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di Manuela Manera e Christian Raimo

Qualche giorno fa è stata promossa su Change.org una petizione intitolata Pro lingua nostra contro lo schwa, la famosa e rovesciata, ossia la ə, che oggi in Italia viene utilizzata come sperimentazione in molti testi al posto del maschile plurale sovraesteso. Invece di dire “ragazzi” intendendo “ragazzi e ragazze e altre persone che non si identificano in nessuno dei due generi” si prova, per esempio, a dire “ragazzə”. La petizione è stata promossa da Massimo Arcangeli, professore ordinario di linguistica presso l’università di Cagliari, che è stato poi molto attivo nel diffonderla, coinvolgendo prima una serie di docenti e intellettuali prestigiosi a firmarla, da Luca Serianni a Alessandro Barbero, da Claudio Marazzini a Ascanio Celestini a Massimo Cacciari, e cercando poi una eco mediatica che ha ottenuto soprattutto nei giornali di destra, dalla Verità al Secolo d’Italia, conquistando anche la difesa d’ufficio sul Corriere di Gian Arturo Stella, e riuscendo a essere ripreso anche da giornali stranieri, anche questi conservatori, dall’inglese Times al tedesco Tagespost.

La petizione è molto dura nel suo intento polemico e censorio fin dall’inizio: “Siamo di fronte”, dice, “a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica”. Questa affermazione è inutilmente allarmistica e falsa. La “pericolosa deriva” è nei fatti una composita comunità di attivistə, professori e professoresse, docenti di vari cicli, politic*, intellettuali, linguiste, che in contesti diversi e in modi diversi cercano di capire come ragionare sulla natura esplicitamente o implicitamente sessista e esclusiva della lingua italiana, proponendo di volta in volta delle sperimentazioni. Tra queste c’è lo schwa. La stragrande maggioranza di queste persone, per non dire la totalità sono persone competenti in materia linguistica: lo sono perché hanno un riconoscimento accademico, intellettuale, istituzionale, pubblico, insegnano all’università, a scuola, hanno bibliografie corpose alle spalle, e lo sono perché la lingua è un campo in cui ogni persona è a suo modo competente e a maggior ragione quando riflette metacriticamente sull’uso proprio e della sua comunità di parlanti.

Già nella seconda frase la petizione si squalifica da sola, quando si dice: “I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” rovesciata” non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche”. Anche quest’affermazione è un attacco molto spregiudicato a chi tenta di applicare lo schwa e ragionare sull’uso possibile. Magari non sono persone folli, magari ritengono che il politicamente corretto in Italia non abbia alcuna tradizione culturale ma anzi siano invalsei molte pratiche sessiste, razziste, classiste anche nella cultura linguistica italiana, magari non hanno la pretesa che la ə possa essere applicata sistematicamente ma cercano di capire e mappare, da linguistə descrittivistə spesso, quale può essere l’uso che prende spazio nel parlato e nello scritto. La parte che squalifica da sola la petizione sono le righe successive: l’espressione “patologie neuroatipiche” non vuol dire nulla, ed è infatti una sorta di osceno neologismo, ed è anzi un accrocco che rivela una misconoscenza grave delle tematiche dell’apprendimento linguistico. In più, la dislessia non è considerata né considerabile una patologia, ma un disturbo specifico dell’apprendimento. In più, gli studi sul tema della lettura e della pratica delle persone con dislessia rispetto allo schwa non arrivano per nulla alle stesse conclusioni per cui ci potrebbe essere il rischio di “arrecare seri danni”. Si può pensare, solo per accennare a una minima considerazione, quanto la lingua italiana possa per le persone con dislessia avere un vocabolario e espressioni complesse: da abdicare a rabdomante, da eteroclito a interpretare a pneumatico. Nessunə pensa di espellere queste parole dalla lingua in nome di una tutela delle persone con dislessia.

Si potrebbe continuare a rivelare le altre espressioni discutibili del testo della petizione, ma soprattutto queste riflessioni ci fanno sostenere che la petizione si squalifica da sola.

Veniamo invece all’analisi del testo molto più argomentato della linguista Cristiana De Santis, che ha voluto corroborare le tesi dei linguisti antischwa. L’articolo si intitola L’emancipazione grammaticale non passa per una e rovesciata, ed è stato pubblicato dal sito di Treccani e sarà parte di uno speciale che Treccani sulla lingua italiana pubblicherà a breve.

La premessa di De Santis è questa: “La petizione “pro lingua nostra” (contro lo schwa) lanciata dal linguista Massimo Arcangeli ha rilanciato il dibattito sull’uso di simboli che dovrebbero rendere la nostra lingua più “inclusiva”. Prima di condannarli, proviamo ad analizzarli dal punto di vista di una grammatica ragionevole. Per fornire appigli a chi voglia scegliere con responsabilità e cognizione di causa, nel rispetto delle regole comuni e a tutela di chi è più debole*. Una premessa è d’obbligo: sono una grammatica italiana, anche se non parlo come un libro stampato. Come studiosa della nostra lingua ho lavorato e lavoro alla frontiera tra norma e usi della lingua, con attenzione ai fenomeni dell’italiano in movimento e alle esigenze dell’apprendimento e insegnamento dell’italiano, oggi. La prospettiva “ragionevole” con cui guardo alla lingua è profondamente influenzata, oltre che dalla letteratura linguistica e filosofica, dalla mia lettura di Gramsci. Considero la norma linguistica il frutto di un comune accordo, il cui rispetto tutela chi è più debole, e guardo alla grammatica che la descrive come a uno strumento di possibile emancipazione”.

È una premessa, verrebbe da dire un disclaimer, molto interessante perché sembra una excusatio non petita che rischia di farci leggere tutto il testo come una petitio principii. Che significa prospettiva “ragionevole”? Ha qualche riferimento storico? Si riferisce a qualche tipo di accezione? Non è per nulla chiaro. Ci sono prospettive più ragionevoli di altre con cui guardare alla lingua? Ci sono prospettive ragionevoli e altre “non ragionevoli”? E se sì, in cosa sono irragionevoli le altre?

Forse ls ragionevolezza cui fa riferimento De Santis consiste nel considerare la norma linguistica frutto di un comune accordo, con l’implicito che chiunque proponga cambiamenti a tale norma trasgredisca a questo accordo e, dunque, venga meno a un comportamento ragionevole basato appunto sul rispetto della norma comune (status quo). Ma in questo passaggio è presente anche un altro implicito: l’opportunità di emancipazione è agganciata alla conoscenza della grammatica considerata però come descrizione del funzionamento della lingua standard, senza aperture o segnalazioni rispetto ai mutamenti in corso. Il “ragionevole” è ben lungi dal “ragionamento”, dal momento che la finalità di chi ha maggiore competenza non è formare a uno spirito critico in modo che ciascuna persona possa decidere di sé, ma è indicare le regole da seguire tout court.

Rispetto al fatto che la norma, frutto di comune accordo, sia a tutela di chi è più debole è una convinzione che ci appare un po’ utopica. La lingua è un campo di battaglia, e spesso la norma non è a tutela di chi è più debole, semplicemente perché le battaglie sociali sono nel presente, e le istanze politiche di chi è debole e di chi è più forte si scontrano in contesti diversi. Non ci vuole una disamina dei testi di Gramsci o di Wittgenstein per capire che i subalterni, diciamo così, magari non vogliono essere tutelati perché più deboli (la visione di De Santis qui sembra ridurre a paternalismo la prospettiva gramsciana) ma semplicemente vogliono rivendicare le proprie posizioni.

Nel testo di De Santis seguono una serie di utili chiarimenti rispetto alla posizione di chi parla e la definizione del dibattito. Arrivati al punto dirimente, De Santis scrive: “Si è discusso e si discute della regola che prevede, in presenza di parole di genere diverso, l’accordo al maschile plurale: esistono in effetti altre possibilità, come l’accordo di prossimità o quello di maggioranza, esplorate in altri momenti storici o in altre lingue. Ma non dobbiamo dimenticare che il maschile generico, per quanto frutto di una convenzione, viene acquisito come forma indipendente ed è spontaneamente applicato nel parlato: scegliere di eluderlo vuol dire costringersi a complesse acrobazie linguistiche quando si parla e, nello scritto, a manipolazioni che possono generare incomprensioni”.

Il grassetto è mio, e vuole sottolineare come quest’avverbio, spontaneamente, è il punto debole di tutta la definizione che De Santis dà del maschile generico. Cosa vuol dire spontaneo? Naturale? Di propria sponte? In modo diretto e fluido? Non è proprio di questa introiezione spontanea che stiamo parlando provando a metterla in discussione? Da bambino per me era spontaneo categorizzare alcune persone con il termine frocio. A scuola si imparava a etichettare così certi bambini e non faceva problema applicare quest’espressione spontaneamente nel parlato. “Costringersi a complesse acrobazie linguistiche” non è esattamente la definizione di apprendimento linguistico quando veniamo chiamati a confrontarci con una cultura linguistica diversa o riflettiamo metacognitivamente con il nostro uso? Non è un’esperienza comune che quelle che all’inizio sembravano complesse acrobazie linguistiche dopo un po’ ci possono sembrare semplici saltelli?

Veniamo alle critiche più specifiche all’uso dello schwa. Scrive ancora De Santis: “Di fronte a soluzioni come allǝ lettorǝ o lз lettorз (presenti in un articolo di questo stesso Portale) si può obiettare che lettorǝ rimane un nome maschile, anche se ha nascosto la coda, e che lз lettorз è una sequenza priva di eufonia oltre che di grammaticalità (che peraltro genera omofonia con l’elettore). Quanto al nuovo pronome “non-binario” lǝi citato nel testo, la fragilità della proposta appare subito evidente se consideriamo la complessità del nostro sistema linguistico, che per la funzione di pronome soggetto necessita di forme adatte a comparire in posizione tonica (sede preclusa alla vocale indistinta) e richiederebbe comunque altre forme oltre a quella funzionante come soggetto (si tratterebbe di sostituire non solo lui/lei, ma gli/le e la/lo)”.

Anche qui ho sottolineato l’espressione “lз lettorз è una sequenza priva di eufonia oltre che di grammaticalità (che peraltro genera omofonia con l’elettore)” per provare a rifletterci su insieme. Chi dice che lз lettorз è priva di eufonia? E in che senso è priva di grammaticalità? Suona davvero così male lз lettorз? È addirittura cacofonico? Ma il suonare bene o male non è legato all’esposizione all’uso (così come accadeva per ministra, sindaca…)? La grammaticalità in che senso non c’è? Perché quest’espressione non appartiene all’italiano registrato nella stragrande maggioranza delle grammatiche, oppure perché c’è un errore? Non abbiamo forse un articolo e un nome e, per dirla in maniera più specifica, un morfema lessicale (lettor-) e morfema flessionale (-з)? Non è forse mantenuto l’accordo morfosintattico, non è forse riconoscibile la struttura della frase, non è forse salva la comprensione della testualità?

Il pezzo di De Santis presenta varie contraddizioni; per esempio, introdurre nuove forme pronominali (lǝi e derivati) risulterebbe operazione complessa, però subito sotto si fa riferimento allo schwa nei termini di un “espediente semplice”, “soluzione semplicistica”:

“Sarebbe comodo, certo, pensare di estendere un espediente ‘semplice’ (facilmente accessibile oramai sulle tastiere alfanumeriche) per risolvere i nostri problemi di (in)tolleranza e convivenza civile, se non ci fosse una controindicazione tanto forte da agire come dissuasore: non solo avalleremmo una soluzione semplicistica, ma ci sottrarremmo alle regole grammaticali della nostra lingua, acquisite in modo libero e spontaneo da ogni parlante madrelingua”.

In questo passaggio viene inoltre ripresa con insistenza la convinzione che modificare la lingua è una forzatura, è irrazionale in quanto contraddice ciò che si presenta come frutto di azione libera e spontanea (non si usa l’espressione “naturale” ma l’inferenza non viene spontanea? :-)): di nuovo viene presentato un rapporto con la (madre)lingua privo di qualsiasi approccio critico o metalinguistico che porti a riflettere sui propri atti linguistici, buoni a prescindere in quanto rispettosi della norma grammaticale.

“A differenza infatti dei femminili dei nomi di professione e carica come sindaca, ministra, architetta, ingegnera, formati secondo le regole della nostra lingua e perfettamente grammaticali (per quanto “nuovi” possano suonare alle nostre orecchie di parlanti), l’occultamento delle desinenze costituisce una forzatura del sistema. Forzatura che – nell’alimentare il nostro senso di appartenenza a una comunità ristretta in cui ci riconosciamo (di militanti per i diritti civili o di simpatizzanti verso la causa), o la nostra “distinzione sociale” (mostrandoci conformi alla “correttezza” sociale e politica imperante) – ci esilia dalla comunità più ampia di parlanti”.

È un bel capovolgimento: chi usa strategie sperimentali lo fa esattamente perché è esiliat* dalla lingua; queste righe paiono quasi un avvertimento verso chi, al di fuori di ambiti ristretti dell’attivismo, sceglie strategie sperimentali, di fatto prendendo un posizionamento. Risuona come un “guai a voi, poi vi autocondannate all’esilio, a stare con quellɜ là!”.

La comunità di parlanti è individuata da De Santis solo tra coloro che rispettano le norme dell’italiano standard; le altre persone, invece, “scelgono” di restarne escluse. L’immagine dell’esilio come effetto non della società ma delle scelte linguistiche individuali che non rispettano la norma è interessante, e spiega bene il senso che l’autrice dà alla parola “inclusività”: se vuoi entrare, adattati alle regole che ti indico.

Anche in questo articolo assistiamo alla costruzione di una contrapposizione tra gruppi marginalizzati o considerati minoranza o presentati come vulnerabili, fragili, indifesi. Così, introdurre cambiamenti nella norma “salverebbe” un gruppo a discapito di un altro: allora, chi si decide di salvare? L’obiettivo non è trovare soluzioni ma affossare le proposte. Perché se è giusto formare “a un immaginario ricco e non stereotipato”, questo obiettivo non deve compromettere il “dominio sicuro del codice scritto”.

Quando De Santis scrive:

“Compromettendo i diritti delle minoranze meno rumorose, tra cui rientrano anche “i minori che vorremmo formare a un dominio sicuro del codice scritto, oltre che a un immaginario ricco e non stereotipato”.

A parte richiamare lo slogan “giù le mani dai bambini” di gruppi “antigender” (cfr. Garbagnoli-Prearo), si dovrà ammettere che non è certo il ricorso allo schwa a compromettere il “dominio sicuro del codice scritto”… o ritroveremo presto anche questo elemento, accanto alla famigerata DaD, nei prossimi articoli sulla decadenza della scuola di oggi?

De Santis presuppone (non si sa rispetto a quali sperimentazioni condotte… manca qualsiasi riferimento bibliografico) che ricorrere allo schwa mini la “la consistenza grafica delle parole, nonché la fluidità nella lettura adulta”. E se anche nella lettura l’occhio, non essendo abituato a questo simbolo poco familiare, si intrattenesse più a lungo non sarebbe forse proprio questo uno degli obiettivi nell’immediato? Non sarebbe proprio una “pietra di inciampo” che dovrebbe portare a riflettere su un uso che finora è stato discriminatorio della lingua? La prima volta che l’ho incontrata, ho dovuto rileggere diverse volte la parola “minchiarimento”, ma ora mi è utilissima. Un neologismo che mi permette di ragionare sul maschilismo che subisco. Non è proprio questo il senso della riflessione linguistica, ossia della riflessione sempre metalinguistica?

Nell’articolo si fa poi riferimento al concetto di intersezionalità:

Una intersezionalità che non faccia i conti con la stratificazione sociale e culturale della popolazione e con la nostra storia (anche linguistica) rivela i propri limiti, prima che quelli del mondo patriarcale che vorrebbe combattere”.

Anche qui è necessario smascherare l’implicito sotteso nel testo: solo se il risultato dei “conti” coincide con quello atteso, l’operazione può essere considerata corretta. Poiché, però, la riflessione intersezionale portata avanti nell’ambito dell’attivismo porta a pratiche linguistiche che non coincidono con quelle previste dal sistema, allora non va bene? Si dimentica forse che in una prospettiva intersezionale si analizzano le interrelazioni per agire in un’ottica migliorativa, per modificare, non è una statica e passiva descrizione.

Infine, l’autrice sostiene che “… anche simboli e parole “identitarie” brandite come armi e usate in modo indistinto possono diventare strumento di offesa, oltre che di difesa, e aprire la strada a un “linguaggio autoritario”…” 

Vediamo i passaggi del ragionamento:

  •   simboli (schwa) e parole identitarie sarebbero “brandite come armi” (in base a cosa lo affermi non è dato sapere: non fa riferimento a episodi specifici): associa a certe istanze la violenza o quantomeno una incombente minaccia
  •   simboli (schwa) e parole identitarie verrebbero usate in modo indistinto: non seguendo le regole di una “grammatica ragionevole”, evidentemente
  •   simboli (schwa) e parole identitarie possono diventare strumento di offesa e aprire la strada a un linguaggio autoritario: qui avviene un rovesciamento tale per cui cioè che si propone come mezzo per allargamento dei diritti viene descritto come potenziale arma di autoritarismo, di esclusione. Si fa strada un immaginario distopico che nuovamente risuona come avvertimento: se si ricorre a certe strategie, le conseguenze saranno spiacevoli. Come se il rischio di uso aggressivo e violento non ce lo avessero anche tutte le altre parole… (cfr. De Mauro, relazione Jo Cox)

“Rispettare la lingua comune – afferma De Santis –  è un dato imprescindibile se vogliamo essere compresi e rispettati.  E rispettare una lingua vuol dire in primo luogo riconoscerne la dimensione ‘altra’: non trattarla alla stregua di un corpo individuale sul quale possiamo agire in base al nostro desiderio, ma come dispositivo simbolico, che ci impone di passare le nostre scelte al vaglio della norma condivisa dall’intera comunità di parlanti.”

Ovvero: se vuoi avere rispetto, devi rispettare la lingua così com’è. Devi entrare nel gioco senza modificare le regole. Il punto (espresso magnificamente al maschile, “se vogliamo essere compresi”) è che i nostri desideri non hanno valore, perché il portato simbolico della lingua sarebbe – secondo l’autrice – intoccabile, pena incomunicabilità e incomprensione.

La lingua come corpo individuale su cui agire a seconda dei nostri desideri rimanda velatamente all’immagine della “lingua violata” già invocata in altri articoli sul tema. La lingua violata. 

C’è il tentativo di riportare su un piano individuale (con un noi inclusivo che ci prende per mano e ci accompagna) istanze che nella realtà sono collettive, elaborate e condivise da gruppi di persone. Infine si ripropone l’opposizione tra “nostre scelte” e “la comunità di parlanti” come se dentro alla comunità di parlanti ci fossimo già tuttɜ.

Per De Santis “Non ha senso, per esempio, dire che la lingua è “binaria”, come se fosse una persona con un orientamento sessuale definito: la lingua è un sistema astratto e come tale si spiega con la lingua – “la grammatica non deve rendere conto di nessuna realtà”, ha scritto Ludwig Wittgenstein.”

Resta il fatto che la lingua italiana ha due generi grammaticali per ora: maschile e femminile e questi possiamo usare per riferirci alle persone. (Attenzione, però: binarismo non coincide con “orientamento sessuale”!)

Infine, la lingua si spiega con la lingua non perché non ha contatti con la realtà né perché è un sistema chiuso e impermeabile, ma perché in questo caso strumento con cui descrivere e oggetto da descrivere coincidono; certo che buttare lì certe frasi crea confusione in chi non mastica di linguistica… o forse è questo il fine?

Conclude De Santis: “l’affezione per l’italiano dovrebbe portarci a valorizzare la lingua comune intesa come “bene culturale”, da preservare in una dimensione non museificata, ma neppure subordinata alle logiche di agende politiche e sociali in rapido cambiamento.”

Esattamente a quali agende politiche e sociali si fa riferimento? Forse al ddl Zan? Anche questa affermazione agisce a livello implicito, rafforzando l’idea di imposizione dall’alto, studiata a tavolino, incardinata in logiche lontane dai veri problemi della gente. Questo articolo nel complesso è pacato e ben strutturato: molto convincente a una lettura superficiale per chi non si occupa di questi temi. A una lettura più attenta, però vediamo che poggia su impliciti e riformulazioni equilibrate, fallaci nei contenuti, di concetti espressi in modo aggressivo e sarcastico in articoli di altre firme accademiche. La petizione promossa da Massimo Arcangeli invece è davvero una plateale schifezza.

 

 

 

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24 commenti

  1. Mi viene in mente Sanguineti che – scrittore coltissimo – aveva un conto aperto con il congiuntivo e nei suoi scritti ne ostentatava il non utilizzo: e se a lui andava bene così, che dire? Altro sarebbe però stato se avesse voluto obbligare tutti gli scriventi in lingua italiana a rinunciare davanti a notaio al suddetto modo verbale. E posto che una norma del genere fosse stata approvata, non so immaginare da che tribunale (forse da un referendum?), avrebbe avuto valore retroattivo? Si sarebbe dovuto purgare con il ferro e con il fuoco l’intera letteratura italiana dagli esecrati congiuntivi?

  2. L’articolo mi pare peccare di inaccuratezza e perfino di ingenuità. Innanzitutto la comunità che rivendica la scelta “dal basso” continua a rincorrere l’Accademia e infatti qui gli autori si affrettano a dire che le persone che si occupano dello schwa sono “competenti in materia linguistica” e lo sono perché “hanno un riconoscimento accademico, intellettuale, istituzionale, pubblico, insegnano all’università, a scuola”. Ma COME? Allora siete un’elite anche voi? Poi arriva la contraddizione e cioè che “la lingua è un campo in cui ogni persona è a suo modo competente”, frase del tutto gratuita e direi anche non vera, visto che la competenza linguistica si costruisce dopo lungo apprendistato. La confutazione dei punti della De Santis non tiene. 1) L’avverbio “spontaneamente” non significa in modo innato, ma significa senza costrizioni, visto che i bambini come ricordava De Mauro ascoltano la voce dei genitori fin da quando sono nel ventre materno. 2) La grammaticalità è compromessa se, come nel verbale Miur e in molti esempi di uso dello schwa, non si fanno gli accordi necessari con pronomi, aggettivi, partecipi passati 3) la soluzione è per questo semplicistica, perchè propone un espediente apparentemente semplice, ma in realtá molto complicato. 4) la comunità di parlanti italiano standard si raccoglie sotto una norma codificata. Lo schwa per ora non lo è, quindi si tratta di usi ristretti o personali. 5) Mettere sullo stesso piano un neologismo con l’ntroduzione di un fonema / grafema nuovo nel sistema significa non aver capito un’acca di linguistica. Bastano queste inesattezze e approssimazioni a far capire che non ci siamo proprio nella difesa dello schwa. Avete la Gheno che è molto più brava e convincente. Rivolgetevi a lei che è meglio…

  3. Quando leggo di dibattiti del genere provo la stessa reazione che ho nei confronti delle “misure di contenimento” della covid, ormai ampiamente screditate: fate come preferite, ma NON OBBLIGATE GLI ALTRI A FARE LO STESSO. Se X vuole usare il termine “frocio” oppure il maschile sovraesteso, deve essere libero di farlo, tanto quanto qualcun altro è libero di criticarlo. E se dare del frocio a qualcuno causa a questo qualcuno un danno concreto e misurabile, allora X verrà querelato e dovrà pagare le conseguenze di ciò.

    Volete cambiare la lingua perché credete che questo migliorerà il mondo? Liberi di farlo ma non obbligate me a parlare come volete voi. No a simili obblighi, né di fatto, né di diritto. Lo stesso deve valere, nel mio mondo ideale, con il portare una maschera in faccia o il farsi vaccinare.

    Il confine fra un uso sensato e responsabile del “politically correct” e la sua perversione autoritaria sta tutta qui.

    PS: “La verità” non è affatto un giornale di destra, quantomeno non in tempi come questi.

  4. Altro che schifezza, la petizione di Massimo Arcangeli è caratterizzata dalla logica del buon senso

  5. La lingua evolve a poco a poco senza forzature. L’imposizione di una nuova regola grammaticale con l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze sarebbe appunto un’imposizione. È la mentalità che cambia la lingua, non la lingua che cambia la mentalità.

  6. Manera e Raimo mettono sullo stesso piano il lessico (l’uso di “frocio”) e la morfosintassi (l’accordo col maschile generico). Le due cose, lo dico da linguista, non sono sullo stesso piano. E “spontaneo” non significa la stessa cosa nei due casi. Nel caso di “frocio”, spontaneo può senz’altro significare qualcosa che si è sempre fatta in un certo modo ma può essere cambiata (come una moda, o un’abitudine); nel secondo caso spontaneo significa non/meno accessibile alla modifica consapevole e deliberata (ovvio, uno può sempre iniziare a dire consapevolmente “le ragazze e i ragazzi sono invitate a uscire”, ma ci vogliono generazioni perché questo cambiamento attecchisca, e spesso serve anche che l’uso di un accordo diverso sia percepito dai parlanti come un tratto di prestigio).

    “Il grassetto è mio, e vuole sottolineare come quest’avverbio, spontaneamente, è il punto debole di tutta la definizione che De Santis dà del maschile generico. Cosa vuol dire spontaneo? Naturale? Di propria sponte? In modo diretto e fluido? Non è proprio di questa introiezione spontanea che stiamo parlando provando a metterla in discussione? Da bambino per me era spontaneo categorizzare alcune persone con il termine frocio. A scuola si imparava a etichettare così certi bambini e non faceva problema applicare quest’espressione spontaneamente nel parlato.”

  7. Se questa è la difesa dello schwa, possono restare tranquilli anche i peggiori conservatori, quelli che inorridiscono di fronte a “ministra” e “sindaca”.
    A Manera e Raimo che accusano Arcangeli e De Santis di non apportare pezze d’appoggio bibliografiche alle loro affermazioni, chiedo poi di giustificare l’affermazione per cui “gli studi sul tema della lettura e della pratica delle persone con dislessia rispetto allo schwa non arrivano per nulla alle stesse conclusioni per cui ci potrebbe essere il rischio di “arrecare seri danni””. Il resto sulla dislessia è poi a dir poco ridicolo: come è già stato commentato prima di me, mettere sullo stesso piano l’introduzione di un nuovo fonema e l’uso di un neologismo non fa onore a persone che, di lavoro, insegnano.
    Quanto alla definizione della dislessia come ”patologia neuroatipica”, potrà non piacere la definizione di ”patologia”, che forse è poco politicamente corretta (non uso la definizione per denigrare), ma l’aggettivo esiste eccome.

  8. la cosa che a me stupisce e che di fronte al problema sono saltati alla soluzione peggiore che ci potesse essere, quello di aggiungere un suono poco naturale alla lingua e di costringere le persone a parlare fermandosi quasi e troncando la parola, che a conti fatti a me esce quasi sempre la e quando dovrebbe esserci quel suono… ma che rende comunque la frase cacofonica e di difficile utilizzo.

    Semplicemente non sarebbe più facile categorizzare la lingua in “femminile”

    e stabilire che quello che è il plura maschile sovraesteso sia “il neutro”

    per farla breve nella fattispecie della professione di avvocato

    Al maschile (avvocato)
    al femminile (avvocata)
    e nella fattispecie si tratta di evidenziare un gruppo misto di uomini e donne e di chiunque nè l’uno e nè l’altro, (avvocati)

    e di specificarlo solo quando gli avvocati sono solo maschi (ossia appunto dichiarando: “avvocati maschi”) in modo appunto da “Netralizzare” il maschile sovraesteso che non si chiamerebbe più in questo modo, e di usarlo solo nello specifico quando vi è l’eccezione (ossia solo nel caso si evidenzi il gruppo di soli maschi.) Per evitare la ripetizione della “specificazione del gruppo solo maschile” si potrebbe usare nello scritto la barra obliqua (/) o slash

    in questo caso verrebbe in questo modo:

    Avvocato (maschile)
    Avvocata (femminile)
    Avvocati (netro che evidenzia un gruppo misto)
    Avvocati/ (che evidenzia un solo gruppo maschile) e che nel parlato va proprio specificato: “Avvocati solo maschi)

    la trasformazione sarebbe in questo caso solo culturale, ed è questo che bisogna cambiare “la cultura” e non distruggere la morfologia della lingua e arrivare a usare suoni che creano incomprensione e che sono molto cacofonici o ad esepdienti complessi e addiritura mettendo in crisi un altra minoranza, quella dei dislessici a cui io purtroppo appartengo.

    quest’idea non è la mia, è stata espressa da Roberto Mercadini in uno dei suoi video, a cui io ho apportato solo la convenzione grafica della barra obliqua per non incorrere in ripetizioni eccessive dello stesso concetto.

    la critica è doverosa in chi propone lo schwa, è quella di voler appesantire la lingua e di arrivare a una soluzione macchinosa con espedienti stupidi e innaturali sul parlato, quando l’unica cosa che andrebbe cambiata è la cultura sovrastante alla lingua, semplicemente depotenziando il maschile e chiamando il maschile sovraesteso con il nome di “Neutro”

    vedrete che dopo una decina d’anni risulterà del tutto naturale chiamare neutro quella categoria grammaticale o di “specificare” solo quando risulterà in modo diverso.

    tra l’altro con gli animali si fa già, il pettirosso maschio o la giraffa maschio, panda maschio, quindi non è una cosa così avvulsa. risutlerebbe la soluzione più logica.

    invece di risolvere il tutto con “fazioni pro e contro” e con soluzioni di Stupidocratiche che altro non fanno che snaturare la lingua e renderla ridicola.

    insomma la soluzione è sempre stata a portata di mano.

  9. Ed ecco ancora Raimo, il tuttologo, che che ti dice cosa devi pensare ma ora anche nella versione “come devi parlare”.

    Ogni articolo (?), intervento (?) di Raimo è uno spiegone stile “tu sei stupido, io so tutto e ti dico quello che devi fare”.

    Raimo è talmente fascista (nel senso di imporre agli altri il suo pensiero unico) che dovrebbe sempre vestirsi di nero.
    È talmente andato all’estrema sinistra che non è conscio di aver fatto il giro e di ritrovarsi a destra.

    Purtroppo questo blog è molto in mano sua, basta andare indietro nel tempo per vederne la differenza.

    Si finirà come in UK dove la gente ha letteralmente paura di usare certe parole, con la differenza che in Italia se ne useranno altre e Raimo correrà a insegnare che non lo si deve fare.

    Non dovete avere un’opinione, ci pensa Raimo a imporvene una.

  10. La petizione contro lo schwa non è una schifezza; semplicemente è inutile così come quasi tutte le petizioni.
    La schifezza casomai sta nel conformismo nauseante, falso e ipocrita che induce tali scelte “linguistiche”.
    E’ veramente desolante assistere a questo genere di instupidimento.

  11. Sia l’articolo di Manera e Raimo, sia il testo di De Santis sono ben argomentati, ma se lo schwa si affermerà nel tempo non lo decideranno né i linguisti né tantomeno gli intellettuali. Qualche anno fa inorridivo di fronte al termine femminicidio, e non ero la sola. Oggi mi rendo conto di quanto sia necessario sottolineare che una donna è uccisa semplicemente perché donna ed è un’accezione diversa dall’omicidio. Le lingue sono diacroniche, anche De Saussure, padre dello strutturalismo, arrivò a distinguere tra langue e parole. Archiviato l’aspetto tecnico… non sono così esperta, tra glottologia, filologia e linguistica ho dato un 4-5 esami, ma diverso tempo fa, quello che non mi torna è la petizione, e soprattutto sono l’acredine, la violenza verbale e la povertà di linguaggio, nei confronti della commissione di professori di organizzazione aziendale, e del loro verbale che riguardava una manciata di docenti. Posso capire che si trattasse di un documento ufficiale e si sarebbe dovuto usare l’italiano standard, anche se nessuno ufficialmente ha mai vietato schwa e asterischi: ma quanti verbali sono pieni di anglicismi inutili per i quali nessuno protesta? E poi, come si fa a dire che un gruppo di organizzativi, che hanno scelto un elemento considerato inclusivo per colleghi che dovranno insegnare proprio l’inclusione e la diversità come valore, dal punto di vista economico, stiano imponendo lo schwa? E’ possibile che in questo Paese vinca tutto quello che è contro? Che ogni argomento debba essere ideologizzato e contro-ideologizzato. Massimo Arcangeli, che, premetto, non conosco, oltre ad aver fatto passarella sui media e su tv e radio, con una visibilità che non avrebbe neanche sognato, in così poco tempo, ha portato all’attenzione lo schwa, che gli piaccia o no…

  12. Per quanto la finalità sia condivisibile, dubito che l’uso della schwa abbia la minima possibilità di attecchire, sopratutto in tempi astiosi come i nostri.
    Accontentiamoci dell’introduzione del femminile nelle professioni, che già mi pare una conquista insperata e ignoriamo le petizioni provocatorie, che tanto lasciano il tempo che trovano.
    Poi ha ragione Giorgio, nel suo commento, quando (e se) cambierà la mentalità, cambierà anche la lingua.

  13. Grazie per avermi chiarito le idee con l’articolo. Sono andato subito a firmare la petizione contro

  14. Mamma mia, in che metamondo assurdo vivono questi. Tante parole a caso, tanto sproloquio per dire nulla, e per dirlo male, senza cognizione di alcunché, tantomeno di linguistica naturalmente. Un senso di vuoto e di vomito: chi sono questi due, Maner&Raim?
    Una coppia di comici? Casi umani? No, sul serio. Non frequento i social, non leggo giornalacci né guardo tv spazzatura, quindi davvero non posso sapere chi siano. Vi prego, non ditemi che sono insegnanti di una qualsivoglia materia. Non ditemi che sono pagati con soldi pubblici per esprimere questo genere di minchiate ai nostri poveri ragazzi.

  15. …ə pənsarə che sarəbbə bastato ignorarla, la schwa. Ma niəntə, i cattivi in quəsto paəse sono così tonti da avər paura di una lətterina, e allora ci si ritrova pure a difəndərla, la ləttərina; una ləttərina chə in situazioni normali nəssuno avrəbbe mai usato, əssəndo in fondo un’idəa un po’ così.

  16. Quanto è lenta l’Italia lo si vede dalla durata infinita di polemiche sul nulla… parliamo del DDL sicurezza?

  17. Prof. Raimo con tanta franca e educata convinzione : MA CERCHI DI STARE “CON I PIEDI PER TERRA” i problemi che interessano le normali persone sono altri : vada alla posta,in autobus,si metta in fila al supermercato a dal suo medico curante scoprira’ un mondo a Lei ignoto. ( Consiglio non richiesto :legga meno se questo e’ il mortificante risultato ottenuto).
    Buon Tutto

  18. @dorita. Dolente, non sono per nulla di destra ma ritengo lo schwa posticcio ed orrendo. Unito agli asterischi rende la nostra lingua ridicola ed illeggibile, al di là di ogni colorazione politica.

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