Lettera aperta a comune, regione e ministero della cultura, giornali, artisti, tecnici, spettatori sul teatro di Roma
di Christian Raimo
C’è una specie di spettro di Banco che si aggira nei teatri romani. Ci ricorda le colpe di cui ogni giorno ci macchiamo.
Raccontiamo questa tragedia diventata farsa diventata un palco vuoto. Dopo oltre un anno di teatri chiusi, a Roma, al Teatro nazionale, gli spettacoli si bloccano di nuovo. Accade per lo sciopero dei tecnici aderenti alla sigla sindacale Libersind. Uno sciopero strano, selettivo – si sciopera all’India e non all’Argentina, prolungando lo sciopero di giorno in giorno; alle 14 ogni giorno arriva un comunicato che annulla la replica serale – che ha provocato prima un’incomprensione poi un’irritazione e poi una levata di scudi da parte di un pezzo di cittadinanza e di artisti che hanno guardato con favore sia la riapertura ovviamente ma anche il tentativo di rimodulazione e di innovazione nella gestione del teatro messo in atto dalla coppia di consulenti artistici, Corsetti-Corona.
Ma si può davvero prendere voce contro i lavoratori che scioperano? Le lotte sindacali, al netto dei progetti artistici, non sono sempre sacrosante? Sgombriamo subito il campo da un equivoco: lo sciopero è sì un diritto imprescindibile, sancito dalla Costituzione. In alcuni casi, come questo, quel diritto sacrosanto può venire utilizzato in modo divisivo, per obiettivi che sembrano avere più a che fare con una sorta di corporativismo, o di azione lobbistica, che con i diritti dei lavoratori. Tanto più che l’azione sindacale va a discapito, con un gesto simbolicamente deflagrante dopo un anno e più di pandemia, di un’altra categoria di lavoratori: gli artisti e i tecnici delle compagnie che non possono andare in scena. Insomma, quello che è formalmente uno sciopero sembra più un hackeraggio delle lotte sindacali. Vediamo perché.
In primo luogo il blocco del Teatro India avviene al culmine di una lotta ancora aperta per l’avvicendamento alla direzione del Teatro di Roma, che va avanti da un anno. Il blocco ha lo scopo dichiarato di influenzare la nomina del direttore o della direttrice (qui Anna Bandettini, su Repubblica, il 18 maggio si domandava ad esempio come mai un sindacato si mettesse a esprimere, in un comunicato, preferenze sul nome del direttore: Luca De Fusco, un nome non certo sinonimo di innovazione, che si porta appresso un passato recentissimo di relazioni burrascose a Napoli), ma fa leva, ufficialmente, sul tema della sicurezza sul luogo di lavoro – tema caratterizzato da una pretesa situazione di emergenza che consente alla Libersind di dichiarare lo sciopero, ogni giorno, a poche ore dall’inizio della rappresentazione (lo annunciano alle 14 per fare iniziare lo sciopero alle 16), con un doppio effetto anche questo singolare per una battaglia sindacale: intaccare il minimo la giornata lavorativa degli aderenti e lasciare gli artisti e gli altri tecnici il disagio di lavorare in orari complicati e sotto il sole di giugno – come ha raccontato in un comunicato postato su facebook il regista Massimiliano Civica. La sua “Antigone” sarebbe dovuta andare in scena nell’arena, all’aperto.
La situazione che si è venuta a creare è una perdita culturale enorme per la città di Roma: gli spettacoli Sonora Desert dei Muta Imago e Antigone di Massimiliano Civica, molto attesi, non potranno essere visti a causa di questo hackeraggio dello sciopero con finalità politiche. Il fatto che tutto ciò avvenga dopo un anno di chiusura dei teatri a causa della pandemia rende il gesto incomprensibile, tanto che in molti hanno preso parola contro di esso. A partire dagli Autorganizzat_ Spettacolo Roma, che in un comunicato che critica anche la direzione del Tdr ricostruisce nel dettaglio la situazione ingarbugliata che il Teatro nazionale attraversa da più di un anno, smentendo di fatto quanto riportato nei comunicati Libersind. Lo stesso avviene, in una ricostruzione che finalmente rompe la narrazione unica sui fatti del Teatro di Roma, in questo articolo a firma della redazione di Teatro e Critica. Proviamo quindi a mettere a fuoco alcuni punti.
1) Come ha ricostruito Teatro e Critica, i comunicati di Libersind sono difficili da reperire, circolano tra i lavoratori del teatro e in qualche redazione di giornale. Qui un paio di esempi::
I comuniucati parlano di “livelli di igiene e sicurezza” non adeguati; tuttavia i comunicati del sindacato vanno avanti da mesi, e il tema della sicurezza è stato sollevato solo tardivamente, appare: molto strumentalmente, per giustificare lo sciopero. Nei comunicati precedenti, non ce n’era traccia, mentre già era presente il pressing sulla direzione vacante. La questione della sicurezza, per altro, viene smentita da un comunicato del Teatro di Roma del 10 giugno.
2) Sempre nella ricostruzione di Teatro e Critica si evidenza come i comunicati Libersind, al di là di utilizzare un linguaggio abbastanza elementare eppure opaco, tendente ancora una volta all’hacking delle parole d’ordine di sinistra. Accusati di essere collocati a destra – lo sono (basta un giro su Google per rintracciare le convergenze con Fratelli d’Italia anche recenti) dal 12 aprile intitolano i comunicati con lo slogan “Hasta la victoria siempre”. E non mancano nemmeno “segnali in codice” come questa frase sibilliana: “Secondo queste voci, non ci sarebbero orientamenti del Teatro verso una scelta a copertura del ruolo del Direttore in linea con i criteri valutativi auspicati dal Ministro della Cultura e da tutti i lavoratori del Teatro, bensì verso competenze di intrattenimento musicale adatto a scenari della Capalbio estiva con balli su sabbia e Prato”. Il “Prato” scritto in maiuscolo e grassetto sembra un’allusione palese sebbene goffa al Teatro Metastasio di Prato, il cui direttore Franco D’Ippolito, giunto alla fine del proprio mandato, è stato indicato da più articoli come un nome possibile per ricoprire la casella di direttore a Roma; soluzione evidentemente non gradita al sindacato Libersind, e invece nome molto più credibile di De Fusco.
2) La richiesta di un nuovo direttore fa riferimento a una questione oggettivamente insostenibile, gestita purtroppo male dal Cda del teatro: l’assenza di un direttore amministrativo, all’indomani delle dimissioni di Corsetti che, rinunciando a quel ruolo, resta però in carica come direttore artistico (tecnicamente: consulente). Questa vacatio dura dalla fine di febbraio 2020, ma è stata resa nota solo a maggio di quell’anno. Certamente i soci del teatro (comune, regione, ministero) avevano questioni più importanti da sbrigare durante il primo duro lockdown, avvenuto appunto tra marzo e maggio, e quindi il ritardo è abbastanza comprensibile. Lo è meno la gestione comunicativa della faccenda e le lungaggini che hanno prolungati i tempi della manifestazione di interesse per un nuovo direttore fino a dopo l’estate, e del processo di selezione che ha richiesto altri mesi. L’individuazione di Pierfrancesco Pinelli è arrivata a novembre inoltrato, ma il nuovo direttore designato non ha mai preso possesso del proprio ruolo. Ha aspettato di essere chiamato fino alla fine di aprile 2021 e, una volta chiamato, ha rinunciato all’incarico, per ragioni personali. E qui comincia un ulteriore garbuglio.
3) Il Teatro di Roma, scavallato il 2020, doveva presentare un bilancio preventivo per il 2021. Il bilancio presentato dal Cda è stato respinto con parere negativo dal collegio dei revisori per ben quattro volte (ecco perché si è aspettato tanto a proporre formalmente l’incarico a Pinelli). Trattandosi di un bilancio preventivo, la questione è piuttosto strana – scegliere come allocare le risorse è qualcosa che influenza profondamente la realizzazione del progetto artistico; possono i revisori intervenire su questa questione? Eppure, a ben guardare, anche questa lungaggine non è poi così strana. Viene a seguito di una campagna stampa in cui, alla giusta richiesta di delucidazioni sull’assenza di un direttore, si è sovrascritta una campagna di disinformazione.
L’aspetto più scottante, quello sul quale è facile buttare benzina sul fuoco dopo decenni di retorica contro la spesa pubblica, è il tema delle consulenze. A capitanare il coro degli indignati è l’onorevole Federico Mollicone, esponente di Fratelli d’Italia, già a capo della commissione cultura del comune di Roma ai tempi di Alemanno. “Il teatro di Roma è diventato un poltronificio”, dice (qui su Il Tempo, 30 novembre 2020) e invoca il commissariamento, ripreso prontamente ora da Libersind. L’articolo più esplicito, ma anche più mistificante, lo firma l’1 dicembre 2020 Daniele Autieri sulle pagine locali di Repubblica (l’articolo è, stranamente, offline), tirando in ballo nomi e cognomi di collaboratrici e collaboratori che prendono dai dodicimila ai ventimila euro lordi l’anno. Cioè, collaborazioni part-time e full-time normalissime. Lo scandalo dovrebbe risiedere non tanto nei compensi quanto nel fatto che il teatro si avvale di personale precario, che queste collaborazioni non vengono inquadrate con adeguate tutele.
A chiarirlo meglio è, ancora una volta, il comunicato di Autorganizzat_ Spettacolo Roma, che rileva: “Teatro di Roma ha poco più di 40 dipendenti a tempo indeterminato: oggettivamente insufficienti per gestire 9 spazi” (gli spazi sono Argentina, India, Valle, Torlonia, Quarticciolo, Torbella Monaca, Lido di Ostia, Villa Pamphili, Globe Theatre, gestiti alcuni direttamente, altri amministrativamente, altri ancora come coordinamento di attività affidate a terzi). Viene meno, secondo gli Autorganizzat_, “la narrazione secondo la quale l’Associazione TDR faccia troppe assunzioni: il problema è l’opposto, ne fa troppo poche”.
4) La narrazione è comunque quella di un teatro allo sbando. E quindi molti giornali chiedono l’arrivo – sic! – di un “uomo forte” che risolva la situazione (gli aggettivi usati più di frequente sono in realtà “all’altezza”, “competente”, “esperto” – ad esempio Katia Ippaso sul Messaggero del 13-09-2020 – ma il senso è quello). Mollicone non manca di aggiungere folklore, giocando (hackerando) sul significato delle “residenze artistiche” attive a India, che nel corso della sua interrogazione parlamentare di aprire suonano come residenze private, alla stregua di occupazioni; secondo lui, come riporta Il Tempo del 29 aprile 2021, “Francesca Corona, catalizzatrice di una serie di ambienti, avrebbe trasformato il Teatro India in una sorta di centro sociale occupato dove, a quanto sembra dalla programmazione e dalla lettura dei bilanci, sembra siano stati scritturati molti degli animatori del Valle Occupato e dell’Angelo Mai”. Insomma, secondo l’esponente di Fdi, quelle che un’ampia fetta di mondo artistico e culturale italiano hanno salutato come salutari innovazioni, persino tardive – a India, ad esempio, c’è finalmente un bar dove si può stare, si può lavorare e incontrare gente, come avviene in molti spazi europei, anziché venire cacciati immediatamente a fine spettacolo – sarebbero in realtà elementi di un’occupazione mascherata.
Da ultimo arriva il ministro Franceschini, che il 21 maggio 2021 interviene contro Raggi e Zingaretti affermando che “il Teatro di Roma andrebbe commissariato” (qui su Repubblica). Ora, l’intervento del ministro sarebbe anche ammissibile, benché tardivo, se non fosse che in tutto questo lungo braccio di ferro la consigliera di opposizione in cda al progetto artistico è sempre stata Berta Maria Zezza, espressa proprio dal Ministero. Come a dire che l’arbitro è parte in causa e gioca con la squadra avversaria.
La replica di Mollicone non si fa attendere, plaude all’esternazione del ministro e afferma: “La nomina di Direttore spettava a De Fusco, unico con requisiti e capacità artistica ad aver partecipato a manifestazione di interesse, proveniente da importanti esperienze professionali. Pinelli, come abbiamo già denunciato, era senza requisiti fin dall’inizio. Corsetti e Corona dovrebbero essere cacciati: il primo per manifesta incapacità, come già avvenuto; l’altra per aver trasformato il Teatro India in una sorta di ‘centro sociale’ ” – (qui su Agenzia Stampa Italia).
5) Se avete seguito fin qui quello che sembra un vaudeville scadente, vi sarete resi conto che, a un certo punto della vicenda, c’è un piccolo cambio di scena. Da un’accusa rivolta al Cda per non essere stato in grado di trovare un direttore o una direttrice amministrativa, lasciando il teatro nell’incertezza per oltre un anno (Anna Bandettini ne ha scritto molto sul suo blog su Repubblica) si passa sic et simpliciter a un’accusa rivolta a Corsetti e Corona di incompetenza. Non competenti, in effetti, i due consulenti artistici lo sono davvero: in quanto si occupano della parte artistica e non amministrativa, non sarebbero le persone cui addossare lo stato in cui attualmente versa il teatro. Eppure non si parla che di rimozione, di commissariamento. Forse perché il loro progetto di teatro, fatto di residenzialità, di nomi internazionali (dovevano debuttare Tiago Rodriguez, Kornél Mundruczó, Phia Menard, Milo Rau, El Conde de Torrefiel, tra gli altri), di relazioni con le associazioni e i territori della città, non sarebbe stato compatibile con un taglio come quello del plurisuggerito De Fusco; lui stesso lo chiarisce in una dichiarazione del 19 maggio 2021, ripresa dall’agenzia stampa ADN Kronos, in cui esplicita che secondo lui al Teatro di Roma “va riportato equilibrio tra sperimentazione e difesa del teatro classico”. Cosa sia il teatro classico e cosa sia la sperimentazione poi forse verrà chiarito in un’altra agenzia.
6) Ma il problema non è nemmeno il nome di De Fusco in sé (semmai sarà davvero lui ad essere designato; si parla di già di Giorgetti, attuale direttore del Teatro La pergola di Firenze). Non è un problema che quello di De Fusco sia un nome caro al centrodestra. E nemmeno è problematico il fatto che la sua gestione a Napoli sia stata accusata di personalismo (come taccontava Alessandro Toppi su Repubblica nel 2018 e, analizzando più nel dettaglio, sul Pickwick nel 2019) o perché, nonostante oggi venga presentato da giornali come il Messaggero come un gestore capace e navigato, ieri veniva accusato di non pagare i lavoratori (ad esempio su FanPage nel 2019). Il vero problema è che ancora una volta, e drammaticamente, si finisce a parlare drammaticamente dell’uomo solo al comando. D’altronde il balletto di nomi papabili, quando si parla di direzione dei teatri nazionali, è sempre quello: ci si sposta semplicemente da un teatro all’altro. La norma ministeriale, che vuole che il direttore designato alla guida di un teatro pubblico abbia già guidato un ente di pari importanza per almeno cinque anni, sembra all’apparenza un dispositivo pensato per tutelare l’istituzione; in pratica ha l’effetto di impedire l’accesso alle generazioni più giovani o ai nomi che sono fuori da un novero immobile.
7) All’immobilismo si unisce, consapevolmente o meno, un risvolto sessista. A dirigere i sei teatri nazionali non c’è nemmeno una donna (se si eccettua Francesca Corona, che però è solo una consulente artistica). Se si allarga lo sguardo ai cosiddetti Tric, i diciannove ex stabili che non sono stati promossi “nazionali”, si contano a malapena due direzioni femminili: Pamela Villoresi a Palermo e Laura Sicignano a Catania. Nonostante questo, quando viene ventilata – sempre dai giornali, sempre secondo “voci” non meglio identificate – la possibilità di nominare direttamente Francesca Corona come direttrice amministrativa del teatro, si grida allo scandalo. Non tanto perché, come è evidente, il parametro ministeriale dei cinque anni non verrebbe rispettato. Quello che scandalizza è proprio il fatto che si tratti di un nome giovane e non blasonato. Franco Cordelli sul Corriere del 12 maggio 2021 scrive: “Già leggendo il primo programma firmato da Corona per il suo teatro non si poteva non aver provato qualche sconcerto: maggior spazio alla danza e alle arti performative, ben poco teatro. Immaginare che l’Argentina già diretta da Luigi Squarzina, Franco Enriquez, Maurizio Scaparro, Luca Ronconi, Mario Martone, Giorgio Albertazzi, Gabriele Lavia e ben ultimo, Antonio Calbi possa essere sostenuto dalla guida di chi al teatro concede non più di quanto avrebbe potuto concedere l’ingegner Pinelli non è confortante”.
Un elenco di maschi, di cui vari morti, dal quale chissà perché viene espulsa Giovanna Marinelli, che pure lo stabile l’ha diretto nel 2015.
8) Quando partono le campagne giornalistiche contro qualcosa o qualcuno, a Roma, raramente si fermano. È successo per il Valle Occupato, di cui ricorre il decennale proprio in questi giorni (il cui modello partecipato spaventa tanto Mollicone che la Libersind, che lo citano spesso come esempio negativo). Successe anche vent’anni fa con Mario Martone, anche lui “defenestrato” dal teatro dopo aver aperto India, uno dei fatti che maggiormente ha segnato in positivo la storia culturale di questa città. Il 10 ottobre 2020 Martone ha affidato alle pagine del Manifesto un intervento a difesa della programmazione di Corsetti e Corona (“le innovazioni che creai durano ancora oggi, a cominciare dal Teatro India, che Francesca Corona, al fianco di Barberio Corsetti, sta finalmente rivitalizzando”) e contro le congiure più o meno esplicite che spingono il teatro “verso l’ingovernabilità”.
Giornali e giornalisti hanno giocato, in questo senso un ruolo pessimo. Quasi nessuno ha fatto informazione, tutti hanno preferito provare a fare lobby, suggerendo il proprio candidato del cuore. De Fusco per il Messaggero, Calbi per il blog di Repubblica, oppure mantenendo un atteggiamento genericamente sfascista come Cordelli sul Corriere. Se la situazione del Teatro di Roma è oggi così ingarbugliata e un sindacato come Libersind è in grado di far passare le proprie pretese corporative come sincere lotte sindacale è anche, in buona parte, colpa degli organi di informazione. Anche l’informazione, a Roma, è stata a suo modo hackerata dal lobbysmo.
Anche qui non si difende la gestione Corsetti-Corona per presa di posizione. Può non piacere la loro programmazione, ci si può non riconoscere nella loro cultura teatrale,si può discutere la scelta di Corsetti di distinguere il ruolo artistico da quello amministrativo, ma quello che si vorrebbe è un dibattito aperto: discutere di progetti di teatro pubblico, di visioni, senza colpi bassi.
9) Se si fosse fatta vera informazione, si sarebbe potuto ad esempio raccontare che il Teatro di Roma non solo aveva un programma straordinario in cantiere, bloccato dal covid. E anche che, nonostante la chiusura dovuta alla pandemia, il teatro capitolino è stato uno dei pochi teatri pubblici che non si è fermato un momento. Progetti artistici e anche politici – come il racconto delle nuove povertà colpite dal covid e dalle chiusure nei quartieri di Roma – che non hanno lasciato solo il pubblico e nemmeno gli artisti (quasi un centinaio quelli coinvolti), che hanno avuto modo di continuare a lavorare su progetti alternativi.
Un buon giornalismo che si voglia interessare al teatro e a Roma avrebbe potuto raccontare tutto questo. Invece si è preferito puntare sulle poltrone, sulle congiure. E così elementi salutati all’inizio come innovazioni in gradi di far dialogare le generazioni, come la doppia direzione Corsetti-Corona, si trasformano di colpo in “poltronifici”; oppure la gestione complicata del Cda viene, non si sa bene per quale motivo, attribuita alla coppia di direttori artistici.
Il risultato, lo si vede da mesi, è un teatro immobilizzato, sempre più in difficoltà nel portare avanti il proprio progetto. La domanda, di fronte a tutto questo, dovrebbe essere: non si tratta, proprio in questo caso, di sperpero di denaro pubblico? Questo voler spingere il teatro verso l’ingovernabilità, come dice Martone, bloccando un progetto designato per un triennio per poterlo sostituire con chi più ci aggrada e ci rappresenta, non è il vero sperpero di risorse? Una direzione designata dovrebbe poter lavorare fino a compimento del proprio mandato; se il suo lavoro non ha convinto, la si può sempre sostituire. Qui invece assistiamo, a spese della cittadinanza, del pubblico e degli artisti, a una profezia autoverificantesi: prima si fa in modo che il teatro si ingolfi e dopo si grida all’incompetenza di chi è stato bloccato.