Liberare lo sguardo. Challengers di Luca Guadagnino

di Marco Arienti

Riusciamo ancora a provare piacere nel guardare, dentro alla tempesta di immagini in cui ci muoviamo ogni giorno? Nello scrolling infinito ma senza sorprese dei feed di social e dating app, e con il cinema e la televisione costretti a negoziare la propria sopravvivenza con le esigenze di audience e botteghino, non è poi così frequente trovare visioni che ci facciano sgranare gli occhi, spalancare la bocca e ansimare, o quantomeno farci mettere dritti sulla poltrona. Un’immagine che può scuoterci in questo modo non può essere d’altronde un’immagine qualunque: deve essere in primo luogo un’immagine coraggiosa, con un punto di vista eccentrico, che non trovi altra giustificazione se non in sé stesso.

A Luca Guadagnino non si può certo negare la devozione verso il cinema come dispositivo di sguardo ed espressione dell’atto e del desiderio di guardare, tanto in ciò che suoi film fanno effettivamente vedere – l’indugiare estatico su volti, ambienti e dettagli, i movimenti fluidi della macchina da presa – quanto in ciò che nascondono alla vista, rimarcandone l’importanza – le ellissi e i fuoricampo. Stavolta, con il suo ultimo Challengers, Guadagnino decide di sottoporre lo sguardo a un’autentica terapia d’urto, che ne saggia i limiti e ne amplia le possibilità attraverso un uso della macchina-cinema come protesi di esplorazione visiva. Lo fa con un film ambientato nel mondo del tennis, sport geometrico e dettagliatamente codificato ma anche vario e sorprendente, elegante a guardarsi ma durissimo sia negli sforzi individualmente richiesti agli atleti, sia nelle dinamiche invisibili del confronto tra gli sfidanti ai lati opposti della rete. A Guadagnino però, come già hanno fatto notare in molti, il tennis interessa specialmente come dispositivo di incasellamento e direzione dello sguardo, nel continuo rimpallo tra i due challengers all’interno del modulo del campo da gioco.

Entro i confini del campo, lo scontro è fatto di micro-eventi fisici e mentali, dislocati nel tempo (il bagaglio del passato, richiamato nei continui flashback del film) e nello spazio, di mosse di allontanamento e di avvicinamento reciproci. Dare visibilità a tutto questo comporta cercare di liberare lo sguardo sia dalle costrizioni fisiologiche sia dall’inerzia degli automatismi, dalla prevedibilità e dall’unilateralità di prospettive già (auto)assegnate. Per raggiungere questo obiettivo – l’esplosione dello sguardo in mille frammenti – è necessario moltiplicare i punti di vista, materialmente possibili o impossibili che siano; muoversi in maniere inaspettate, scartare lungo assi visivi inconsueti, o semplicemente restare immobili in contemplazione; azzardare, sconfinare, commettere fallo (quante volte nel film i protagonisti vengono richiamati dal giudice di gara). Per questo, nei 130 minuti della sua partita registica, Guadagnino non esita a rischiare e a ricorrere a tutti i mezzi cinematografici a sua disposizione, a costo di sembrare eccessivo: ed ecco le alterazioni di velocità (ralenti e accelerazioni), la simmetria dei tagli di montaggio, il girovagare della macchina da presa, le riprese da sopra e da sotto (!) il campo da tennis, la soggettiva della pallina (parente di quella che enrico ghezzi definì in un suo articolo “soggettiva di un non-soggetto”). Ma non solo, perchè il cinema permette uno sguardo iper-sensoriale, arricchito di stimoli eterogenei. Ricordandosi che i film (ma pure il tennis e la realtà stessa) sono fatti anche di suoni, Guadagnino sceglie quindi di condire le sue immagini con i beat martellanti dell’elettronica di Trent Reznor e Atticus Ross, che costruiscono la sonorità del match in consonanza con gli scatti dei giocatori, i tonfi ritmici della pallina contro le racchette e il susseguirsi delle inquadrature.

La liberazione dello sguardo permette di ritrovare il piacere puro e semplice di guardare, che qui è innanzitutto piacere di guardare i propri interpreti, come pure in tutta la filmografia di Guadagnino, dichiaratosi più volte adepto della massima bertolucciana per cui girare un film è anche, sempre, girare un documentario sugli attori.

In Challengers, che segue le relazioni tra tre sportivi dalle carriere in declino (Art, il personaggio di Mike Faist), mai davvero partite (Patrick, quello di Josh O’Connor), o interrotte bruscamente da un infortunio (la Tashi Duncan di Zendaya), a essere centrali sono ovviamente i corpi dei protagonisti, scrutati dai close-up e dalle inquadrature dal basso verso l’alto che sono ormai la firma del regista. Eppure, nonostante il contesto atletico, si tratta di corpi solo apparentemente potenti e in realtà in difficoltà, contratti, affaticati e chiusi in sé stessi: a cominciare da quello di Art, scolpito da diete e allenamenti ma stanco e ormai per lui insostenibile, contro quello di Patrick, più sciolto e ammorbidito dalle sconfitte e dalle notti in macchina, e però ancora affamato. Ma c’è anche, e forse soprattutto, il corpo di Tashi, seduta sugli spalti come una sfinge, con lo sguardo nascosto dagli occhiali da sole e la testa immobile, mentre il resto del pubblico non fa che voltarsi a destra e a sinistra a seguire gli scambi tra i due giocatori. Un corpo un tempo aggressivamente dinamico, e ora invece irrigidito da un dolore fisico che negli anni si è calcificato, rappreso nel gelo di un’ambizione e una passione mai realizzate.

Attraverso il proprio sguardo di regista, Guadagnino si assume il compito, anche qui, di liberare tutti questi corpi, e di restituire loro l’energia perduta che un tempo li animava. Guardare, d’altronde, è già di per sé un’azione sovraccarica di desiderio, che trova in quel che viene guardato dimensioni e dettagli che questo nemmeno era consapevole di avere, come testimonia la capacità di Patrick di cogliere nel servizio di Art quel piccolo gesto di cui lui stesso non si era reso conto. Anche essere guardati, però, non è qualcosa che lascia il soggetto in una posizione di passività, ma gli dona una nuova agency.

Così, sarà proprio la ripetizione di quel gesto-messaggio in codice ad accendere nei due ragazzi la miccia di uno scambio finale (tennistico, erotico) che, nel vorticare delle riprese, fa coincidere il piacere di guardare con il piacere di giocare (si ricordi Deserto rosso di Antonioni: “tu dici ‘che cosa devo guardare’, io dico ‘come devo vivere’, è la stessa cosa”); e allora finalmente persino Tashi muove la testa sugli spalti, catturata dalla tensione del palleggio, urla e ritrova il piacere di uno sguardo venato di autentico godimento, come quello che aveva la prima sera con i suoi “little white boys” nella camera d’albergo. Liberare lo sguardo, sembra dire Guadagnino nelle ultime inquadrature del film, comporta sempre sconfinare, gettarsi oltre la linea che ci separa dall’altro e lasciarsene sopraffare. L’importante non è vincere o perdere, dominare o sottomettersi, ma darsi completamente, senza nessun controllo o risparmio di sé, al movimento di una relazione. Fosse anche solo per “quei quindici minuti in cui si è giocato veramente a tennis”.

 

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