverso, non razionale.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Pensi che continuerai a occuparti del tema?
Mi interessa moltissimo il confine tra umano e non-umano, quella linea di demarcazione che spesso è in realtà uno spazio di intersezione, o di sovrapposizione. Come percepiamo il mondo naturale? Come definiamo il nostro rapporto con la natura da un punto di vista etico? Non so se continuerò a occuparmi di abbandono, ma devo dire che la familiarità con l’argomento non mi stanca perché mi aiuta a processare davvero le cose. Il libro è uscito da un anno, il manoscritto ho finito di scriverlo due anni fa, ma il mio pensiero non ha mai smesso di crescere non solo perché ho continuato a leggere, ma anche perché mi sono state poste domande su questioni specifiche su cui ai tempi non avevo riflettuto. Se ne avessi la possibilità continuerei a modificare passaggi, aggiungere pezzi qua e là. Non penso che sentirò mai di aver esaurito il mio interesse per il tema, ma sono curiosa di scoprire dove mi porterà, che forma prenderà.
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[1] L’autrice prende in prestito questa espressione da La Città e le Città, di China Miéville.