Rap, sogni e segreti in un carcere minorile

Pubblichiamo un estratto dal libro di Francesco “Kento” Carlo Barre Rap, sogni e segreti in un carcere minorile, ringraziando editore e autore.

«Non voglio cazzate». Batto il palmo della mano aperta sulla superficie verdastra del banco. Abbastanza piano da non fare davvero rumore, che suonerebbe come uno schiaffo in faccia ai ragazzi. Abbastanza forte da sottolineare le parole col gesto. Non voglio cazzate.

Qualche cazzata, inevitabilmente, i ragazzacci me la faranno. Io lo so bene. Ma loro no, non ancora. Gli occhi spalancati e attenti, le mascelle serrate, siedono dritti e volenterosi sulle vecchie sedie di legno di fronte a me. È il primo giovedì di settembre, e ho appena iniziato il ciclo di laboratori rap al carcere minorile, inaugurandolo con questa specie di discorsetto motivazionale.

Lo faccio sempre durante il primo incontro, e loro ci stanno credendo più di quanto ci creda io. Le parole sono quelle che ho rivolto a tanti altri giovanissimi detenuti in giro per l’Italia, non serve più provarle. Così sul trenino regionale che mi ha portato fin qui mi sono permesso il lusso di svuotare la testa e lasciar parlare la musica in cuffia.

Ecco, la musica in cuffia, io seduto al posto finestrino: è da qui, facendo un passo indietro, partendo da quando salgo sul regionale, che deve iniziare davvero questo racconto. In città fa ancora caldo, l’aria condizionata è accesa in tutti i vagoni, ovviamente troppo forte, si gela. C’è chi tira fuori giubbotti leggeri o perfino felpe, mormorando imprecazioni tra le labbra. Almeno presumo che siano imprecazioni, con la musica non le sento.

A me il freddo non dà fastidio, so che mi aspetta un bel tratto a piedi al sole prima di varcare i cancelli dell’ipm (Istituto Penale per Minorenni) e che, una volta entrato, non ci sarà modo di sottrarmi alla temperatura e agli odori della prigione. Quindi per questa mezz’ora di viaggio mi godo la bolla gelida di rap e isolamento ovattato.

La carrozza è abbastanza affollata, non ancora come lo sarà la settimana prossima, quando ricominceranno le scuole e mi dovrò fare largo tra gli studenti che tornano a casa. Adesso per loro è ancora vacanza, e difatti eccone un gruppetto che torna dalla spiaggia. Li vedo benissimo riflessi nel finestrino. Una ragazza scuote i capelli in un lampo rosso scuro, un’altra ride. Per un istante ho la tentazione di scostare una cuffia e ascoltare cosa dicono.

L’estate è quasi finita, il nuovo anno scolastico è alle porte. Scendono lasciandosi dietro profumo di tè alla pesca e nostalgia leggera. Presto mi ritrovo da solo. Niente di strano: la città sta finendo, le stazioni sono più rade e così anche i passeggeri. La prossima è la mia.

Il caldo mi dà uno schiaffo nel momento in cui scendo sulla banchina. Prendo una bottiglietta d’acqua al distributore e mi appresto a percorrere il chilometro abbondante che mi separa dal carcere. Il panorama è bello, quasi collinare. Da un lato una fila di alberi tutti dritti e sani, che starebbe benissimo in una di quelle poesie che si studiano al liceo; dall’altro, una serie di circoli e impianti sportivi privati. Sarebbe difficile pensare a una posizione migliore: a pochi chilometri dalla città, ma in mezzo al verde.

Tra qualche ora, quando il sole darà tregua, i campetti si popoleranno di sportivi, risate e divertimento. Ma il primo pomeriggio scotta ancora. Bevo un lungo sorso d’acqua. «La prossima volta ci vengo in macchina»: lo dico sempre e non lo faccio mai. Il tratto a piedi è una parte fondamentale di tutti i miei giovedì, quella in cui raccolgo le energie, quella in cui, probabilmente, il mio umore è migliore e mi sento più all’altezza della sfida. E oggi mi serve essere pronto più che mai: il primo incontro di settembre è sempre il più difficile. Buona parte di quello che succederà nei prossimi mesi dipende da oggi.

È una sorta di inizio dell’anno scolastico: i ragazzi valutano il nuovo insegnante, capiscono fino a dove si possono spingere, sperimentano le dinamiche sociali in un contesto diverso: l’aula teatro sostituisce la cella, il campo di calciotto in cui giocano nell’ora d’aria, l’officina. Qui non hanno un ruolo specifico – detenuto, ala sinistra o apprendista tornitore – e questa è già una novità che spesso non sanno come gestire. Qui non sono quelli a cui viene detto cosa fare – Stai in silenzio! Crossa lungo! Attento alle scintille! – ma quelli che dicono. Sono davanti al microfono. Certo, questo ancora non lo sanno, e farglielo capire è tre quarti del mio lavoro.

 

Aggiungi un commento