La bellezza e l’orrore del cuore di tenebra: Kampuchea di Patrick Deville
di Armando Vertorano
Il fascino dei toponimi sta nella loro straordinaria capacità di raccontare storie, di mostrare le diverse facce di una stessa realtà.
Kampuchea è il nome della Cambogia in lingua khmer, la lingua ufficiale del paese. Deriva dal sanscrito Kambuja, antichissima tribù indiana da cui, secondo una tradizione, discenderebbe appunto il popolo khmer. Il toponimo fu poi “francesizzato” in Cambodge, da cui poi nacquero le denominazioni occidentali, compresa quella italiana.
Kampuchea e Cambogia dunque sono solo apparentemente dei sinonimi. Se Kampuchea è storia antica che si perde nelle leggende senza contaminarsi con un Occidente ancora sconosciuto, Cambogia è invece un toponimo figlio di una storia più recente, iniziata a metà dell‘800 con un entomologo francese a caccia di farfalle che, suo malgrado, diede inizio a circa un secolo di guerre di colonizzazione.
L’ambizioso libro di Patrick Deville, pubblicato da Nottetempo, prova a raccontare entrambi questi facce, esaminando da un lato le origini e le inevitabili connessioni con i paesi vicini, Vietnam, Laos, Thailandia e dall’altro le trasformazioni, spesso macchiate di sangue, legate alle esplorazioni – prima – e alle invasioni colonialiste – poi – di Francia e Inghilterra. A metà strada fra reportage giornalistico, romanzo di viaggio e saggio storico, Deville fa ricorso a uno stile di racconto frammentato e innovativo, alterna date, citazioni, luoghi, mette insieme personaggi notissimi ad altri poco noti al grande pubblico, alternando resoconti e biografie storiche al dialogo diretto con dei testimoni scovati personalmente durante i suoi viaggi. Kampuchea è un libro letteralmente traboccante di storie, narrate senza respiro, la prosa di Deville è innovativa, densa, paratattica, i capitoli sono brevi ma infarciti di informazioni, l’autore mitraglia senza sosta pezzi di un complesso mosaico che spetterà al lettore mettere insieme, fermandosi un attimo, riflettendo, approfondendo, sviscerando, ricollegando.
Il viaggio-ricostruzione di Deville comincia – forse necessariamente – dalla dittatura e dal cosiddetto autogenocidio perpetrato dai Khmer rossi di Pol Pot. Un massacro che portava un nome ammaliante per molti pensatori dell’epoca, quello di Rivoluzione. La parola magica che gli studenti europei di sinistra continuavano a ripetere, a studiare, a sognare. Quel mondo nuovo, sul modello russo e cinese, basato sull’abolizione del capitalismo e sulla fondazione di una società de-occidentalizzata, in cui regna l’uguaglianza economica e sociale. Un sogno a cui i khmer rossi diedero letteralmente vita. Pol Pot considerava il comunismo russo e cinese troppo blandi per potere essere davvero stabili, le masse andavano riprogrammate, la cultura andava depurata affinché si tornasse alla tradizione contadina originaria del popolo khmer. Un’intenzione che spaventava, ma al tempo, quando ancora non si conoscevano i dettagli dell’orrore, incuriosì non pochi intellettuali. Fu solo qualche tempo dopo che ci si rese conto che il regime di Pol Pot era stato artefice di una delle più efferate carneficine della storia.
Deville sviscera la questione a modo suo, non ripercorre i sentieri già noti, ma lo fa incontrando i figli dei sopravvissuti alla strage e seguendo il lungo processo ai “fratelli numerati” ancora vivi, i fedelissimi di Pol Pot diventati oggi anziani signori che parlano francese e chiedono ‘scusa’. Attende poi il verdetto riservato a Duch, uno dei boia più temuti del regime, colui che interrogava, torturava e uccideva le migliaia di prigionieri che passavano per l’S-21, un vecchio liceo della capitale che divenne la prigione incubo della Kampuchea Democratica, un posto in cui era facilissimo entrare, ma da cui era impossibile uscire vivi.
Il filo conduttore del viaggio di Deville è dunque l’attesa di una risposta giudiziaria lenta ad arrivare, un’attesa che lo porta in primo luogo a riflettere su quanto accaduto, a cercare nuove chiavi di lettura, a indagare su come sia stato possibile che per circa quattro anni, dal 1975 al 1979, un gruppo di ex studenti indocinesi con un’importante formazione letteraria, cresciuti nel clima artistico e libertino della Parigi degli anni ’50, la Parigi dei colonizzatori, abbiano ideato una Rivoluzione così totale, azzerante, spietata. Come sia potuto accadere che un gruppo di ex intellettuali (lo stesso Pol Pot insegnava lettere e amava la poesia francese) sia riuscito a rovesciare un governo filo-americano e a forzare un’intera popolazione a tornare indietro nel tempo, a svuotare le città, bruciare i libri, abolire il denaro in favore di un ritorno al baratto, chiudere scuole, cinema, teatri, ospedali. Chiunque non fosse in grado di reggere il lavoro veniva ammazzato, chiunque venisse scoperto a leggere, a studiare, o anche solo chi portava gli occhiali, veniva arrestato, chiunque non rispettasse le rigide regole imposte dal regime, veniva freddato, spesso sul posto. Gli esecutori favoriti dal regime erano i bambini soldato, quelli che Deville chiama “pipistrelli”, indottrinati fin da piccoli e trasformati in spie e macchine di morte.
Il regime creò un sistema in cui la massa aveva più valore della singola vita umana, la cui quotidianità era scandita dagli inquietanti comunicati dell’Angkar, che Deville fa comparire qua e là durante la narrazione, trascritti in un violento stampatello, come fossero dei drammatici spot pubblicitari. L’Angkar, l’“Organizzazione”, era la segreta macchina burocratica e propagandistica senza volto, quella che tutto decideva e tutto gestiva dall’alto, una sorta di Entità superiore da adorare come un dio, forse la realtà storica più inquietantemente vicina a quella finzione orwelliana chiamata Grande Fratello.
Eppure Kampuchea non è fatto di sole pagine sanguinose. Quando Deville, nel suo viaggio, lascia la Cambogia per girare l’Indocina, il racconto delle guerre di colonizzazione, delle invasioni, delle battaglie più o meno giuste, lascia ampio spazio anche alla meraviglia, quella provata dai primi esploratori francesi di fronte alle rovine di Angkor Wat, ai tramonti mozzafiato sul Mekong, alle usanze delle tribù autoctone prima dell’arrivo dell’Occidente. Lo sguardo di Deville si riflette in quello di moltissimi personaggi che hanno percorso quegli itinerari anni e anni prima, una bellezza che non perde il suo fascino nemmeno di fronte alle frequenti stilettate ironiche dell’autore, che non risparmia quasi a nessuno il ghigno un po’ cinico della sua penna. E se fu Henry Moulhot che, andando a caccia di insetti, trovò e raccontò per primo la meraviglia di Angkor Wat, generando nei suoi compatrioti francesi una vera e propria “febbre indocinese” – al punto che Deville si diverte a utilizzare il 1860, l’anno della scoperta di Moulhot, come un anno zero nella storia dell’Indocina, quello che l’ha cambiata per sempre – saranno poi gli scrittori come Loti, Malraux, o l’inglese Graham Greene, gli esploratori come Lagrée e Garnier, e perfino i registi come Coppola, che trasferì in Cambogia l’heart of darkness di Conrad, a proseguire questo cammino di scoperta e racconto che sembra destinato a non avere mai fine, a evolversi in continuazione.
In quanto francese dall’animo cosmopolita, Deville permea tutto il suo libro di quello scambio di lunga data, fatto d’influenza mista a repulsione, che unisce Cambogia e Francia, il paese che è stato per gli indocinesi affascinante terra straniera, poi un nemico invasore, poi di nuovo – seppur occasionalmente – un utile alleato.
La Storia e i suoi protagonisti appiono sempre sottoposti alla ruota del Samsara, concetto buddhista largamente usato da Deville in chiave metaforica, un circolo costante che capovolge periodicamente la percezione e il valore affidato a persone o eventi.
Ecco dunque di cosa è fatta l’Indocina raccontata in Kampuchea, di protagonisti che non sempre hanno “scelto la loro assegnazione”, pedine sotto il peso di una Ruota che, coperta di lame affilate e fin troppo macchiate di sangue, li ha trasformati da eroi a traditori e poi ancora da traditori a eroi.