Movida, decoro, sicurezza urbana: il bisogno di ripoliticizzare la questione a partire da Roma

di Christian Raimo

Di cosa parliamo quando parliamo di movida

A Roma ma non solo a Roma si parla spesso di movida, di malamovida, di movida selvaggia. Su Google per la movida romana ci sono dieci milioni di risultati: consigli su dove andare a bere, articoli sui trend della vita notturna, proteste dei cittadini esasperati dalle strade vicino ai locali affollate. Movida è diventato un termine di uso comune, e soprattutto è una delle parole chiave per il dibattito politico romano, che gira sempre di più intorno alla questione del decoro e del degrado e quindi anche al tema della movida.

Di fronte a questa invasione di discorso pubblico di ogni tipo sulla movida, il dibattito scientifico è praticamente nullo. E quest’assenza pesa molto  sul piano dell’analisi sociale del fenomeno, della sua comprensione ovviamente, ma soprattutto sull’impatto che quest’assenza ha nella riflessione e nella decisione politica.

L’origine del termine movida va collocata alla fine degli anni settanta in Spagna, quando la dittatura franchista finisce e le strade, per prime quelle dei quartieri popolari di Madrid, si riempiono di gente. La movida è un movimento sociale, culturale e artistico: viene fuori da un contesto libertario e socialista ed è una risposta alla respressione dell’immaginazione, alla cappa clericale del regime franchista.

Se uno dovesse trovare dei paragoni nell’immaginario e nella storia politica italiana, potrebbe pensare a quello che è successo a Bologna nel 1977, a Roma con l’Estate romana di Renato Nicolini, e in generale a quella stagione tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta in cui esplose il punk, la cultura queer, la new wave, il femminismo, la musica elettronica, il teatro sperimentale, cinema d’avanguardia, con tutte le contraddizioni che una fase di passaggio, tra la fine dei gloriosi trenta e l’inizio degli ormai quaranta del neoliberismo comporta.

Per chi vuole approfondire, ed è una storia molto coinvolgente, si può leggere un buon articolo introduttivo del Post.

L’inizio della Movida madrileña viene fatto coincidere con il concerto per José Enrique Cano Leal, il batterista del gruppo Tos morto nel 1979 in un incidente automobilistico. Il concerto si tenne al Politecnico di Madrid il 9 febbraio del 1980 e venne trasmesso in radio: fu un momento storico per la città e per la musica spagnola. Le radio e i giornalisti musicali cominciarono a occuparsi di gruppi indipendenti fino ad allora poco noti, che iniziarono a loro volta ad incontrarsi e a suonare insieme (fu leggendario il concerto di primavera nel maggio del 1981 che riunì oltre 15 mila persone e che durò per circa otto ore). Vennero fondate case discografiche indipendenti e intorno alla musica iniziò a svilupparsi, spontaneamente, un movimento sociale e artistico di controcultura più largo che contagiò anche altre città e che fu sostenuto politicamente da alcuni sindaci di sinistra, che volevano lasciarsi alle spalle gli anni del franchismo.

Del concerto di primavera ci sono due parti, qui e qui, e soprattutto qui c’è un video emozionante con un Pedro Almodovar giovanissimo che canta nel gruppo Almodovar&MacNamara Satanasa.

Almodovar è diventato un regista famoso proprio raccontando quel tempo: i suoi primi film sono la trasposizione sullo schermo di una città e di un paese che stava rinascendo. La rassegna recente di Cielo del cinema di Almodovar viene introdotto da un contributo di Rossy De Palma che racconta il rapporto uno a uno tra le immagini di Pepi, Luci, Bom, e le altre ragazze del mucchio e la Madrid postfranchista degli anni ottanta: la movida per Pedro es vida, dice De Palma.

Ecco in una scena madre del film Bom, 14 anni, che insieme agli Alaska (i Bomitomi Grup nella finzione) intona Murcacia Murana.

La movida nasce così: come uno shock, liberatorio e antiautoritario, in cui la dimensione culturale e quella politica, la rivendicazione del piacere, l’invasione dello spazio pubblico si mescolano all’avanguardia artistica. Quale sia la prospettiva politica della movida – ossia quanto nel suo contrastare il franchismo, non abbia incoraggiato anche una suggestione per un’estetica postmoderna che è stata utilizzata poi anche dalle culture anni ottanta, del reaganismo, del thatcherismo, del craxismo della Milano da bere – non è una questione peregrina. Qui c’è un ottimo articolo di Duncan Wheeler You’ve Got to Fight for Your Right to Party? Spanish Punk Rockers and Democratic Values che sostiene come la movida madrilena sia stata più un fenomeno di importazione culturale che l’ingrossarsi di un’onda spagnola che dalla provincia proletaria arrivava in città (è la storia di Pedro Almodovar, ma dice Wheeler, è un’eccezione), e che ci vada letta più l’influenza di Andy Warhol e della New York controculturale, quella magnificata da Rick Moody in La più lucente corona d’angeli in cielo.

Come parlare di movida è diventato un modo per fare politiche securitarie e repressive

Di quest’idea di movida comunque nel discorso pubblico è rimasto poco. Se per Almodovar vida es movida, per chi ne parla oggi movida vuol dire essenzialmente disturbo della pubblica quiete: per provare a avvalorare meglio questa visione si sono coniate le espressioni malamovida e movida selvaggia che però ormai sono un sinonimo di movida, che ha assunto un’accezione puramente negativa. Il chiasso, il ruido, che ha un valore positivo per la movida antifranchista, che accende città spente e repressive, oggi è uno dei peggiori nemici di chi fa politica in città. Esasperazione, indignazione, e lotta al degrado sono i suoi slogan.

Dentro questa trasformazione del concetto di movida ci sono due fenomeni paralleli e che si rafforzano mutuamente: la riduzione della movida a consumo, la riduzione della percezione della movida a controllo. Il resto è contorno. Il risultato è una evidente crociata non tanto o non solo contro i giovani, ma contro la soggettivazione politica e l’espressione artistica.

Due studi del 2018 sono sintomatici di questa metamorfosi. Il primo è stato condotto dal sociologo Nicola Ferrigni, e commissionato dalla questura di Roma. Uno studio sulla movida commissionato dalla questura: sic. Nicola Ferrigni è stato scelto di fatto come interprete garante per il protocollo d’intesa che si rinnova da quattro anni per il controllo sulla movida dei locali, a partire da quelli dell’Eur, come la Bibliotechina, Room 26, San Salvador, Exè, Spazio Novecento, Fiesta, Bibliotechina, Le Terrazze e Love Park.

Ferrigni

Nicola Ferrigni, che lavora come professore associato alla Link Campus, da sempre collaboratore della questura – anche nelle ricerche sul tifo – viene scelto non si sa con quale ratio. Come non si sa con quale ratio viene scelto un quadrante di locali che comprende dei locali supereleganti e fighetti, dove spesso si organizzano costosissime feste a pagamento da party aziendali a diciottesimi a party per ragazzini, ritrovo di una generazione iperborghese, molto danarosa, che si sarebbe detta figlia di papà, con malcelate o dichiarate simpatie di destra o di estrema destra.

Ferrigni accedita la sua ricerca e si accredita alle forze dell’ordine e alla città con tesi tutte da dimostrare, attraverso argomentazioni molto azzardate e comparazioni anche oscene che non avvalora in alcun modo:

La tragica morte di Desirée Mariottini ha riportato al centro del dibattito pubblico l’allarme sociale a taluni comportamenti devianti quali il consumo di alcol e droghe che, soprattutto tra i giovani, tendono a diffondersi a mo’ di “mode” e da cui non sono esclusi contesti come quello della Movida romana. Una vera e propria deriva per arginare la quale è necessario un processo di responsabilizzazione condivisa di tutti gli attori coinvolti nel circuito del divertimento. Di qui dunque un plauso alla Questura di Roma, che ha saputo intercettare questa emergenza e il cui Capo di Gabinetto di allora, il dott. Roberto Massucci, già nell’autunno scorso aveva promosso un protocollo d’intesa sulla Movida romana con i gestori dei principali locali dell’Eur.

La violenza sessuale e il massacro di Mariottini in un’area di speculazione edilizia a San Lorenzo viene presa disgraziatamente a pretesto per una panoramica di distopia di stigma e controllo sui giovani e attraverso una ricerca che ripete il quod erat demonstrandum come un assunto, come giustificazione del protocollo d’intesa letteralmente questurino dell’Eur.

Dunque: una ricerca fatta su un campione arbitrario, totalmente campata in aria per le premesse, tutta concentrata sulla questione alcol-devianza. Il risultato quale è? Convincere i proprietari dei locali a subappaltarsi una parte del controllo; da parte della questura serve essenzialmente esternalizzare anche ai proprietari dei locali il controllo e la sicurezza, aumentando telecamere e security e applicando regolamenti interni, magari con multe e divieti.

Dai dati che Ferrigni raccoglie si nota una disponibilità di soldi spropositata degli intervistati, ma su questo non ci si interroga; la condizione economica non è un parametro. Come non ci si interroga sulla possibilità di avere più spazio pubblico. La lente è tutta concentrata su percezione, sicurezza, pericolo, devianza.  Gli intervistati vengono chiamati in causa essenzialmente come clienti e come consumatori, e coinvolti in un’ideologia da società della sorveglianza in cui siamo un po’ tutti poliziotti.

Ora questo sedicente studio sarebbe stato interessante e credibile se fosse stato commissionato a un’università un po’ più autorevole della Link Campus, e davvero non ci vuole molto. Eppure: produce politiche pubbliche. Quattro anni di protocollo d’intesa. E una presentazione in pompa magna davanti a questore e prefetto di Roma.

La vaghezza sull’analisi del fenomeno produce stigma

Non è molto meglio un altro sedicente studio sempre del 2018 realizzato dal Cnr in collaborazione con l’Osservatorio permanente sui giovani e alcol. Si può scaricare qui. Svolto sotto la direzione della prof.ssa Cinzia Caporale, con il coordinamento scientifico della profesoressa Carla Collicelli e da un gruppo di lavoro composto di giovani ricercatori: Matteo Antonini, Andrea Di Leo, Ludovica Durst.

In questo caso il focus sono stati i quartieri San Lorenzo e Ponte Milvio, e lo studio è stato chiamato esplorativo. In realtà sostenere che sia esplorativo è un po’ eufemistico. Sono stati “interrogati” come dice lo studio 36 ragazzi, 18 a San Lorenzo e 18 a Ponte Milvio, scelti non si sa con quale criterio, più due rappresentanti di comitati di quartiere (anche qui, con quale criterio sono stati scelti i partecipanti?) più due esercenti: anche in questo caso di due locali molto costosi.

Gli istogrammi mostrano i risultati di una ricerca che sembra fatta con le telefonate di domenica mattina a due comitive:

I limitati dati raccolti e i criteri poco chiari sulla cui base è stato scelto il campione di persone da intervistare portano al quod erat demostrandum senza nemmeno troppi passaggi.

Il questionario dei problemi che viene somministrato è questo:

  1. Ti sembra che la presenza massiccia di giovani qui comporti dei problemi?
  2. Se si, che tipo di problemi?
  3. Il consumo di alcolici crea problemi, se si quali?
  4. Credi ci sia un problema di spaccio/consumo di droghe in questo 
 quartiere?
  5. Ci sono conflitti con i residenti, se si quali?
  6. Ci sono problemi con gli esercenti, se si quali?
  7. Cosa potrebbero fare gli esercenti per cercare di contenerli?
  8. Cosa potrebbero fare la polizia/i vigili a riguardo?
  9. Come potrebbero comportarsi i giovani per evitare problemi/situazioni di conflittualità?
  10. Cosa pensi delle ordinanze/provvedimenti che limitano/regolano il consumo di alcolici?


È al primo esame di sociologia che viene insegnato che la risposta non va suggerita nella domanda. A questo si aggiungono prolusioni sociologiche improntate al qualunquismo o all’opinione personale dei ricercatori:

La questione sul tavolo è che, conoscendo i giovani e la loro natura ribelle, la paura è che proibire in maniera troppo decisa possa indurre all’uso e all’abuso dell’alcol ancor più del dovuto. Quello che crea le maggiori controversie è che le varie norme italiane circa il consumo di stupefacenti non hanno mai riscontrato un effettivo calo dei consumi grazie al divieto, e questo timore si sta facendo sentire anche per quanto riguarda il mercato degli alcolici, soprattutto perché il provvedimento può essere benissimo aggirato mandando a ordinare nei locali un ragazzo maggiorenne, o acquistando direttamente al supermercato (risparmiando anche denaro) per poi abusarne sia fuori che a casa. Così facendo il fenomeno del binge drinking diventa molto più difficile da controllare. L’educazione è il punto fondamentale, bisogna far capire che l’alcol se assunto in grandi quantità crea dipendenza e danni pari a qualsiasi altra sostanza o farmaco. A riguardo, come già evidenziato, la cultura mediterranea, che prevede l’alcol nei pasti e nelle occasioni di convivialità, sembrerebbe mitigare il problema e ridurre i rischi.

L’aspetto interessante non è screditare uno studio che si scredita da sé, ma notare come anche in questo caso la cornice d’indagine sia la stessa: lecito/illecito, normalità/devianza, sano/patologico.

Da qui la necessità di cogliere i fattori di rischio che si annidano sia in contesti di accentuata precarizzazione dei giovani, di difficoltà a trovare un ruolo significativo nella società e di crescente isolamento, da cui il consolidarsi di subculture in qualche caso al limite della devianza, sia in fenomenologie e comportamenti di superamento del limite, di sperimentazione di nuovi vissuti e nuove forme di socialità, di comportamenti compulsivi, di trasgressione.

Il bisogno di ripoliticizzare il tema della movida

Qual è il vero tema? Che mancano letture politiche della questione movida, nonostante movida entri da protagonista in qualunque dibattito politico non solo sulla città. Per farlo occorre prima di tutto decostruire la storia ormai non breve dell’ideologia securitaria che ha colonizzato lo spazio del dibattito politico sulle città. Occorre studiare, discutere e scendere in piazza, consapevoli che questa linea di conflitto sarà sempre più importante.

Veniamo a studi più seri e più utili dunque. Uno è stato condotto da Enrico Gargiulo e Anna Avidano, e mette al centro della questione proprio l’intervento politico. Si può scaricare qui e s’intitola Il “governo” della movida a livello locale: una ricerca sulle ordinanze sindacali “anti-alcool” e “anti-vetro”. L’analisi viene fatta su 55 (!) ordinanze su 34 città, e racconta come viviamo nel pieno di una storia recente ma non breve appunto, la Stagione dell’emergenza continua, dal Pacchetto sicurezza di Maroni e le modifiche al potere di ordinanza, in cui non solo i poteri sulla pubblica sicurezza si allargano ma si amplia la legittimazione di quest’allargamento dei poteri. È del 2008 il decreto legge che modifica il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali e che introduce la nozione, ormai invalsa di “sicurezza urbana”.

Il sindaco, quale ufficiale del governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, provvedimenti anche contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana.

Nel 2011 la Corte costituzionale, ricordano Gargiulo e Avidano, scrive che la norma è illegittima. È una sentenza importante che i dieci anni dopo la crisi cercheranno di picconare pezzo a pezzo, riuscendoci prima de facto e poi, in molti casi, de iure.

Nell’aprile del 2011, tuttavia, la Corte costituzionale interviene dichiarando illegittima la norma del 2008. Secondo la Corte, i poteri attribuiti ai sindaci dal d.l. 92 sarebbero caratterizzati da una «portata essenzialmente normativa», data la possibilità che un amministratore locale «emani anche provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela di esigenze di incolumità pubblica e sicurezza urbana»; provvedimenti, come tali, a efficacia illimitata nel tempo. Le nuove ordinanze, dunque, tenderebbero a configurarsi come norme a carattere permanente, capaci di imporre «divieti od obblighi di tenere comportamenti significativi sul piano religioso o su quello delle tradizioni etniche», così da incidere indebitamente «su materie inerenti ai diritti e alle libertà fondamentali».

Già, la Corte prova a tamponare, ma il danno è fatto, non solo perché quella fonte normativa resta ed è il modello sulla quale vengono ricalcate tutte le ordinanze e i regolamenti urbani, ma perché riesce a confermare un pregiudizio in modo ideologico prima e attuativo poi.

Arriviamo al terribile decreto Minniti-Orlando, che fa un passaggio in più. Riesce a modulare la nozione di sicurezza urbana aggiungendo un altro pezzo di ideologia mancante: il decoro. La sicurezza urbana viene ridefinita “bene pubblico relativo alla vivibilità e al decoro delle città”. Questa nuova terminologia può ottenere lo stesso effetto di dare legittimazione all’arbitrio dell’ordine pubblico – chi è che giudica e decide qual è la vivibilità o il decoro? – ma evita di incappare nelle censure della corte costituzionale in cui era inciampata la Lega. Abbiamo trovato la leva! Per fare politiche di destra: securitarie, repressive, di controllo, ma abbiamo parole neutre, weasel words come si direbbe in sociolinguistica: parole adatte a essere plastiche a ogni tipo di uso soggettivo.

Non è chiaro? Per X può essere indecorosa una piazza piena di suv parcheggiati, per Y – come accade molto spesso – può essere indecorosa una piazza in cui ci sono degli stranieri che mangiano sulle panchine o dei senzatetto che dormono sotto un portico per ripararsi dalla pioggia. È come se i regolamenti condominiali più repressivi fossero diventati legge dello stato, e con i regolamenti i poteri d’intervento delle classi politiche e delle forze dell’ordine assurti a amministratori di condominio e portiero delle città.

Il risultato è evidente:

Al di là della sostenibilità giuridica e della tenuta costituzionale delle modifiche introdotte, la tendenza sembra piuttosto chiara: negli ultimi dieci anni, i margini di autonomia riconosciuti ai primi cittadini hanno teso ad allargarsi, seppur in maniera ambivalente e formalmente illegittima. Questo tipo di propensione è riscontrabile anche se si guarda all’operato quotidiano dei sindaci, con frequenza impegnati nell’emanazione di provvedimenti “creativi” e spesso escludenti, accomunati, nella loro enorme varietà, dal fatto di essere in aperto contrasto con la normativa statale vigente.  

È interessante come la legittimazione ideologica di questi provvedimenti coinvolge degli stakeholders – sempre meno nel tempo, quando il meccanismo diventa automatico e la norma può giustificarsi da sé, evidentemente – che sono anche qui arbitrariamente rappresentativi: autoproclamati comitati di quartiere, associazioni di residenti o di categoria. Mancano sempre altre forme di rappresentanza: le associazioni universitarie, i coordinamenti studenteschi, i sindacati, i movimenti per la casa, le associazioni di stranieri, etc… Chi decide è in genere maschio, over 50, benestante, residente, professionista, etc…

La trimurti delle politiche urbane: sicurezza, decoro, ordine pubblico

Lo scivolamento del concetto di sicurezza da una safety economica sociale alla sicurezza come controllo – la security – è la storia in cui la lotta di classe si è fatta nelle città, ed è stata vinta da una parte: chi ha rendita, chi vuole chiudere gli spazi pubblici, chi pensa che la città sia essenzialmente il luogo dei proprietari e dei consumatori.

Sicurezza, decoro, e ordine pubblico sono diventate la triade di una nuova egemonia ideologica che riesce a mettere insieme esponenti politici di sinistra e di destra. Il ruolo giocato da queste tre nozioni nel giustificare l’emanazione dei provvedimenti è assolutamente centrale. Gargiulo e Avidano riportano come quasi tutte le 55 misure considerate contengono riferimenti alla sicurezza; più dei due terzi parla di decoro (o di degrado); poco meno della metà rimanda all’ordine pubblico.

Le ordinanze fatte in nome di sicurezza, decoro e ordine pubblico delineano un’idea di mondo in cui il degrado, la minaccia, il pericolo, il rischio sono da contrastare attraverso un controllo sempre più pervasivo. Se non ronde, telecamere; se non ruspe, taser; se non sgomberi, diffide.

Le dimensioni della minaccia e del rischio non riguardano soltanto il concetto di sicurezza, ma interessano anche le altre due nozioni sopra richiamate. Un atto intenzionale che costituisce una minaccia per un passante rappresenta una turbativa dell’ordine pubblico, mentre l’abbandono di rifiuti in strada equivale a un attacco al decoro. Per questa ragione, l’attenzione alle tre categorie manifestata dagli estensori delle ordinanze può essere scomposta, sinteticamente, nella preoccupazione per due diversi aspetti della vita urbana: il “degrado urbano e l’insicurezza”, che coincide con quei fattori che minacciano la sicurezza individuale e l’ordine pubblico; la “vivibilità e la tutela delle persone”, che equivale all’assenza di elementi di rischio per l’incolumità personale e per l’estetica dei luoghi e degli spazi.

Il destinatario di queste misure, che diventa da un punto di vista ideologico l’avversario, è evidente dai riferimenti delle ordinanze che riguardano in diverse percentuali chi non risponde a una “norma urbana” implicita e esplicita, e con un progressivo accanimento nei confronti nei confronti di alcune categorie sociali.

 

Insieme alla triade, c’è un’altra nozione che le tiene insieme tutte e tre: quella di devianza. Che viene estrapolata dal contesto disciplinare della sociologia dove è un termine problematico, e riportato come se fosse un termine neutro nel discorso pubblico, dove diventa chiaramente un sinonimo di stigma e di patologia. Ma qui il discorso sarebbe lungo.

L’esito di queste ordinanze è presto detto. Scrivono Gargiulo e Avidano:

La “regolazione” effettuata dalle ordinanze, dunque, può essere propedeutica all’adozione di un vero e proprio strumento regolamentare. Il meccanismo che si innesca in questi casi è il seguente: i provvedimenti fungono da dispositivi in grado di istituire un frame legittimato a livello politico che, una volta affermatosi, restringe le possibilità di spostare il discorso pubblico al di fuori del quadro tracciato dall’amministrazione locale. Emanata l’ordinanza, in altre parole, il percorso verso il regolamento è in un certo senso già segnato: sono pensabili piccole variazioni, ma non stravolgimenti sostanziali. La vicenda di alcune città, tra cui Torino e Venezia, è emblematica al riguardo: provvedimenti ripetuti nel tempo hanno imposto gradualmente un certo modo di intendere la materia, fino a creare le premesse per la modifica del Regolamento di polizia urbana. Queste città, perciò, oltre a costituire un modello per altre realtà di piccole e medie dimensioni, hanno reso reale un modello di governo che, attraverso l’uso di strumenti emergenziali, mira a incidere in modo strutturale su determinati fenomeni.

Come l’ideologia diventa politica e poi norma

La ricerca di Gargiulo e Avidano è del 2018. Ma descrive quello che è avvenuto anche a Roma, con il nuovo regolamento di polizia urbana, entrato in vigore l’8 luglio 2019. Si può scaricare qui.

La premessa del regolamento è un’excusatio petita che conferma la storia raccontata da Gargiulo e Avidano:

L’inattualità del vecchio Regolamento ed il suo inevitabile disallineamento rispetto a situazioni di criticità ormai consolidatesi nel tessuto urbano avevano determinato il sempre più frequente ricorso da parte del Sindaco al potere di ordinanza di cui all’art. 54 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 2687 (TUEL). Tale prassi è stata, però, duramente sanzionatadalla Corte Costituzionale che, con sentenza 4-7 aprile 2011, n. 115, ha dichiaratol ’illegittimità dell’art. 54, comma 4, del TUEL, nella parte in cui, di fatto, consentiva al Sindaco di emanare ordinanze normative. Si è così determinatal’impossibilità per l’organo politico di disciplinare situazioni di degrado in forza di ordinanze, da confinarsi nel solo ambito di operatività della contingibilità e dell’urgenza. Da qui, l’ulteriore bisogno di ricollocare il potere normativo nel più corretto alveo regolamentare con l’adozione di un corpo organico di norme volte a disciplinare la vita della comunità urbana, ponendo in questo modo fine alla prassi della normazione d’emergenza in forza di norme transitorie e ordinanze contingenti.

L’emergenza diventa ordinaria amministrazione. La sicurezza urbana e il decoro sono diventati termini ormai di uso comune, il comma due del regolamento ridescrive molto precisamente gli ambiti nei quali la polizia urbana si riserva un potere di intervento:

“[…] disciplina (de)i comportamenti influenti sulla vita della comunità cittadina in materia di:

  1. a) attività economiche ed esercizio di mestieri negli spazi pubblici;
  2. b) occupazione di spazi pubblici;
  3. c) sicurezza urbana e decoro ambientale;
  4. d) condotte rispettose della civile convivenza e tutela della quieta pubblica e privata;
  5. e) tutela degli animali[…]”.

Il Regolamento chiede di intervenire fino alle abitazioni private in nome di questa ideologia. Al comma 5 riporta

il dovere dei proprietari o possessori di immobili di provvedere all’ordinaria manutenzione delle parti esterne degli immobili di proprietà privata visibili dalla pubblica strada, quand’anche non utilizzati, in modo tale da non recare danno a terzi e salvaguardare il decoro urbano.

Il nuovo regolamento non ha scatenato quasi nessuna discussione pubblica, eppure influenza e influenzerà la vita politica della città molto più di quanto si pensi, e non solo a partire da un immaginario sceriffesco che la sindaca quasi avoca a sé. Raggi si è fatta ritrarre da vigilessa giustiziera nelle immagini con cui lo ha presentato nelle scuole nei depliant destinati ai ragazzi Proteggi il tuo cuore. La sua figura era accompagnata da bolli che dicono stigma, multa e daspo per i comportamenti che sono considerati illeciti. Il tutto illustrato da immagini di Mario Improta detto Marione, noto fumettista non nuovo a uscite fasciste e sessiste, che viene sfiduciato dalla giunta qualche mese dopo la pubblicazione del fumetto, in uno strano paradosso per cui il modello diventa un antimodello (non era semplice accorgersene prima?), per la pubblicazione di una vignetta in cui si paragona l’Unione europea ai lager da cui la Brexit libera Boris Johnson e il Regno Unito.

Non commentiamo nemmeno la bruttezza dei disegni di Marione, che credo sia palmare.

Gli accampati dell’Esquilino

Il nuovo Regolamento non ha mostrato i suoi effetti ancora perché dopo pochi mesi è scoppiata la pandemia, ma ultimamente è avvenuto un episodio che mostra il suo frutto politico già maturo. Il 10 gennaio circa cinquecento residenti dell’Esquilino hanno affidato all’avvocato Carmen Trimarchi la scrittura di una diffida indirizzata tra gli altri (dall’Ama ai due commissariati di zona) anche alla sindaca Raggi che si appella al comma 2 dell’articolo 4 del Regolamento urbano:

in caso di comportamenti tenuti in violazione del divieto di bivacco di cui al 1° comma, lett. b), commessi all’interno di una delle aree indicate nell’articolo 20 e perimetrate nell’allegato A del predetto Regolamento (ove rientra l’Esquilino), costituendo gli stessi impedimento alla fruizione delle medesime aree, si applicano oltre le sanzioni di natura pecuniaria anche le sanzioni e le misure di cui all’art. 9 del D.L. 20 febbraio 2017 n.14, ovvero l’allontanamento dal luogo in cui il fatto è stato commesso

e alla nuova formulazione del concetto di bivacco

il bivaccare, intendendosi per “bivacco” lo stazionare in luogo pubblico in modo scomposto e/o contrario al decoro, nonché sedersi anche consumando cibi e/o bevande, sui beni del patrimonio storico, artistico, archeologico e monumentale (fontane e scalinate di pertinenza, reperti archeologici) e sul suolo pubblico (vie, vicoli, piazze) o privato (soglie di entrata di civili abitazioni e di esercizi commerciali) anche intralciando il passaggio o recando qualsivoglia disagio e, comunque, al di fuori degli spazi all’uopo attrezzati e consentiti per la somministrazione

In sostanza la diffida dice: cacciate i poveracci accampati da sotto i portici. Lo dice in mezzo a una pandemia, nei giorni più freddi e piovosi dell’anno, e con undici morti per strada. La scelta di fare politica attraverso uno strumento giuridico civile promosso dai comitati di quartiere occulta anche qui la natura decisamente politica di quest’atto. Come scrive giustamente Bruno Montesano in un pezzo recente, L’Esquilino, tra individualismo proprietario e solidarietà

Dalla lettura della diffida sembra che il diritto dei privati sia assoluto. Dato che il suolo dei portici appartiene ai proprietari dei condomini che lo danno in servitù al Comune, gli estensori della diffida possono affermare il diffuso individualismo proprietario – a volte moderato dalla rivendicazione di essere anche tra coloro che portano coperte. Pur se in modo contraddittorio, diventa così legittimo chiedere che i poveri vengano spostati altrove e internati coattamente – come proposto dal deputato di Fratelli d’Italia Mollicone, il quale ha chiesto che anche gli extracomunitari, in quanto tali, vengano rinchiusi. Nella diffida si individua anche una persona che viene qualificata come attivista politico, quasi a criminalizzarne l’impegno. Tuttavia, il diritto, che è un rapporto sociale e non una mera istanza disciplinare, rimane quello di escludere e perimetrare, non un campo di tensione in cui operare per espandere libertà e sicurezza sociale per i non-cittadini.

La diffida ha ottenuto un grande consenso, hanno firmato anche residente famosi come il regista della Grande bellezza Paolo Sorrentino. Questo consenso permette a ex carabinieri in pensione, vigilanza privata, presidenti dei comitati di quartieri di diventare tutt’uno con i responsabili della sicurezza pubblica. E hanno facilmente la meglio. Sotto la minaccia di trasformarsi in querele personali, la diffida ha avuto come esito l’intervento dei vigili urbani che fanno spostare i senza tetto, sotto l’occhio vigile degli esponenti dei comitati di quartiere, come riportano gli attivisti di Akkitate, una nuova iniziativa di solidarietà nata negli ultimi temi.

(Senzatetto che negli ultimi anni sono arrivati a 20mila a Roma, mentre le case popolari non vengono assegnate, giusto per inciso; dall’inizio dell’anno ne sono morti dodici, l’ultimo si era riparato nei sotterranei del Policlinico Umberto I, non distante dall’Esquilino, per altro inciso).

Per ragionare cum grano salis sulla vicenda dell’Esquilino di queste ultime settimane, e inquadrarla in un contesto non solo romano ma globale, vale la pena davvero scaricarsi e leggere il dossier realizzato dall’Università Roma 3 e curato da Vincenzo Carbone e Mirco Di Sandro: si può fare qui gratuitamente.

Le questioni che emergono dal dossier ma soprattutto la capacità di reinterpretare in modo complesso e profondo il discorso pubblico incistato sulle categorie di sicurezza o degrado meritano davvero attenzione. Una delle considerazioni più condivisibili è che occuparsi solo delle dinamiche di un quartiere o alle volte di un portico rischia non solo di non risolvere un problema, ma di rimuoverlo o peggiorarlo.

Concependo il rione come contenitore geografico nel quale si insediano illegittimamente gli indesiderabili si rischia di assumere simili pratiche di territorializzazione come espressione di comportamenti devianti, senza individuarne le cause remote e i dispositivi di controllo sociale che li produce. Frequentemente le responsabilità della condizione di marginalità e di disagio vengono attribuite esclusivamente ai soggetti poveri (naturalizzandone, talvolta, la condizione), senza richiamare i processi contestuali di produzione dell’esclusione sociale, le sfere dell’economia e del governo pubblico della città e della società neoliberale. L’in-sufficienza della risposta pubblica e delle misure di presa in carico sono elementi consolidati nella città di Roma; il privato sociale continua ad operare con impe-gno e capacità, tuttavia le povertà non diminuiscono (Caritas Roma 2018), comprese quelle che territorializzano alcuni luoghi urbani interrogandone il decoro. Per non rovinare la cartolina della città, per mostrare un suo impeccabile bi- glietto da visita, è sempre più frequente, negli ultimi decenni, agire la dissuasione, il controllo e la rimozione spaziale dalla scena (daspo urbani, presìdi delle forze di polizia, security e ronde civiche). Wacquant (2000 e 2006) individua in queste politiche securitarie l’effetto di criminalizzazione delle povertà, che hanno dotato il territorio di barriere, delimitazioni, divieti e posti di controllo, telecamere e angeli custodi, a scapito soprattutto dei poveri e dei soggetti più emarginati.

Uno dei testi di Loïc Wacquant a cui si riferisce il dossier è I reietti della città (qui potete leggere l’introduzione in cui si spiega come si sviluppano i processi di criminalizzazione della povertà).

Un altro tema che necessità di grande attenzione e che Vincenzo Carbone e Ernico Gargiulo insiema a Maurizia Russo Spena hanno sviluppato negli ultimi anni è una riflessione critica del tema del multiculturalismo, che si traduce spesso un’esaltazione acritica quando un’estetizzazione della diversità. È un tema più complesso, su cui Carbone, Gargiulo, Russo Spena hanno applicato la categoria di inclusione differenziale, sviluppata da Sandro Mezzadra. Il libro che va assolutamente letto per capire come istanze apparentemente democratiche come quelle dei comitati che hanno promosso la diffida possano invece idee di selezione sociale, stigma e anche razzismo è I confini dell’inclusione. Qui c’è un’introduzione molto esplicativa.

Come fare a risolvere il problema della gente che piscia per strada

Per concludere: c’è molto da fare per questa città. Roma non è soltanto un posto in mano ai comitati di quartieri e solo preda di interessi dei privati più escludenti; ma ci sono molti altri soggetti politici – dai movimenti sulla casa alle associazioni di solidarietà a buona parte dei movimenti di ispirazione cristiana ai sindacati – che possono e devono contendere il terreno della politica. Bisogna lavorare anche molto sull’egemonia, per mostrare come siano portatrici di un’ideologia alcune retoriche apparentemente neutre se non democratiche, e come invece nel giro di pochi anni possano portare a decisioni politiche e nuova legislazione.

Le politiche di inclusione non sono tanto ostacolate dalle spinte neofasciste – non è un caso che nella recente vicenda dell’Esquilino non abbiano preso parola, mentre sono molto presenti nel quartiere: oltre alla sede in Via Napoleone III di Casapound, ci sono il bar Cutty Sark in via Botta, i negozi Pivert e BadaBing shop, il Bar 081, Bar Carrè Monti, la libreria Testa di ferro, il Tango core tatoo e il ristorante Baia Chia e Angelino, tutti luoghi d’elezione per i militanti di destra e estrema destra. Quello che unisce destra e democratici, neofascisti e cittadini perbene è la difesa della rendita proprietaria privata come valore da anteporre agli altri.

Per il resto, quello che mi viene da auspicare è che la città sia sempre più viva, imprevedibile, aperta, e che la parola sicurezza venga messa al bando dalla discussione politica: ci ha portato solo più solitudine e più rancore.

Da molte di queste analisi, ho ricavato una piccolissima idea: Roma ha bisogno di più bagni pubblici. Una delle lamentele maggiori che i comitati di quartiere, i cittadini indignati e esasperati fanno è che i senzatetto come i giovani pisciano e cacano ovunque. È una lamentela comprensibile, ma è vero anche che non si capisce dove possano pisciare e cacare le 20mila persone che vivono per strada o i ragazzi la sera quando bevono. È un’idea semplice per cui già l’imperatore Vespasiano si è conquistato fama eterna. Modelli di progettazione li possiamo trovare da Ostia a Pompei.

 

Commenti
3 Commenti a “Movida, decoro, sicurezza urbana: il bisogno di ripoliticizzare la questione a partire da Roma”
  1. Nicola ha detto:

    La questione dei bagni pubblici era il mio chiodo fisso quando bazzicavo la MOVIDA bolognese in zona Piazza Verdi a metà dei 2000. Col tempo ho capito che è una strategia, consapevole, per creare tensioni tra residenti e chi vive per strada anche solo la sera: nei bar se non consumi non vai in bagno, e fuori non ci sono bagni, per cui pisci per strada e chi sgombera è l’eroe che salva i poveri innocenti che domani lavorano dalle orde barbare di studenti incontinenti e caciaroni. Più cessi per tutti!

  2. Giuseppe Tropea ha detto:

    Da giurista che considera da un po’ questa questa tematica, posso dire che l’assetto delle competenze e delle fonti appare centrale, essendo stretto a doppio nodo alle politiche pubbliche in materia, che si muovono lungo l’asse della difficile conciliazione tra sicurezza, politiche “situazionali” e di c.d. “tolleranza zero”, e politiche sociali di prevenzione ed inclusione. Il tema di fondo è rappresentato dal tramonto del c.d. welfarismo criminologico come specchio della più ampia crisi, o comunque ristrutturazione, del Welfare State. In tale contesto le politiche della sicurezza possono prendere il posto delle politiche sociali. Il rischio, peraltro, è anche rappresentato da un determinato modo di intendere in questo delicatissimo settore l’intreccio fra sussidiarietà verticale e quella orizzontale: la legislazione statale degli ultimi anni ha finito per attirare, in una forma di sussidiarietà “ascendente”, l’individuazione delle policies, rendendo tutto come forma di “sicurezza pubblica minore”, sovente a danno di diversi modelli discendenti dalla legislazione regionale e da buone pratiche, specie a livello locale, caratterizzati da educazione alla convivenza, rispetto della legalità, integrazione. Si badi bene, ciò non comporta banalmente una schematica separazione fra una legislazione regionale sempre “buona” e una legislazione statale sempre “cattiva”, in quanto tarata su politiche pubbliche di mera repressione e controllo sociale. Penso, ad esempio, alla concessione regionale di un sostegno economico ai cittadini che, vittime di un delitto contro il patrimonio o contro la persona, affrontano un procedimento penale con l’accusa di aver colposamente ecceduto i limiti della legittima difesa, dichiarata costituzionalmente illegittima nel 2017. O alla più recente dichiarazione di incostituzionalità della legge della Regione Veneto n. 34/2019 sul c.d. controllo di vicinato. Secondo la Corte, in sostanza, politiche regionali volte ad incentivare un Neighbourhood Watch che impatti in senso esclusivamente – o eminentemente – securitario sul controllo del territorio, sono destinate all’invalidazione perché, lungi dal rappresentare e incentivare fenomeni di “cittadinanza attiva”, rientrano nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza (primaria), così come, al contrario, una normativa statale che confonde la sorveglianza col disagio sociale è destinata ad essere caducata in quanto rientrante nella nozione di sicurezza secondaria.
    Il welfarismo criminologico, grande rimosso degli ultimi decenni a causa delle politiche neoliberali elaborate sull’onda lunga delle teorizzazioni della scuola di Chicago, è tornato ad essere un convitato di pietra ben presente nei ragionamenti del nostro giudice delle leggi. È questo il profilo di fondo più importante che emerge dalla sentenza n. 236/2020. Deve però fare i conti con la perdurante, se non accresciuta a causa della crisi pandemica, profonda (e incompiuta) ristrutturazione dello Stato sociale.

  3. pier paolo inserra ha detto:

    https://www.academia.edu/34078119/Costruire_la_sicurezza_locale_pdf

    E’ un libro che ha qualche anno. Parte delle riflessioni però vanno ad integrare quanto detto dall’autore dell’articolo.

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