L’orrore come rappresentazione del quotidiano nel romanzo moderno

di Sergio Mancuso

E ho paura. La sento soprattutto ogni volta che sei lontano da me. Ma ho avuto paura molto prima di averti e, in questo non sono stato affatto originale. Alla tua età le persone che conoscevo erano tutte di colore e tutte avevano genuinamente, candidamente ed enormemente paura. Ho visto il terrore per tutta la mia giovane vita, anche se non sempre l’ho riconosciuto. (Ta- Neshi Coates, p. 22)[1]

L’orrore è entrato prepotentemente nelle nostre vite negli ultimi anni, e nonostante l’orrore sia un archetipo, gli uomini tendono a non fronteggiare le loro paure e le rifuggono quando possibile. Le paure del genere umano hanno al contempo un’attrattiva speciale per alcuni e sono sempre state fonte di ispirazione per gli artisti che ne hanno subito il fascino e le hanno utilizzate come filtro per rappresentare il reale, per trasformare e riscrivere quelli che sono i timori latenti del genere umano. L’attrazione per la dualità Eros/Thánathos è un po’ repulsione un po’ sublimazione delle paure; la troviamo ne Il Vampiro di Polidori e nei suoi epigoni, nel Dracula di Bram Stoker e in Anne Rice, nel Frankenstein di Mary Shelley, fino ad arrivare a opere come Watchmen, dove il fumettista Alan Moore decostruisce i supereroi e dà sfogo alle paure della Guerra Fredda arrivando a personificare il terrore di un possibile olocausto nucleare attraverso il personaggio del dottor Manhattan. In particolar modo, un utilizzo sapiente dell’orrore è possibile rintracciarlo nei romanzi di Stephen King dove il quotidiano tinteggiato con l’horror narra gli interstizi più oscuri della psiche umana senza censure. Nella mente del narratore/artista l’orrore possiede sempre la funzione ben specifica e chiara di raccontare la realtà. L’orrore alberga anche lì dove a una prima occhiata non ci si aspetterebbe e l’utilizzo dell’archetipo della paura all’interno della narrativa moderna non di genere avviene in maniera prepotente nel romanzo Amatissima.

Toni Morrison, studiosa delle parole e del linguaggio, ha compiuto una radicale riscrittura del sé attraverso i propri romanzi, con l’uso sapiente di stili e ritmi di scrittura, di parole cesellate appositamente per incastonarsi alla perfezione nell’anima del lettore. L’autrice non a caso dichiarava nel suo discorso per il Nobel che “la parola è sempre una scelta politica” e nel suo romanzo più conosciuto, Amatissima, compie una scelta politica nel più nobile dei significati: la scelta di prendere posizione, e senza imporre un distanziamento culturale, si mette metaforicamente a nudo. Riscrive sé stessa riscrivendo le origini degli afroamericani, poiché questa è la propria storia, un succedersi di eventi e condizioni che l’hanno portata a essere quel che è, che l’hanno plasmata, hanno dato vita potenziale alle molteplici ondulazioni del tempo che hanno portato a Lei. L’autrice si immerge in una storia potente narrando il proprio passato, il passato della sua gente, un tempo non così distante e che serve a sostanziare e capire il presente.

Con Amatissima Toni Morrison compie un gesto prettamente politico e inclusivo poiché scrive un romanzo potente e universale che non esclude, non riversa rabbia o odio, ma con la calma olimpica di una donna che prende posizione, ci immerge nell’orrore della vita quotidiana dei neri d’America di primo Novecento. E l’orrore, che è uno dei primi punti di vista del romanzo, al lettore questo libro si presenta con i canoni riconoscibili del genere horror: una casa infestata da un fantasma, da un senso di colpa e di vita agonica costante che ha scacciato gran parte degli abitanti; una madre e una figlia relegate in una condizione di insalubre interdipendenza reciproca, dalla casa e da un isolamento volontario e forzato rispetto alla comunità; la perdita di identità legata a un Maestro, un genio machiavellico e turpe; e infine la corporea incarnazione dello spirito infestante che fattosi carne si nutre di attenzioni con fame insaziabile, e in un rapporto biunivoco mentre diventa più forte, atterrisce e sottrae forza vitale alla sua vittima. Eppure, in questo caso il fantastico dell’orrore radicato è il mezzo giusto per raccontare la storia, un modo di rendere materiale l’impalpabile agonia, la paura penetrante, la sofferenza e quel sentimento di profonda angoscia, abiezione e inospitalità che albergano in una casa dove non si vive, ma si cerca disperatamente di sopravvivere. In questa occorrenza, l’orrore non è lo strumento dell’armamentario di una storia pulp, ma una metodologia specifica e specializzata usata per narrare le emozioni e i sentimenti degli esseri umani, la solitudine, la loro perdizione e forse la loro possibilità di salvezza.

In una casa ai confini di Cincinnati, al 124 di Bluestone Road, vivono ormai da sole Sethe e sua figlia Denver. I figli maggiori di Sethe, Howard e Buglar, sono andati via non ancora adolescenti per sfuggire al fantasma che infesta la casa, e la vecchia suocera si è lasciata morire. Per le due donne, madre e bambina, è impossibile cercare di ricostruirsi una vita, isolate come sono dalla comunità e con una presenza che infesta la loro casa e al contempo le loro vite. All’arrivo di Paul D, che condivide con Sethe un passato di schiavo alla piantagione Sweet Home e la fuga dalla stessa, si scoprirà che il fantasma che infesta la vita di Sethe e Denver è ben più di una semplice presenza, è una colpa, un pesante macigno, un dolore incolmabile, è l’ultima figlia di Sethe che la donna aveva ucciso pur di non relegarla a una vita in schiavitù. Le catene della colpa stringono i polsi della donna afroamericana e sono rese estremamente reali per via della presenza ben avvertibile all’interno della casa che giungerà perfino, in un momento solenne che richiama il sacramento del battesimo, a rinascere dall’acqua materialmente, per sovvertire, inquinare e possedere la vita di Sethe in maniera completa. A fronte di questo breve accenno di trama è ben visibile come la scelta di un tema horror non squalifica – se mai l’horror possa farlo – ma esalta la storia, incidendo con unghie e zanne l’anima del lettore in un modo che un libro metaforico non arriverebbe a fare, e soprattutto fin da subito trasmette al lettore qualcosa di estremamente significativo: la vicenda di Sethe, Beloved, Paul D, Denver e di tutti gli afroamericani non è una storia metaforica, non ha nulla di irreale, è pura verità.

In Amatissima l’orrore e il soprannaturale costituiscono un filtro attraverso il quale vedere il mondo, un’allegoria che congiunge conscio e inconscio, e riesce a cogliere nel segno scendendo in profondità nell’animo umano attraverso la storia di Sethe e della sua famiglia, spingendosi in luoghi ben più profondi di come potrebbe fare uno scorcio meramente divulgativo. Ciò dimostra che la paura è un mezzo potente, una delle emozioni più ancestrali che abbiamo imparato a conoscere, e Amatissima, con l’uso intenzionale della paura, ci narra di come l’orrore che disfa la realtà, che sfalda il mondo di chi vi è avviluppato, è sempre presente nella vita degli afroamericani e di come esso possa, con subitanea repentinità, distruggere tutto il raziocinio di una donna e spingerla verso gesti estremi. Attraverso il congegno dell’horror, Toni Morrison vuole rendere il suo lettore conscio di tutto questo, portandolo a sollevare il velo senza rendersene conto. Con questa scelta narrativa, Morrison non cerca di istruirci lungo il cammino. La sua scrittura non ha nulla di pedante o pedagogico, vuole piuttosto, con la forza della narrativa, immergerci nei sentimenti, in un’atmosfera, così che si possa comprendere, così che sia chiaro a tutti. È infatti dalla cronaca che Toni Morrison prende spunto per scrivere il suo romanzo premio Nobel. Durante il lavoro documentale per l’antologia The Black Book, si era imbattuta in un articolo del 1855 in cui si raccontava di Margaret Garner, schiava fuggiasca del Kentucky, che aveva cercato di raggiungere lo stato libero dell’Ohio. Una volta resasi conto che sarebbe stata presto catturata e ricondotta in schiavitù, decise di fare un gesto estremo e di uccidere la propria figlia infante pur di non farle vivere il dramma della cattività. Continuando la sua ricerca su questa storia sconvolgente, Morrison scopre che ad assistere all’omicidio vi era anche la vecchia suocera che diceva di non aver potuto né incoraggiare né scoraggiare la nuora, poiché in simili circostanze avrebbe probabilmente reagito allo stesso modo.[2]

Gli aspetti dell’articolo che attirarono la mia attenzione furono due: l’incapacità della suocera di condannare o approvare l’infanticidio, e la serenità di Margaret Garner. Come sanno alcuni dei miei lettori, la storia di Margaret Garner fu la genesi del mio romanzo Amatissima (Morrison, p. 86)[3]

Ecco perché è importante che vi sia il sovrannaturale: l’orrore non è irreale, non per le migliaia di potenziali protagonisti di questa vicenda di vita quotidiana. L’orrore è una scelta consapevole e per Morrison rappresenta un artificio narrativo non repulsivo che aiuta il lettore a non estraniarsi dalla vicenda e ne rende impattante il significato.

È l’orrore di una casa stregata, dove ogni cosa è ostile, e dove il grande rimpianto di non aver potuto proteggere una figlia fin troppo amata alleggia non come un fantasma della mente, sussurrato e mai accennato, ma come una vera e propria presenza spettrale con la quale Sethe e la sua famiglia devono fare i conti ogni giorno; è l’orrore è ritrovarsi rinchiusi in una casa dove ogni cosa riecheggia degli avvenimenti passati, degli errori, delle delusioni, dove le speranze sono fiori appassiti sul davanzale e le promesse di una vita migliore sono tutte state infrante. Non si tratta di una condizione così inusuale durante l’epoca in cui si svolge la storia, nella seconda metà del 1800, e Toni Morrison cerca di farci entrare in quel mondo nella maniera più diretta possibile, di farci entrare in empatia con la storia non attraverso circonvoluzioni stilistiche, ma con una scrittura chiara e limpida che mette in primo piano, ancora una volta occorre ribadirlo, l’orrore come manifestazione reale della vita, come un mero dato di fatto ambientale.

Beloved, il rimpianto per la sua scomparsa avvenuta tragicamente, è la personificazione dell’orrore nella casa che Sethe condivide con Denver, e non è solo senso di colpa è qualcosa di più pastoso che coabitava e continua a coabitare con la vita dei neri americani oggi. È l’orrore impersonato da Beloved che spinge i figli maschi di Sethe ad abbandonare la casa non appena raggiunta l’età preadolescenziale; Morrison dà in questo modo contezza di un costume niente affatto estraneo dell’epoca e che mantiene alcune vestigia anche oggi: i giovani maschi afroamericani sono portati a lasciare la casa materna alla ricerca di una vita migliore. In chiave tutta femminile è lo stesso percorso che intraprende la protagonista del romanzo I loro occhi guardavano Dio di Zora Neale Hurston. Hurston, esponente della Harlem Renaissance, antropologa e scrittrice, nel suo romanzo descrive la vita della giovane afroamericana Janie che, costretta a sposare un fattore molto più vecchio di lei e ingabbiata in un rapporto unidirezionale, decide di fuggire con l’affascinante Joe Stark per sottrarsi a una vita infelice, compiendo una scelta di pura volontà di autodeterminazione.

Sarà Beloved, fattasi carne e ossa, ad allontanare Paul D. un uomo duro e roccioso, che ha affrontato mille peripezie e orrori, ma che non riesce a sopportare il gesto tremendo di amore che Sethe ha compiuto. L’orrore durante la storia si fa carne, sangue e ossa quando Beloved ritorna, ritorna per poter avere e impossessarsi delle ore e dei minuti di Sethe. Anche questo è un perfetto esempio di come l’orrore rappresentato dal genere horror, dove un fantasma si fa corporeo per meglio possedere la vita della sua vittima, viene traslato in un messaggio potentissimo: davanti agli occhi vediamo Sethe, fino ad allora forte e indomabile pur con mille cicatrici, soccombere, perdere il lavoro e, schiacciata da una famelica richiesta di attenzioni da parte di una bramosa Beloved, trascurare se stessa e la figlia Denver. La presenza di Beloved come spirito infestante prima e come personaggio in carne e ossa poi, è uno stereotipo del genere che qui intercorre per spiegare qualcosa di presente nella comunità afroamericana, ossia il talkative ancestor, ovvero la presenza avvertita come reale degli antenati, una memoria loquace non visibile ma perfettamente udibile[4]; un aspetto peculiare della cultura afroamericana che usa il concetto di memoria parlante come valore culturale, fonte di esempio comportamentale, monito e molto altro. È un concetto socioculturale che fornisce motivazioni ed estetiche di vita in cui gli antenati sono avvertiti come realmente presenti. In questa maniera l’orrore diventa didattico, spiega a tutti coloro che non appartengono alla comunità afroamericana cosa è e quanto può essere reale questo potente archetipo.

Il personaggio della figlia non più in vita, il cui spirito si impossessa della casa al numero 124 di Bluestone Road, nel romanzo Beloved di Toni Morrison, ne è l’esempio più lampante. La voce priva della presenza fisica della sua sorgente è, naturalmente, associata alla presenza viva sebbene visibile degli ancestor (Chiriacò, p. 22)[5]

In questo romanzo esistono molti tipi di orrore e quello rappresentato dal personaggio del Maestro è pervicace: è l’essere umano che disumanizza gli afroamericani della fattoria, che fa prendere coscienza a Paul D, ai suoi fratelli e agli altri uomini della tenuta, che il comportamento benevolo del precedente proprietario non li qualificava come uomini e che la sua benevola accondiscendenza non era niente più di quello che un padrone manchevole riserverebbe a un cane. In virtù di un potere auto acquisito un uomo bianco poteva in qualsiasi momento eliminare qualsiasi pretesa di autodeterminazione.

Paul D sente gli uomini parlare e per la prima volta viene a sapere il proprio prezzo. Ha sempre saputo, o credeva di sapere, il suo valore – in quanto bracciante, un lavoratore che tornava utile a una fattoria, ma ora scopre il suo valore, ovvero viene a sapere il suo prezzo. Il valore in dollari del suo peso, della sua forza, del suo cuore, del suo cervello, del suo pene e del suo futuro (Morrison. p 271)[6]

In questo caso è bene notare che non sono le percosse, non è l’imposizione fisica a distruggere gli uomini della fattoria, compreso il marito di Sethe, ma la disumanizzazione. Gli uomini divengono oggetti, cavie da studiare in un laboratorio. Sethe riesce a superare la violenza subita, atto che invece farà perdere il senno al marito, e ci riesce unicamente in virtù dell’amore e del senso di responsabilità che prova verso i figli; in questo la narrazione di Toni Morrison è una narrazione al femminile che cerca di darci contezza della condizione della vita di una donna in epoca, eppure non è una narrazione tutta al femminile, gli uomini sono presenti e contribuiscono a creare un sistema di rappresentazione del reale completo.

Questo è confermato dalle stesse parole di Toni Morrison “Io non ho mai voluto scrivere un libro in cui c’erano solo maschi periferici che non contavano niente […] E Naturalmente Denver, in quella casa blindata; ma la nonna le parla del padre, e lei aspetta che lui venga a prenderla. Questo le dà quel tanto di indipendenza che le permette di uscirne”[7]

Basta pensare infatti al personaggio di Denver e alle sue fantasie in cui il padre è reale, una presenza immaginaria che l’accompagna durante la crescita; ed è in questo rapporto di assenza/presenza che si sviluppa anche la figura paterna e rende Amatissima una maternal narrative molto più stratificata di quando inizialmente si possa pensare: esiste di certo un rapporto madre-figlia che esclude il mondo, ma che si incastona in un testo che rispecchia in maniera omni-comprensiva tutto il mondo americano (un’opera-mondo) e per questo, sebbene il nucleo centrale del romanzo sia femminile e nero e sia incentrato sulla maternità e sulla schiavitù, esiste un intreccio figlia-padre importante, rappresentato dalla ricerca di Denver di una costruzione narrativa che sia propria, di un’indipendenza cercata a tentoni in un rapporto esclusivo, chiuso e a tratti malsano, fondato sul contatto fisico, sulla prossimità e l’oralità. Il rapporto con il padre è immaginato, una scelta culturale, come la definisce Portelli, che rende a Denver il proprio spessore, è il primo esempio di una volontà che non si annichilisce[8].

Sarà Denver a prendere in mano la vicenda nel momento di estrema disperazione dando prova di quella volontà addormentata ma mai sopita del tutto che già nelle prime pagine del libro possiamo scorgere. Uscirà dalla cappa di orrore e disperazione rappresentata dalla casa di Bluestone e sfuggirà alle grinfie della corporea rappresentazione del peccato di Sethe, Beloved, chiedendo aiuto alla comunità dalla quale si erano ritirate. In forza del suo spirito non chiederà aiuto gratuito, ma comincerà a lavorare, a guadagnarsi il rispetto delle persone all’interno della comunità. È iconico il momento in cui prende coscienza del suo posto nel mondo: la sua emancipazione arriva attraverso la parola scritta, Denver riprende quell’istruzione interrotta imparando a leggere i nomi scribacchiati dei membri della comunità che decidono di aiutarle, e così ella ritorna a far parte di una comunità, non più anima sola e isolata ma collegata a un insieme; e sarà proprio l’insieme che potrà, attraverso il canto, scacciare il fantasma di Beloved. Il tema del canto rituale che salvifica e scaccia il male al termine del romanzo non è casuale ma una vera e propria volontà di Morrison: una scrittrice moderna, attenta alle questioni civico politiche, che utilizza regole, ritmi e topoi del Blues come struttura di espressione formale della propria opera.

Senza svelarlo apertamente, in puro stile blues, utilizza la forma del call end responde per una delle conversazioni più iconiche tra Denver e Beloved, dove questa viene riconosciuta, per prima tra tutti da Denver e dove viene esplicitato il nucleo centrale della rediviva fanciulla ovvero possedere Sethe, dominarla incondizionatamente. Altro elemento determinante che ci ricollega all’importanza della vocalità all’interno del panorama afroamericano e che in questo romanzo dell’orrore Morrison inserisce a pieno è il canto: Paul D e i suoi compagni alla Dolce Casa cantano e tengono il ritmo del lavoro con le work songs; Sixo uno dei compagni di fatica, canta il suo odio durante l’esecuzione. “Aveva capito il suono: un odio così sfrenato da sembrare un vero e proprio “juba” (Morrison, p. 272) La scrittrice ci porta all’interno delle slave songs della Casa e poi nel cuore delle canzoni da prigioniero di Paul D.

cantavano a squarciagola e pestavano con forza, troncando le parole in modo da renderle incomprensibili, giocando con le parole in modo da produrre nuovi significati con le loro sillabe. Cantavano le donne che conoscevano, i bambini che loro stessi erano un tempo […] Cantavano i capi, i padroni e le padrone, i muli, i cani e l’impudenza della vita. Cantavano con sentimento i cimiteri […] O il cinghiale nei boschi, il pranzo nella pentola, il pesce sulla canna […] Uccidevano i capi talmente tanto spesso e talmente tanto bene che poi erano obbligati a riportarli in vita per poterli ridurre in poltiglia un’altra volta. […] Cantando delle canzoni d’amore alla signora Morte, le fracassavano la testa. Più che altro, uccidevano quella infatuazione che la gente chiamava Vita. (Morrison, 136-137)

In questo paragrafo orrendamente stupendo, Morrison mette in luce ciò che i critici di letteratura Blues come Houston Baker e Henry Louis Gates Jr., hanno colto all’interno delle teorie sviluppatesi come approccio postmoderno alla critica letteraria di genere, ponendo il blues come un discorso codificato impenetrabile per i bianchi: si tratta di un tipo di discorso duplice, usato nei testi degli afroamericani e sviluppato per sopravvivere allo stato di sottoproletariato. Risulta straordinario anche uno dei passaggi iniziali del romanzo quando in un piccolo ma importante paragrafo, Toni Morrison ci dice che Paul D, figura chiave della storia, non conosce le parole per esprimere quel che ha vissuto ma sapeva, e poteva cantarlo.

L’utilizzo del blues in Morrison non è semplice elemento di folklore, ma un vero e proprio sapiente utilizzo delle istanze culturali di un popolo: il blues in effetti è sempre stata letteratura di catarsi, non nasconde le pene, ma le allevia mettendole in musica e in mostra, giocandoci. Come elemento fondativo della vita afroamericana, narrando una storia come questa, non poteva mancare il blues; e ancor di più se partiamo dall’assunto descritto poc’anzi riguardo la catarsi benefica, il blues si incastona perfettamente all’interno di un romanzo con gli elementi tipici dell’orrore, ma come àncora di salvezza, certamente. Per capire ciò bisogna tralasciare tutte le banalità trasmesse sulla sua presunta natura malvagia, e indagare soprattutto quanto emerge dagli studi che mettono in luce l’importanza del signifyng, ovvero la doppiezza di significato che nascondono le strofe, doppiezza che anche Morrison esplica all’interno di Amatissima quando i personaggi cantano. In epoca puritana la musica del diavolo era tutta quella musica che non afferiva alla sfera sacra; in epoca recente questo discrimine è nato da interpretazioni sbagliate di lyrics dal testo altamente codificato con la figura di Robert Johnson quale principe delle tenebre. Tuttavia, questa teoria si può smentire analizzando alcune semplici strofe di due delle canzoni più controverse di Johnson Hellhound on my trail:

I got to keep moving, I’ve got to keep moving blues falling down like hail, blues falling down like hail

uhmmm-mmm, blues falling down like hail, blues falling down like hail

And the days keeps on worrying me, it’s a hellhound on my trail, hellhound on my trail, hellhound on my trail

In queste strofe più che di cani infernali Robert Johnson parla della necessità di muoversi, spostarsi in continuazione tipica dei bluesman, e i cani infernali sono riconducibili alle squadre di segugi usati nella ricerca degli schiavi fuggiaschi e fanno riferimento a un’atavica paura, non a un qualche patto diabolico, come riferisce anche Johnny Shines, uno dei bluesman che più fu amico e compagno di Johnson[9]. In Crossroads Blues dove nacque la celebre leggenda della cessione dell’anima al diavolo, Johnson canta:

I went to the crossroads, fell down on my knees

Asked the Lord above, have a mercy, save poor Bob if you please

Di diabolico nell’invocazione del bluesman sembra esserci ben poco, anzi, egli chiede un’intercessione dall’alto. Continuando nell’ascolto, anche quando cala la notte sul crocicchio non vi è nulla di diabolico:

mmm, the sun going down, boys, dark gon’ catch me here

Oooo ooe eeee, boy, dark gon’ catch me here

I haven’t got no loving sweet woman that loved and feeled my care

In questa strofa del brano è evidente la paura di rimanere al buio, ma è una paura molto umana che qui viene intesa anche come paura di essere invisibili e soli, inoltre essa fa il paio con il verso “to ride” espresso in una strofa precedente la cui eccezione, seppure velata, è molto più carnale e prosaica. Sethe, per tornare al lavoro di Toni Morrison, è un personaggio intenso così come lo è Paul D, ma il protagonista di Amatissima è la Storia, tramandata attraverso il particolare, raccontata attraverso le vicende di vita personale. Morrison, con grande maestria, condensa in un’abbacinante istantanea la vita di una donna nera, come Philip Roth in Nemesi riassume in Bucky Cantor l’orrore e l’impatto della poliomielite nella sua generazione.

E così, avviene che la narrazione della realtà assume diverse sfaccettature e l’orrore diventa sempre più una realtà da cui è impossibile sfuggire.

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[1] Ta-Nehisi Coates, Tra me e il mondo, Codice Edizioni, Torino 2016.

[2] Per un maggior approfondimento si rimanda alle pp. 84-87 di Toni Morrison, L’origine degli altri, Frassinelli, Torino 2018

[3] Ibid.

[4] F.J. Griffin, Who Set You Flowin’? The African-American Migration Narrative, Oxford University Press, Oxford-New York 1995

[5] Gianpaolo Chiriacò, Voci nere. Storia e antropologia del canto afroamericano, Mimesis Edizioni, Milano 2018.

[6] Toni Morrison, Amatissima, Frassinelli

[7] Toni Morrison, intervista a cura di A. Portelli; B. Cartosio, Milano 1994.

[8] Alessandro Portelli, Scrittura e Assenza in Beloved di Toni Morrison in Canoni Americani, Donzelli Editore, Roma 2004.

[9] Pearson, McCullogh, Robert Johnson Lost and Found, University of Illinois Press, 2003.

 

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